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Privacy? Il guaio di Rousseau è la ghigliottina

Massimo Adinolfi

Diede l’avviso di sfratto ai regnanti europei con qualche anno d’anticipo sulla Rivoluzione francese. Una rilettura del filosofo più amato dai Cinque stelle. Il liberalismo sepolto, il moralismo, la rappresentazione (e la rappresentanza) come falsità

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1762: ventisette anni alla Rivoluzione. L’Europa è ancora convulsa in un groviglio di rapporti diplomatici e militari: la Guerra dei Sette anni. In Inghilterra regna Giorgio III, in Russia muore la zarina Elisabetta e ascende al trono Pietro, in Prussia brilla l’astro di Federico II. In Francia la corona è sul capo di Luigi XV, ma le cose non vanno benissimo. Il sovrano non è più il Beneamato, come all’inizio del suo regno, e neanche la sua onnipresente amante, Madame de Pompadour, è amata dal popolo. In quell’anno, però, nasce finalmente il diritto politico. O almeno così sostiene lui, l’autore de Il contratto sociale, il ginevrino Jean Jacques Rousseau, che aveva consegnato all’editore il prezioso manoscritto giusto qualche mese prima. Rousseau non stava nella pelle, ma era anche preoccupato. In una lettera al libraio Duchesne, una settimana dopo la pubblicazione del Contratto – maggio 1762 – scrive: questo libro non è assolutamente fatto per la Francia. E si capisce: se tu sostieni che il diritto politico ancora non esiste, che tutti quelli che si sono interessati di politica si sono al più occupati del diritto positivo dei governi esistenti, ma non dei principi da cui quei governi dovrebbero discendere, che anzi li ignorano, e che per esempio Grozio, uno che in materia contava e aveva contato, non era stato in realtà che un fanciullo, per giunta in mala fede, beh: stai dando – per quel che ti compete, cioè come filosofo – l’avviso di sfratto a tutti i regnanti europei. Primi fra tutti i Borboni di Francia. E di fatto le cose andarono proprio così: ventisette anni, e la Bastiglia cade. E il Contratto, che fino ad allora quasi nessuno aveva letto – Rousseau era semmai l’autore dell’Emile – diviene straordinariamente popolare. “Oggi – scrive il cittadino Mercier nel 1791 – tutti i cittadini lo meditano e lo imparano a memoria”.

 

“La sovranità non può essere rappresentata per la medesima ragione che non può essere alienata; essa consiste nella volontà generale, e la volontà non si rappresenta […]. I deputati del popolo non sono dunque i suoi rappresentanti, ma soltanto i suoi commissari: non possono concludere nulla in maniera definitiva”

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Eh, già: perché tutti i philosophes, che avevano animato la scena intellettuale francese dalla metà del Settecento, non ebbero il piacere di assistere né al giuramento della Pallacorda, né all’elezione dell’Assemblea Nazionale, né al ghigliottinamento del Re. Morirono tutti prima. Ma negli anni della Rivoluzione tornarono in voga, e a molti di loro furono riservati grandi omaggi. Rousseau, per esempio: muore solitario nel 1778 a Ermenonville, ospite di un suo grande amico ed estimatore, il marchese di Girardin. Ma nel 1794, fase giacobina della Rivoluzione, il Ginevrino è in auge, Robespierre e Saint Just lo citano, Desmarets musica le sue parole in un Inno alla libertà e all’eguaglianza, e le sue ceneri vengono trasferite con tutti gli onori al Panthéon di Parigi, nel corso di una solenne cerimonia. (A fianco di quelle dell’odiato Voltaire, e la cosa per la verità non può aver fatto piacere né all’uno né all’altro).

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Su feste e cerimonie, magari, torno dopo. Ma intanto: cosa c’è nel Contratto sociale, che avrebbe entusiasmato i rivoluzionari dell’89? Non ci sono i re, le monarchie e le Corti della vecchia Europa. Ma c’è la soluzione alla vera difficoltà in cui si trova chi volesse per davvero dar fondamento alla politica. Che è la seguente (libro I, capitolo VI): “Trovare una forma di associazione che difenda e protegga con tutta la forza comune la persona e i beni di ciascun associato, e per la quale ciascuno, unendosi a tutti, non obbedisca tuttavia che a se stesso, e resti libero come prima”. Ora questa forma la si trova a una sola condizione, “l’alienazione totale di ciascun associato con tutti i suoi diritti a tutta la comunità”. Totale, tutti, tutta: sentite come suona? Se il liberalismo è l’età delle distinzioni e delle separazioni, come è stato detto, qui di liberalismo non ce n’è neanche un po’. E come potrebbe essercene? Se tu ipotizzi che prima del patto sociale l’uomo gode di una libertà intera, e vuoi che dopo il patto, la conservi ancora tutta intera, l’unico vincolo che il patto politico può comportare è che non vincoli uno se non vincola tutti: nel medesimo modo, nella medesima forma. Alienazione totale: a condizione che sia per tutti. Di tutti verso tutti. Così nasce la volontà generale, di cui la sovranità è espressione. E così arriva, con tutta la sua carica dinamitarda, dritta nel cuore della Rivoluzione. Prendiamo per esempio l’opuscolo dell’Abate Sieyès, Che cos’è il Terzo Stato? (gennaio 1789: ormai ci siamo!). Vi leggiamo: “La Nazione preesiste a qualsiasi legge, è da essa che originano tutte le leggi, e dunque nessuna legge può vincolarla […]. La sua volontà è la legge stessa. […]. La Nazione non è e non può essere subordinata a una costituzione, dal momento che è l’autorità ultima. Essa è indipendente da ogni forma e basta che la sua volontà si manifesti perché qualsiasi diritto positivo venga meno”. Da dove vengono queste parole? Non so, giudicate voi. Jean Jacques Rousseau, Il contratto sociale o principi del diritto politico, libro I, capitolo VII: “Ora, il corpo sovrano, non essendo formato che dai singoli che lo compongono, non ha né può avere alcun interesse contrario al loro interesse, e quindi non ha bisogno di dare garanzie ai sudditi, perché è impossibile che il corpo voglia nuocere a tutti i suoi membri […]. Il corpo sovrano, per il solo fatto di essere tale, è sempre quello che deve essere”. Certo, Rousseau parla di corpo sovrano e di popolo, e altrove ragiona di come un popolo debba essere educato, e se sia docile o corrotto, e maturo oppure no per la legislazione, mentre Seyès parla senz’altro di Nazione, con tanto di maiuscola. Ma l’alleanza giallo-verde – per usare colori di moda – era già fatta: il popolo dell’uno e la Nazione dell’altro hanno la stessa forma giuridico-politica, parimenti insofferente a leggi e garanzie che ne limitino il potere.

 

Da questa stessa forma discende anche un’altra, decisiva conseguenza. Apriamo di nuovo il Contratto. Libro III, capitolo XV: “La sovranità non può essere rappresentata per la medesima ragione che non può essere alienata; essa consiste essenzialmente nella volontà generale, e la volontà non si rappresenta […]. I deputati del popolo non sono dunque, né possono essere, i suoi rappresentanti, ma soltanto i suoi commissari: non possono concludere nulla in maniera definitiva”. Musica per le orecchie di Davide Casaleggio! I portavoce che siedono in Parlamento possono dire o fare quello che vogliono, ma non possono concludere un bel nulla. La volontà non può essere rappresentata, può solo esprimersi direttamente. E quale luogo migliore per esprimersi di una piattaforma digitale intitolata al pensatore ginevrino?

 

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In quello stesso capitolo, d’altronde, Rousseau si faceva ampiamente beffe della più antica (antica, cioè ammuffita) democrazia europea, proprio in virtù di questa iniqua e assurda idea della rappresentanza: “Il popolo inglese crede di essere libero: si sbaglia di molto; lo è soltanto durante l’elezione dei membri del Parlamento. Appena questi sono eletti, esso è schiavo, non è nulla. Nei brevi momenti della sua libertà, l’uso che ne fa giustifica davvero che esso lo perda”. Ben gli sta, dunque: se tu fai un uso così scriteriato della libertà, dal rinunciarvi rimettendoti a un parlamento, meriti davvero di tenerti la tua Casta di politicanti corrotti. Se invece dai retta a Rousseau, ti puoi chiamare per esempio Fraccaro, in una felice congiuntura fare addirittura il ministro dei Rapporti col Parlamento e lavorare un giorno alla riduzione del numero dei parlamentari, un altro all’introduzione di referendum propositivi, e un altro ancora, magari, alla madre di tutte le battaglie, quelle che hai sbandierato per anni e che davvero può scardinare i principi liberali posti in Costituzione: la fine della libertà di mandato. La pratichi già, in effetti, e chiedi già ai tuoi eletti di attenersi al voto raccolto online: perché non farne una legge costituzionale? Sarebbe del tutto coerente, anche se complicato. Perché nessuno ha capito (o tutti hanno capito fin troppo bene) perché diavolo su alcune materie si vota su Rousseau, mentre per altre si istituiscono Commissioni, e cosa il gentile notaio certifichi, se solo i numeri che gli compaiono da qualche parte, o proprio il funzionamento dell’algoritmo (e come fa? Ha le necessarie competenze informatiche?), e perché infine uno vale uno e tutti alienano tutto, come direbbe il buon Jean Jacques, ma uno invece non aliena un bel nulla, e anzi della piattaforma è il proprietario.

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Dettagli. Se invece di appassionarvi a queste sottigliezze volete comporre il quadro ideologico grillino-roussoviano non avete che da comprare il trattatello di Rousseau nell’edizione Einaudi, quella della collana Nuova Universale che si apre con un saggio introduttivo di Robert Derathé (e la traduzione di Valentino Gerratana, il grande studioso di Gramsci: ma i fili che riconducono Rousseau a Marx e alla sinistra italiana li tiriamo magari un’altra volta). Prima pagina, primo rigo: “E’ stato detto che il Contratto sociale era l’incursione di un moralista nel campo delle istituzioni civili”.

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Cavolo! Ecco cosa è stato detto (da Bertrand de Jouvenel, nel ‘47). Ecco chi era Rousseau: un moralista. Ma non solo. Perché Derathé, a titolo di precisazione e a onore di Rousseau aggiunge giustamente: mica solo un moralista nel senso di osservatore distaccato dei vizi degli uomini, come nel Seicento. No, uno che diceva: “Chi volesse trattare separatamente la politica e la morale non capirebbe mai niente di nessuna delle due”. E non c’era ancora stato il Vaffa Day!

 

Quale meraviglia, dunque, se questo inflessibile fustigatore delle istituzioni civili, non solo dei cattivi costumi, sentì l’esigenza di fare un’incursione nella sua stessa biografia e mettersi a nudo nelle Confessioni, un libro che meglio avrebbe potuto intitolarsi Streaming, se all’epoca ci fosse stata la parola (ora però non state a chiedervi che fine ha fatto lo streaming grillino, per favore). Se c’è infatti un impulso che spinge Rousseau a scriverle, è quello di sottomettere anche la sua vita al giudizio di tutti, senza nulla nascondere delle sue colpe e delle sue debolezze, di amori, invidie, gioie e nefandezze. Non ci sono segreti e tutto è pubblico. Tutto è autentico, ve lo giuro, anche se a proposito di nessun altro libro della tradizione filosofica occidentale ci si è chiesti tanto insistentemente se sia diario di una vita oppure romanzo, verità o menzogna.

 

“L’assenza di mediazione – ha scritto Elio Franzini – il superamento della scissione tra critico e pubblico [leggi: niente soldi ai giornali], il naturalismo intuitivo e sentimentale [leggi: no Tav e decrescita felice], l’ansia di abbattere l’idolo aristocratico [leggi: élite] sono gli elementi dell’idea roussoiana accolti dai giacobini”

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Ma come poteva Rousseau non fare piazza pulita delle dicerie sul suo conto, farla finita con le false rappresentazioni della sua storia e della sua vita? Non c’è niente da fare: rappresentazione (e rappresentanza) voglion dire falsità, sono il contrario della verità, che è invece presenza. L’unica è prendere la parola direttamente (maledetti giornalisti), anche se nel farlo costruisci una splendida messa in scena, e fai della tua vita letteratura. Però diamine: non vedete che tutto torna?

 

1758. In polemica con l’articolo “Ginevra” scritto da D’Alembert per l’Encyclopédie (maledetti enciclopedisti), Rousseau scrive una Lettera sugli spettacoli, in cui pronuncia la più estesa condanna del luogo principe della rappresentazione, il teatro, luogo falso e affettato, trionfo dell’apparenza e dell’inganno. Difendere Ginevra dal teatro vuol dire proteggere la comunità politica dalle seduzioni dei radical chic, dalle giurie di qualità che danno il premio a Mahmoud… No, non dice così Rousseau, ma ce l’ha per davvero contro le commedie fatte per piacere a “spiriti corrotti”: il concetto è lo stesso, e stessa è la diffidenza verso le arti e le scienze.

 

“Bisogna dunque escludere ogni spettacolo in una repubblica? Al contrario, bisogna darne molti”, scrive. Solo che gli spettacoli non dovranno appartenere al regime della rappresentazione, ma a quello della festa. Canti e balli popolari (solo musica italiana, aggiungerebbe qualcuno). Qual è la differenza? Che nella festa il popolo non assiste a una rappresentazione, ma si esprime direttamente. Va in piazza, diremmo noi. Come la Francia profonda, la France periphérique dei gilet jaunes che oggi viene evocata a proposito delle manifestazioni di Parigi, e con la quale, naturalmente, Di Maio vuole allearsi. Contro la Francia delle métropoles, dei centri storici a traffico limitato, che sta con Macron (e in Italia vota Pd).

 

Dove però finisce l’elogio della festa? Ma di nuovo nelle braccia dei giacobini! Son loro che si inventeranno un nuovo calendario punteggiandolo di feste e di celebrazioni. Ha scritto Elio Franzini, ripubblicando recentemente la Lettera di Rousseau: “La presenza, l’assenza di mediazione, il superamento della scissione tra critico e pubblico [leggi: niente soldi ai giornali], il naturalismo intuitivo e sentimentale [leggi: no Tav e decrescita felice], l’ansia di abbattere l’idolo aristocratico [leggi: élites] del buon gusto e delle sue artefatte rappresentazioni, sono gli elementi essenziali dell’idea roussoiana di festa che vengono accolti, pur con qualche variazione, dai giacobini”. Gli elementi giallo-verdi ci sono tutti, insomma. Una sola cosa manca. Non all’ideologia di questi nostri tempi ma a quella dell’epoca: la più grande e più popolare delle feste che la Rivoluzione (va detto, con studiatissima regia) offriva nell’anno 1794, anno delle traslazione dei resti di Rousseau al Pantheon: la Ghigliottina. (Cala il sipario).

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