Beata ingenuità, di quelli che vagheggiano dell’eden campagnolo
Quando nel 1995 Toto Cutugno, interpretando al meglio il ruolo dell’italiano vero, cantava a Sanremo “Voglio andare a vivere in campagna”, è probabile che nessuno degli altri italiani veri, e inurbati, all’ascolto lo abbia preso come un serio e motivato proponimento di ritorno nell’Arcadia felice e perduta della sua giovinezza (“rivoglio il mio paese, quella gente che respira amore / e quello stagno che per noi bambini sembrava il mare”), bensì per quello che era, ed è stato sempre nell’Italia post boom economico: un nostalgismo patetico e artefatto, un retoricissimo inno al buon tempo andato. E trascorso, naturalmente, in campagna (quale poi, non si specifica mai: mica son tutte uguali, le campagne), l’Itaca degli Ulissi moderni sperduti nel cemento della metropoli (e Celentano ne fu il profeta, come noto).
Oggi invece c’è il serissimo rischio che quel grido di libertà non resti più nei recinti delle figure retoriche, ma rappresenti un’aspirazione realmente condivisa: e non ironicamente, condivisa, per altro. Oggi, negli ultimi anni, diciamo, esiste gente che davvero dice che vivrebbe in campagna, che davvero nutre questo dolcissimo desiderio, un desiderio confusamente irrorato di bio e di green e di eco e di sostenibilità e di marmellate fatte in case e di orti biodinamici e di autosussistenza manco fossimo nel Pleistocene – e insomma di tutte quelle parole vuote e alla moda (endiadi sinonimica) che hanno infestato le menti più deboli. Di questa tontissima volontà di ritorno al verde, totalmente inconsapevole e dalle insopportabili venature hipster o fighette o shabby chic, trattano due recenti libri: l’arguto Contromano Laterza di Antonio Leotti, “Nella Valle senza nome” (ne ha già parlato sul Foglio David Allegranti) e ora quello di Arianna Porcelli Safonov, “Fottuta campagna” (Fazi, 234 pp., 16 euro), l’esilarante e non scontato racconto di una giovane donna che l’apparente corbelleria di trasferirsi in campagna l’ha fatta davvero, prendendo casa (e fienile) in un piccolo borgo dell’Oltrepò pavese – non propriamente campagna, va detto, bensì collina pura (ma “Fottuta collina” avrebbe reso meno bene, ne convengo), che nulla avrebbe da invidiare in bellezza a quelle senesi, per fare un esempio glamour a caso, se solo gli autoctoni non fossero come sono. Ma questo è un altro discorso.
Il punto forte di “Fottuta campagna” – accanto agli spassosi ritratti umani e ai quadretti di vita oltrepadana – sta senz’altro nella piena consapevolezza della Porcelli Safonov di quello che ha fatto scegliendo di lasciare la città, di come andrebbe e va fatto, e di quello che per gli altri (amici, parenti, potenziali amanti che si inerpicano sulle colline pavesi inesorabilmente perdendosi e così dilapidando punti-virilità) significa. O non significa. O falsamente significa. E che per fortuna li tiene di solito alla larga da queste parti: “Perché solo coi piedi ben radicati a terra e la vanga in mano ce la potrete fare”. Quindi possiamo stare tranquilli.