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Le Madonne cancellate

Nadia Terranova

Com’è triste il Ferragosto della mia Messina senza la “vara” dell’Assunta, senza la processione e senza i Giganti che aprono i festeggiamenti. Colpa del Covid. Il sud sembra ancora più povero

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L’anno scorso di questi tempi ero in Calabria a parlare di un libro, quando una delle molte Madonne che d’estate camminano per le strade del Sud è passata davanti alla piazzetta dove si stava svolgendo la presentazione. Ho interrotto la frase e mi sono alzata per salutarla, e così tutti gli altri, relatori e pubblico, qualcuno si è tolto il cappello in segno di ossequio (non sono sicura che sia successo davvero, ma è il dettaglio che congiunge la scena con una certa commedia italiana in bianco e nero, non posso permettermi di ometterlo). Nessuno ha detto una parola fino alla fine, finché non è sfilato l’ultimo partecipante alla processione. Era tutto perfetto: il crepuscolo, il mormorio, i canti, il prete che benediceva noialtri distratti da tentazioni mondane, perfino me, colpevolmente venuta da Messina a presiedere la manifestazione di una irrispettosa concorrenza. Poi, dopo che la Vergine aveva girato l’angolo, siamo tornati in silenzio ai nostri posti, il mio co-relatore mi ha guardata e ha detto: eh, se ci fosse stato Pasolini a vivere questo momento. Ho annuito, senza sapere bene cosa rispondere (non so mai bene cosa rispondere ogni volta che qualcuno rimpiange Pasolini, succede di continuo), e abbiamo ricominciato a parlare di libri. Sul traghetto per tornare a casa, ho pensato che non sarei mai più andata in un posto ignorando le date delle sue feste sacre, non solo per non trovarmi più a portare lo sgraziato vessillo dell’alternativa pagana, ma soprattutto perché stare dall’altra parte mi avrebbe impedito di parteciparvi. E io, confesso, le amo.

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L’anno scorso di questi tempi ero in Calabria a parlare di un libro, quando una delle molte Madonne che d’estate camminano per le strade del Sud è passata davanti alla piazzetta dove si stava svolgendo la presentazione. Ho interrotto la frase e mi sono alzata per salutarla, e così tutti gli altri, relatori e pubblico, qualcuno si è tolto il cappello in segno di ossequio (non sono sicura che sia successo davvero, ma è il dettaglio che congiunge la scena con una certa commedia italiana in bianco e nero, non posso permettermi di ometterlo). Nessuno ha detto una parola fino alla fine, finché non è sfilato l’ultimo partecipante alla processione. Era tutto perfetto: il crepuscolo, il mormorio, i canti, il prete che benediceva noialtri distratti da tentazioni mondane, perfino me, colpevolmente venuta da Messina a presiedere la manifestazione di una irrispettosa concorrenza. Poi, dopo che la Vergine aveva girato l’angolo, siamo tornati in silenzio ai nostri posti, il mio co-relatore mi ha guardata e ha detto: eh, se ci fosse stato Pasolini a vivere questo momento. Ho annuito, senza sapere bene cosa rispondere (non so mai bene cosa rispondere ogni volta che qualcuno rimpiange Pasolini, succede di continuo), e abbiamo ricominciato a parlare di libri. Sul traghetto per tornare a casa, ho pensato che non sarei mai più andata in un posto ignorando le date delle sue feste sacre, non solo per non trovarmi più a portare lo sgraziato vessillo dell’alternativa pagana, ma soprattutto perché stare dall’altra parte mi avrebbe impedito di parteciparvi. E io, confesso, le amo.

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Sono nata in una famiglia messinese cui della Vara importa meno di zero, quindi, ovviamente, fin da bambina l’ho adorata


 

Sono nata in una città la cui festa principale è la Vara (vara è, dalle mie parti, il carro su cui dappertutto si porta a spasso la Madonna locale il giorno in cui esce dalla chiesa, ma la Vara, scritta con la maiuscola, è solo quella di Messina – vara è il dialetto di “bara”, il giaciglio della Vergine). Sono riuscita a nascere in una famiglia messinese cui della Vara importa meno di zero, quindi, ovviamente, fin da bambina l’ho adorata, come si ama tutto quello che fai di nascosto per sentirti parte di qualcosa che non ti appartiene. Se Vara non doveva essere, che Vara invece fosse: nulla volevo mi fosse risparmiato: la càlia (semi tostati), le caramelle di zucchero rosse bianche e verdi, le leggende sui bambini morti cadendo dal carro quando erano bambini veri e non pupazzi, le leggende sui bambini che invece pur essendo caduti non sono morti perché la Madonna li ha salvati, i tiratori che escono dal carcere con i permessi speciali, i tiratori che alla fine regalano pezzi di corda santa, i tiratori che mentre tirano il carro della Madonna per il caldo e per la fatica bestemmiano la Madonna (e le leggende pure su quello), i simboli del carro, talmente ingegnoso da essere chiamato in confidenza “la macchina”, e soprattutto la processione. Il quindici agosto taglia la città in due: prima la Madonna è in un quartiere, dopo in un altro. Tutti gli altri mesi dell’anno se ne sta nascosta, come le cose sacre. All’università, leggendo Walter Benjamin che parlava dell’aura delle opere d’arte e delle opere che prendono significato lontano dagli occhi umani, pensavo: la Vara.

 

Così, ogni volta che l’inverno è da buttare, a Ferragosto me ne vado a Messina, anche se il “Ferragosto messinese” con il suo complesso di forze cristiane e pagane agonizza, i locali della vecchia fiera campionaria versano in stato di abbandono e del tripudio mistico e commerciale dei decenni scorsi non è rimasto molto. Ogni volta che trascorro un anno terribile, io a un certo punto mi consolo con la Vara. La cosa bella delle processioni è che tutti gli anni risorgono come nuove, il tragitto del carro da piazza Castronovo a piazza Duomo è sempre come fosse il primo, e ogni volta posso godere il mio momento preferito, che non è la storica e complicata “voltata”, quando la Madonna deve svoltare e prendere una strada sulla destra, ma quello in cui si ferma davanti alla statua del Nettuno. Allora, scattando una sola foto, si possono catturare un uomo nudo che stringe il tridente e una Vergine castamente abbigliata alle sue spalle. Dopo il terremoto-maremoto del 1908, la statua del Nettuno è stata girata: la sua mano non benedice più la città, ma è volta ad ammonire lo Stretto, a tenere a bada il mare. Il risultato è che, al passaggio della Vara, dà le sode terga a Maria: per un momento i templi pagani non sono mai stati distrutti e la convivenza fra religioni è la cosa più fattibile del mondo. In più, a pochi metri dalla scena c’è il musulmano Grifone, altro protagonista del Ferragosto messinese, uno dei due enormi carri di cartapesta che raffigurano una gigantessa bianca e un gigante nero, su cavalli dagli stessi colori. Anche i Giganti si fanno la loro passeggiata, qualche giorno prima per non urtare il cammino dell’Assunta (non sono irrispettosi come certe presentatrici di libri) e, così come la Madonna si piazza davanti alla cattedrale, la coppia sosta davanti al municipio. E lì restano entrambi fino a fine mese, a raccontare a chi le vuole cogliere un po’ di storie sulle molte varietà di amor sacro e amor profano.


C’è qualcosa che manca nell’aria e, confesso, il Ferragosto messinese senza né Vara né Giganti mi è intollerabile


 

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Al contrario della Vara, che veniva perlopiù ignorata, i Giganti a casa mia erano tollerati. La sera si andava a prendere il fresco a piazza Municipio alla loro ombra, sotto i loro piedi penzolanti. Lì mio nonno mi comprava i palloncini, compreso quello di Mazinga, il mio preferito di sempre (ne ho conservato il cadavere per anni), lì mio zio mi ha preso una volta sulle spalle perché volevo toccare il piede di Mata. Negli ultimi anni, il saraceno e la cristiana che si amano alla follia e guardano il mare sono stati tirati in ballo da decine di battute antileghiste, anche se in realtà, come ogni storia medievale, la loro è una storia di conversione e sottomissione: il moro lascia la religione sbagliata e abbraccia quella giusta per poter sposare la pulzella, non prima di aver devastato la città per la rabbia (spoiler: la ricostruirà a sue spese con amor cristiano). Se dovessi spiegare il rapporto tra cristianesimo e politica, direi che i Giganti fanno più di cento manuali su potere imperiale e papale.

 

Quando uscì Feste religiose in Sicilia, il libro che consacrò il talento di Ferdinando Scianna, lo scritto di Leonardo Sciascia che accompagnava le fotografie scatenò una discussione sull’irreligiosità dell’autore; era il 1964 (oggi il libro è introvabile, ma il testo è nella raccolta La corda pazza) e certe righe non furono prese bene. “Ma una festa religiosa – che cosa è una festa religiosa in Sicilia? (…) E’, innanzi tutto, una esplosione esistenziale; l’esplosione dell’es collettivo, in un paese dove la collettività esiste soltanto a livello dell’es. Poiché è soltanto nella festa che il siciliano esce dalla sua condizione di uomo solo, che è poi la condizione del suo vigile e doloroso super-io (stiamo impiegando con approssimazione i termini della psicoanalisi), per ritrovarsi parte di un ceto, di una classe, di una città”. Sciascia, come sempre, descriveva ai siciliani loro stessi, e ai siciliani non piace essere descritti con tanta esattezza (a nessuno, a dire il vero); la forza di quel testo è di non limitarsi a descrivere le foto ma bucarle, attraversarle con secoli di storia. La lunga analisi di Sciascia comincia proprio da Messina, da una storia di qualche secolo fa, quando, dopo il rovinoso terremoto del 1783, il viceré Domenico Caracciolo credette, per aiutare la ricostruzione della città, di poter contare sul senso di solidarietà dei palermitani e propose una decurtazione della dispendiosissima festa di santa Rosalia. “Questo viceré riformatore, che era già riuscito ad annientare il Tribunale dell’Inquisizione e si accingeva a scardinare l’usurpazione e il privilegio feudale, appena si attentò a toccare i fasti di santa Rosalia, di colpo si trovò a perdere il favore di tutti i ceti alla cui affrancazione la sua opera tendeva”.


La cosa bella delle processioni è che tutti gli anni risorgono come nuove, il tragitto del carro è sempre come fosse il primo


 

Sciascia fa poi un excursus dell’indignazione e dello sbeffeggiamento che il viceré che aveva osato scherzare coi santi attirò non solo su di sé ma sull’intera sua memoria: “Per tutto il secolo successivo e oltre, non fu risparmiato al Caracciolo, a proposito di questo episodio, biasimo e vituperio”. Il barone Giovan Ciro Mortillaro, in rappresentanza del Senato di Palermo, andò a difendere la festa santa davanti a re Ferdinando, insieme alla sorella Camilla, “quella distinta donna ardente di amore municipale stimava affronto alla terra natia e irriverenza alla patrona il pensiero caracciolesco” (parole di Vincenzo Mortillaro). L’episodio viene riportato con stizza e irritazione dal Pitrè, dallo storico Isidoro La Lumia, dal benedettino Giovanni Evangelista Di Blasi, che ne parla come di un grosso errore politico che costò al Caracciolo la perdita del favore popolare.

 

“Quest’errore”, scrive Sciascia, “si sono ben guardati dal ripeterlo i successivi viceré e luogotenenti, i prefetti savoiardi e della Repubblica, i gerarchi fascisti, i massoni, i radicali, i socialisti, i comunisti. I cortei dei Fasci siciliani si aprivano con le bandiere dell’Internazionale e le immagini dei santi patroni; e i comunisti sono sempre stati, nei paesi, tra i primi e più zelanti sostenitori delle feste religiose”.


“Che cosa è una festa religiosa in Sicilia? (…) E’, innanzi tutto, una esplosione esistenziale; l’esplosione dell’es collettivo” 


 

E’ l’estate duemilaventi e le strade del sud sono vuote di Madonne e carri votivi. I messinesi fanno presente che non c’era un’interruzione della Vara dalla fine della Seconda guerra mondiale e ricordano le processioni più difficili, come quella dopo il terremoto del 1908. Il Caracciolo con cui prendersela quest’estate è il Covid-19, e se la parabola del viceré è stata esemplare per i politici, è più difficile che un virus ne tragga insegnamento. C’è qualcosa che manca nell’aria e, confesso, il Ferragosto messinese senza né Vara né Giganti mi è intollerabile: pur di non vedere quelle piazze vuote sono scappata in un’altra regione. Come lenitivo, ho riletto Sciascia e riguardato le foto di Scianna: se non posso avere le mie processioni, allora le voglio almeno immaginare tutte, dalla prima all’ultima, i “giudei” di San Fratello, la Madonna del Monte a Racalmuto, sant’Alfio a Trecastagni e a Lentini. Le voglio tutte, perché stavolta non posso chiudere il libro e alzarmi a omaggiarne il passaggio.

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