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L’oppio della Cina

Francesco Palmieri

C’è chi vede in TikTok lo strumento con cui Pechino intende vendicarsi con l’occidente per la storia umiliante che si cela dietro alle guerre dell’800

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Uno spettro s’aggira per l’Europa: lo spettro del comunismo”. Così recitava, nel 1848, uno degli incipit più celebri della storia. Nello stesso momento in cui veniva pubblicato il Manifesto del Partito comunista, altri milioni di spettri s’aggiravano. Ma per la Cina. Spettri umani, non ideologici, benché ridotti pelle e ossa per il famelico consumo d’oppio. Ai cinesi la droga la vendeva quella stessa borghesia di cui Marx e Engels parlavano nel loro smilzo opuscolo e i cui esponenti infaticabili, ben messi in carne, incrociavano a passeggio per le vie di Londra. Sei anni prima il rampante impero britannico, vincendo la cosiddetta Guerra dell’oppio, aveva estorto al declinante impero cinese con il Trattato di Nanchino l’apertura di cinque porti e la cessione di un’isola scogliosa nel Mar delle Perle. Adesso sì che tutti si mostravano più rilassati, a Londra, bevendo il tè delle cinque: fino a poco tempo prima ogni sorsata angosciava chi avesse a cuore la bilancia commerciale, che pendeva tutta a favore della Cina. Perché, come se non bastasse il tè, le ditte inglesi assecondando la domanda compravano dal Celeste impero porcellane, sete, broccati, tessuti di cotone. Con l’oppio, finalmente, giunse la loro salvezza.

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Uno spettro s’aggira per l’Europa: lo spettro del comunismo”. Così recitava, nel 1848, uno degli incipit più celebri della storia. Nello stesso momento in cui veniva pubblicato il Manifesto del Partito comunista, altri milioni di spettri s’aggiravano. Ma per la Cina. Spettri umani, non ideologici, benché ridotti pelle e ossa per il famelico consumo d’oppio. Ai cinesi la droga la vendeva quella stessa borghesia di cui Marx e Engels parlavano nel loro smilzo opuscolo e i cui esponenti infaticabili, ben messi in carne, incrociavano a passeggio per le vie di Londra. Sei anni prima il rampante impero britannico, vincendo la cosiddetta Guerra dell’oppio, aveva estorto al declinante impero cinese con il Trattato di Nanchino l’apertura di cinque porti e la cessione di un’isola scogliosa nel Mar delle Perle. Adesso sì che tutti si mostravano più rilassati, a Londra, bevendo il tè delle cinque: fino a poco tempo prima ogni sorsata angosciava chi avesse a cuore la bilancia commerciale, che pendeva tutta a favore della Cina. Perché, come se non bastasse il tè, le ditte inglesi assecondando la domanda compravano dal Celeste impero porcellane, sete, broccati, tessuti di cotone. Con l’oppio, finalmente, giunse la loro salvezza.

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“TikTok non è solo la vendetta per un secolo di umiliazioni tra la Guerra dell’oppio e la rivoluzione di Mao. TikTok è esso stesso l’oppio”


 

La droga estratta dai papaveri coltivati nel Bengala, mai fiore fu più gradito ai mercanti, era quel che la Cina agognava importare. Non la scoprì con i mercanti inglesi della Compagnia delle Indie orientali: s’usava l’oppio da secoli come sostanza terapeutica, dei cui piaceri acclarati fu fatto vizio a poco a poco. Era un lusso per ricchi stravaganti e abbienti funzionari, ma quando gli occidentali e i loro soci cantonesi capirono che sarebbe piaciuto anche alle masse, intrapresero un selvaggio contrabbando. Più ne vendevano più la clientela, assuefatta, ne domandava sfidando la formale proibizione. Nel 1820 entrarono in Cina poco meno di diecimila casse, ciascuna pesante tra i 60 e i 72 chili, ma già nel 1835 se ne stimavano circa 35.400.

 

Come mai nella storia, il corpo di una nazione s’identificò col corpo dei suoi figli: questi prosciugati nel fisico dal veleno che fumavano, e quella nelle casse, con la pregiata valuta che sfumava, poiché l’oppio si comprava in dollari d’argento e ben quattro milioni e mezzo se n’andarono all’estero solo fra il 1835 e il 1836. Quanti erano, intanto, gli oppiomani? Chi ne contò quattro milioni, chi azzardava addirittura 12. E’ certo solo che il numero si moltiplicò e malgrado il futuro avvento della morfina, poi dell’eroina, nonostante la severità delle leggi, il consumo d’oppio avrebbe intaccato le energie del paese più popoloso della Terra, proseguendo fino alla seconda metà del secolo scorso a Hong Kong e nelle comunità cinesi all’estero una volta sradicato nella madrepatria. Questo accadde allora.

 

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Non è che la storia si ripeta, ma sovente s’assomiglia. Oggi uno spettro s’aggira per l’Europa (e per gli Stati Uniti d’America): quello del comunismo (di Xi Jinping). Non è solo geopolitico, commerciale, ideologico. C’è chi paventa la sua incarnazione in spettri umani, milioni di addicted di una droga digitale e per colmo la più stupida fra tutte: TikTok, app cinese cui il presidente Trump ha dato il benservito negli States. Chi paventa il timore mostra forse una coda di paglia la cui punta finisce in quel trattato di Nanchino di 180 anni fa, o al contrario ha ragione, essendo un autorevole storico (naturalmente britannico di nascita): Niall Ferguson, il quale giorni fa ha chiesto al figlio di otto anni, un tik toker, come l’app funzionasse e se l’è studiata una mezz’ora. “Come fa a essere una minaccia per la sicurezza nazionale americana?”, s’è domandato. “Poi ho avuto l’illuminazione. TikTok non è solamente la vendetta cinese per un secolo di umiliazioni tra la guerra dell’oppio e la rivoluzione di Mao. TikTok è esso stesso l’oppio – un Fentanyl digitale per abituare i nostri ragazzi all’impero cinese”. La rapida smentita della stampa governativa cinese non scioglie il dubbio sollevato da Ferguson ma neanche quello – al di là delle intenzioni di Pechino – che la storia realizzi da sé una sua nemesi.

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La Cina semicolonizzata dall’occidente nella sua ora più buia, che cominciò con la Prima guerra dell’oppio, aspira adesso al ruolo di prima potenza mondiale e intanto s’è ripresa dagli inglesi quell’isola scogliosa ceduta col trattato di Nanchino, ritrovandola piena di banche, grattacieli, commerci ma ultimamente anche di migliaia di giovani ostili al regime. Quell’isola chiamata Hong Kong diventò prospera grazie al contrabbando d’oppio: già nel 1849 passava di là il 75 per cento della droga proveniente dall’India verso la Cina.

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“C’è anche un altro tipo d’invasione culturale pericoloso: insinuare l’idea che le democrazie liberali non siano efficienti”


 

Se alla fine del 700 il grande imperatore Qianlong aveva liquidato con sprezzo la missione di Lord Macartney, perché non s’era prostrato davanti a lui come prescritto dal cerimoniale, nel 1839 un alto mandarino quale Lin Ze-xu era costretto a scrivere una lettera accorata alla regina Vittoria supplicando di vietare la coltivazione del papavero: “Finché voi continuerete a produrre oppio e a indurre il popolo cinese ad acquistarlo, voi vi mostrerete preoccupata per la vita dei vostri sudditi, poco sollecita per la vita degli altri uomini, e indifferente al male che fate agli altri nella vostra avidità di denaro. Una simile condotta ripugna al sentimento umano e non si confà alla Via del Cielo”. Quel mandarino avrebbe distrutto casse e casse di droga nell’olio bollente, ma il suo appello rimase inascoltato e alla prima Guerra dell’oppio seguì la seconda, conclusa nel 1860 con trattati ancora più onerosi che avrebbero ampliato le forzate concessioni agli inglesi, alle potenze occidentali e successivamente ai giapponesi. E avrebbero, persino, legalizzato l’importazione dell’oppio. Una sconfitta completa.

 

Ferguson, quando si dice certo che TikTok sia una “vendetta cinese”, avrà ripensato alle pagine scritte da lui stesso nel saggio Impero. Come la Gran Bretagna ha fatto il mondo moderno, dove ricordava che il 40 per cento del valore totale delle esportazioni dall’India era rappresentato dall’oppio e che “non c’era molto spazio per nobili discorsi di principio” (pensando forse al supplichevole mandarino Lin). E ancora ricordava che nel 1860, mentre il debole e antico impero del Drago sottoscriveva i negoziati, la corona inglese dominatrice dei mari varava la più possente nave da guerra che mai li avesse solcati, la Warrior con cannoni a retrocarica, gioiello di una flotta militare di 240 unità su cui l’impero imbarcava un equipaggio complessivo di 40 mila uomini. Una potenza che sarebbe stata impiegata contro i navigli negrieri per abolire il commercio degli schiavi, ma “anche per ampliare quello dei narcotici”. “Ironiche contraddizioni del sistema di valori vittoriano”, osservò Ferguson, e si capisce perché a lui sia sorta l’idea – giusta o sbagliata – che TikTok sia l’altrettanto ironica vendetta dei soccombenti d’una volta. Si capisce ancora meglio riesplorando fra i suoi scritti Il grande declino, quello dell’occidente, in cui sottolineava come nel 1978 (epoca che ci appare falsamente remota) l’americano medio “risultava ventidue volte più ricco del cinese medio”, ma anche come “appena trecento anni fa” (epoca che ci appare quasi vicina) “il cinese medio stava forse leggermente meglio dell’americano medio”. L’angoscia di una Rota Fortunae che rigira, trapela fra le righe dello storico e gliel’avrà letta in volto il figlio di otto anni quando papà Niall, dopo mezz’ora di TikTok, ha avuto “l’illuminazione”. Riemerge forse il sotteso senso di colpa british che a Lord Gladstone fece definire il commercio dell’oppio “this most infamous and atrocious trade”; che fece pubblicamente indignare Dickens dopo avere esplorato le fumerie cinesi a Londra (ma lui privatamente si confortava con il laudano); che incuriosì Sir Arthur Conan Doyle dando spunto a un racconto di Sherlock Holmes (The man with the twisted lip); che intrigò Graham Greene fumando l’oppio in Vietnam. Ma l’oppio, che prima ancora aveva dato ispirazione a Coleridge per La ballata del vecchio marinaio, a Wilkie Collins per La pietra di luna o a de Quincey per famose pagine sull’argomento, restò oltre le scogliere di Dover sempre una stravaganza rara, vezzo o vizio da intellettuali, e anche se la lista è lunga non insidiò mai la generale dipendenza dai pub né il nerbo della nazione. Mai. Questa era debolezza da cinesi.


Riemerge il senso di colpa british che a Lord Gladstone fece definire il commercio dell’oppio “this most infamous and atrocious trade”


 

Difatti anche oppiomane nonché perfidissimo fu immaginato il Dr. Fu Manchu nei romanzi di Sax Rohmer, cui diede volto al cinema Christopher Lee, non a caso anche interprete di Dracula. Era l’incorporazione narrativa di quel “Pericolo giallo” oggi evocato dall’occidente come lo fu all’epoca della Rivolta dei Boxer, con i 55 giorni d’assedio al quartiere diplomatico di Pechino nel 1900. Il moto xenofobo venne stroncato con una spedizione militare internazionale le cui devastazioni bruciano ancora, e si tradusse in una strage di quei patetici pugilatori, convinti di resistere ai cannoni grazie a talismani e formule magiche. Un altro inglese d’élite, Peter Fleming (fratello di Ian, il creatore di James Bond) istruito a Eton e Oxford, corrispondente del Times, li qualificò ironicamente contadini “in fancy dress”.

 

Materia per “vendetta cinese”, insomma, ci sarebbe. Ne è tuttavia poco convinto Paolo Santangelo, già ordinario di Storia della Cina all’“Orientale” di Napoli e di Storia dell’Asia orientale alla Sapienza: “Non vedo nel caso specifico di TikTok una volontà imperiale di trasmissione di valori cinesi né di narcotizzare con una sorta d’oppio digitale i giovani occidentali. Cosa dovremmo dire allora del Giappone con i manga? Quella sì che è stata una forma di espansione culturale. TikTok è un’app ingenua, giocosa, senz’altro meno dannosa di certi manga”. E’ altrove che il professor Santangelo scorge il disegno di egemonia culturale: “Gli Istituti Confucio sono un’arma straordinaria. Non impongono niente eppure inducono le università italiane, per convenienze di budget, all’autocensura: non ho mai trovato un ateneo che discutesse materie ‘sensibili’ per Pechino, sicché gli Istituti Confucio riescono a condizionare le conoscenze sulla Cina contemporanea. E c’è anche un altro tipo d’invasione culturale pericoloso: insinuare l’idea che le democrazie liberali non siano efficienti. Che al contrario la gestione cinese sia un esempio funzionale e funzionante. Certo un po’ autoritario… Ma intanto come stanno male gli occidentali!”.

 

E’ plausibile una rivalsa “Oppio per oppio – dente per dente”? “Il cinese medio non s’occupa granché della storia. Certo la conosce, se ci ripensa prova risentimento, ma quello maggiore – spiega Santangelo – è rivolto al Giappone per gli orrori perpetrati nel Novecento. Gli anni delle Guerre dell’oppio, per chi ha un passato straordinario come la Cina, sono considerati il momento più buio, ma non rilevo una voglia di vendetta che comunque riguarderebbe principalmente la Gran Bretagna. Invece una pagina nera per l’occidente in generale fu scritta con la spedizione internazionale durante la Rivolta dei Boxer: lì abbiamo commesso atti indegni di nazioni cosiddette civili”.


“Non vedo nel caso specifico di TikTok una volontà imperiale di trasmissione di valori cinesi”, dice il professor Santangelo 


 

Fu nell’ultimo scorcio dell’Ottocento che la Cina comprese l’importanza della tecnica su cui poggiava la supremazia straniera e l’associò alla salute dei corpi, sviliti dalla droga di massa. Il filosofo Yan Fu coniò il termine per tradurre la parola sport – tiyu – e ne raccomandò la pratica assieme all’eradicazione dell’oppio. Cominciarono ai primi del Novecento la ripresa su vasta scala delle arti marziali e il recupero degli esercizi fisici di cui la Cina disponeva dall’antichità. Mentre l’impero esausto si spegneva, la cultura popolare esaltava nuovi eroi. Il prototipo fu Huo Yuanjia, che piegò un campione russo ma finì avvelenato da un cuoco giapponese. Il suo mito fu ripreso da Bruce Lee nel film Dalla Cina con furore: mandò in delirio le platee di Hong Kong quando fece ingoiare ai lottatori nipponici il cartiglio “Malati dell’Asia”, che etichettava i cinesi dipendenti dall’oppio (lo ripropose il Wall Street Journal in un titolo sul coronavirus e i suoi giornalisti furono espulsi da Pechino). Analoghe imprese abbelliscono la saga cinematografica su Ip Man (vero maestro di Bruce Lee), il quale consumò la droga anche lui: nato nel 1893, aveva già 53 anni quando, nel 1946, l’Armata Rossa esibì in un campo di prigionia la moglie dell’ultimo imperatore. Wanrong fu messa in una gabbia esposta al pubblico dove impazzì per astinenza da oppio finché stremata dalle urla, dalla fame e dal bisogno di droga non cadde morta sui suoi escrementi.

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