PUBBLICITÁ

Minimalia mafiosa

Riccardo Lo Verso

Nelle borgate i boss si nutrono di rimasugli, di piccoli crimini. Restano solo tronfie manifestazioni di forza

PUBBLICITÁ

Alcuni autorevoli studiosi sostengono che il termine mafia derivi dalla parola araba maḥhyasāṣ, smargiasso, il cui adattamento è mahḥyasṣa, smargiassata. Altro non è che una tronfia esibizione di forza. Una definizione che pare cucirsi addosso agli uomini d’onore di oggi. A scanso di equivoci, onde evitare di essere tacciati di negazionismo: la mafia esiste ancora (di che mafia si tratta però?), ma si è altresì consolidata l’abitudine di vederla anche laddove non c’è. Come nelle tronfie esibizioni di cui sopra, a opera dei mammasantissima delle borgate di Palermo, di cui sono piene le pagine degli atti giudiziari.

ABBONATI PER CONTINUARE A LEGGERE
Se hai già un abbonamento:

Altrimenti


Alcuni autorevoli studiosi sostengono che il termine mafia derivi dalla parola araba maḥhyasāṣ, smargiasso, il cui adattamento è mahḥyasṣa, smargiassata. Altro non è che una tronfia esibizione di forza. Una definizione che pare cucirsi addosso agli uomini d’onore di oggi. A scanso di equivoci, onde evitare di essere tacciati di negazionismo: la mafia esiste ancora (di che mafia si tratta però?), ma si è altresì consolidata l’abitudine di vederla anche laddove non c’è. Come nelle tronfie esibizioni di cui sopra, a opera dei mammasantissima delle borgate di Palermo, di cui sono piene le pagine degli atti giudiziari.

PUBBLICITÁ

 

In Sicilia se la criminalità è comune e non organizzata la storia si ammoscia. Perde l’appeal da prima pagina. In soccorso della narrazione mafiocentrica si trova sempre il chiacchierone di turno che alle microspie consegna quel quid che serve. La cronaca non mente, perché impone di guardare presente e passato.


La mafia esiste ancora (di che mafia si tratta però?), ma si è altresì consolidata l’abitudine di vederla anche dove non c’è


 

Salvatore Cintura se ne andava in giro con la sua moto Ape. Negli anni Ottanta raccoglieva il ferro vecchio abbandonato per le strade. Spesso il ferro, e non si trattava di rottami, lo rubava nei cantieri. Pure in quelli protetti dalla mafia. Il 23 maggio del 1981 Gioacchino La Barbera, mafioso di Altofonte, si appostò dietro a una baracca dove erano custoditi gli attrezzi degli operai che stavano costruendo la strada a scorrimento che da Palermo conduce a Sciacca. Appena vide Cintura armeggiare gli sparò una fucilata alla testa. Poi il colpo di grazia quando la vittima era già per terra per assicurarsi di avere eseguito bene gli ordini. La Barbera mostrò freddezza e fece carriera. Undici anni dopo, ed è ancora un 23 maggio, diede il segnale per scatenare l’inferno della strage di Capaci. Uccidere il raccoglitore di ferro era stato il suo rito di iniziazione, come egli stesso riferirà una volta divenuto collaboratore di giustizia.

 

PUBBLICITÁ

Estate 2020. La famiglia Cintura continua a vivere con la raccolta del ferro vecchio rivenduto a peso e i furti. In una retata i carabinieri hanno arrestato sei componenti del nucleo famigliare. Tra questi, i nipoti di quel Salvatore Cintura assassinato quarant’anni fa. Nipoti che si sarebbero macchiati, pure loro, di furti irrispettosi nel cantiere del figlio di un vecchio capomafia di Bagheria e in un altro protetto a Castellammare del Golfo. E’ accaduto nel 2017. Per fortuna non c’è stato alcun sentore di vendetta o ritorsione, semmai un accomodante tentativo di recuperare la refurtiva tramite figure paramafiose, come le tante che popolano la città.

PUBBLICITÁ

 

E’ sempre più labile il confine fra la criminalità diffusa e quella organizzata. Con un piede di qua si è uno scassapagghiaro che rubacchia per campare; con un altro di là invece si diventa uomini d’onore. Se lanci la rete a strascico si pesca di tutto. Si trova sempre qualcuno che si vanta per le amicizie mafiose o che va a bussare dal boss scarcerato per mettersi a disposizione. “Quando ha bisogno sono qua”, registrano le microspie distribuite in città.

PUBBLICITÁ

I nuovi mafiosi di borgata si sentono potenti perché autorizzano l’apertura della polleria o del negozio di frutta e verdura


 

Un’aggravante mafiosa non si nega a nessuno. O meglio, non si negava. Perché da qualche tempo anche alla Direzione distrettuale antimafia di Palermo si distingue fra ciò che era e ciò che è. La mafia c’è, si mostra soprattutto nella sua declinazione di borgata, mentre le vecchie famiglie hanno ripulito i soldi investendole in tante attività commerciali. Chi è rimasto sulla piazza organizza la propria rete di spacciatori, quartiere per quartiere, incassa il pizzo che a volte vale poche decine di euro al mese, regola la vita misera di grosse fette di popolazione.

 

A Porta Nuova per esempio, che fu il mandamento di Pippo Calò e Masino Buscetta, si danno un gran da fare per la festa in onore della Madonna di Lourdes. Mica è una questione di fede. C’è la processione, che nulla ha di religioso, dei venditori ambulanti che pregano il boss per piazzare la bancarella. Il via libera arriva a condizione di rispettare il tariffario del contributo per i carcerati che ha come unità di misura i gusti gastronomici dei palermitani. Più vendi, più paghi. Panelle e crocché, fatte con la farina di ceci e le patate, sembrano perdere terreno. Vanno più forti il panino con la milza e le interiora, le stigghiole, che cucinate sulla griglia sprigionano fumo e profumo. Calia e semenza sono un evergreen. La birra poi, è un affare sicuro.

 

A Santa Maria di Gesù, che era il feudo di Stefano Bontate, il principe di Villagrazia, i boss si sono messi d’accordo con gli ambulanti per un sovrapprezzo di 5 euro su ogni cassa di Forst venduta. Seppure di fronte a grandi bevitori, l’incasso raramente supera i mille euro. Per raccogliere più soldi alla Noce, dove regnavano i fratelli Ganci, si è aggiunta una serata di canzoni neomelodiche al programma. Manco il Festival di Sanremo dura tanto. I nuovi boss si affacciano al balcone che sporge sulla piazza e si gonfiano il petto quando la presentatrice li ringrazia pubblicamente. E poi ci sono i fiori che adornano i simulacri di sante e madonne portati in processione. Anche su chi deve fare gli addobbi pesa la parola dei mafiosi.

 

Verrebbe da ridere, e invece c’è da piangere perché mentre si è vinta la battaglia con la Cosa Nostra venuta fuori dall’avanzata corleonese si sta perdendo la partita sociale. I malacarne che si atteggiano a mafiosi fanno ancora la voce grossa, rispondendo prima dello stato ai bisogni della gente. E sono bisogni minimi: un lavoro mal pagato e abusivo, il recupero di un credito, il sacchetto della spesa in un market aperto con i soldi della droga.


Con un piede di qua si è uno “scassapagghiaro” che rubacchia per campare; con un altro di là invece si diventa uomini d’onore


 

C’è un dialogo captato due mesi fa fra un padre disperato e il braccio destro del reggente del mandamento mafioso della Noce: “Giusè se capita qualche cosa, tuo padre mi disse pure a muratore. Lui è diplomato ragioniere perché per ora sono tutti a spasso. Lo sai meglio dì me, andiamo tramite amicizia, in questo minuto devi conoscere il santo allora sì che vai a lavorare. Gli hanno tolto la mobilità. Che so un posticino che fanno le notti per guadagnare quattro soldi”. Ogni commento sarebbe superfluo, bisognerebbe stampare e distribuire la conversazione. Un volantino per la dignità perduta.

 

E’ una mafia che si nutre della disperazione, una mafia dei rimasugli. Anche i potentati di un tempo si sono adeguati. Mico Farinella, boss di San Mauro Castelverde, fedelissimo dei corleonesi di Totò Riina, è tornato di recente in carcere un anno dopo la sua inaspettata liberazione. Un ricalcolo della pena gli ha consentito di evitare l’ergastolo. Libero dopo 27 anni di carcere si sarebbe fatto beccare a chiedere il pizzo a un ristoratore che aveva uno stand alla festa del paese. Persino gli scappati, costretti dalla furia di Riina a riparare in America, si sono adattati ai tempi, mettendo il loro peso mafioso in una storia tra le più maleodoranti della recente cronaca palermitana. La gente si faceva spezzare un braccio, una gamba, un polso pur di incassare gli indennizzi delle assicurazioni.

 

Incidenti falsi, dolore vero. Qualcuno andò a chiedere il pizzo sulle truffe e uno degli uomini che reclutavano i disperati – disoccupati, tossici e disadattati – per fratturargli le ossa chiese aiuto a Tommaso Inzerillo. Quel Masino Inzerillo che nella sua vita ha incrociato Falcone. Lo arrestarono negli anni Ottanta a Santo Domingo. Nel 2013 è stato tra i primi scappati a rientrare in Sicilia, quando ha finito di scontare una condanna a 10 anni. Aveva rischiato l’ergastolo. Non resse l’ipotesi che avesse organizzato la trappola per fare ammazzare i parenti. La caccia all’uomo dei corleonesi si era spostata in America. Degli Inzerillo neppure il seme doveva rimanere. E dove venivano spezzate le ossa dei disperati per i finti incidenti? Nella stalla dei Cintura, il magazzino dove scaricano la refurtiva le bande di predoni che vanno in giro a rubare. I Cintura, tutto ritorna con una circolarità disarmante.

 

Eternamente circolari sono le indagini. Da trent’anni si scandaglia la stagione delle stragi di mafia del ’92, si cercano i mandanti esterni, i livelli superiori, i depistatori e i traditori di stato. Troppe zone d’ombra resistono, è vero. Ma è altrettanto vero che chi indaga ci ha messo del suo. Per ultimo si è data voce a Giuseppe Graviano, boss stragista. Ora ha consegnato una memoria di 54 pagine ai giudici di Reggio Calabria che lo hanno condannato all’ergastolo. Quante indagini saranno aperte e in quante procure d’Italia sulla base delle dichiarazioni di un mafioso che si dichiara innocente, lui che ha fatto saltare in aria la gente?

 

Nel frattempo i nuovi mafiosi di borgata si sentono potenti perché autorizzano l’apertura della polleria o del negozio di frutta e verdura. Campano con la droga e dirigono in prima persona lo spaccio. Organizzano rapine, anche in trasferta. Fanno il lavoro sporco e si atteggiano a boss, seguono i vecchi mafiosi e li imitano.


La gente si faceva spezzare un braccio, una gamba, un polso pur di incassare gli indennizzi delle assicurazioni 


 

Le informative degli investigatori si riempiono così di gesti simbolici. Come il bacio sulla bocca, simbolo di un rapporto carnale, di un legame di sangue che va oltre il sesso. Settimo Mineo, l’anziano capomafia che ha presieduto il tentativo stroncato di convocare la nuova cupola del dopo Riina, baciava sulla bocca Salvatore Alfano della Noce. Non in luogo appartato, ma in una piazza caotica e trafficata. Giulio Caporrimo baciava sulla bocca Nunzio Serio per suggellare il loro patto a San Lorenzo in nome e per conto dei Lo Piccolo. Un’immagine nota a tutti perché finita in prima pagina su tutti i giornali e tutte le televisioni, a dimostrazione della capacità degli investigatori di stare addosso agli indagati. Nota anche a chi si muove con l’ambizione di diventare boss e che si è ben guardato dal ripetere gli stessi errori. Troppo suggestivo il bacio per resistervi, per non pregustare la soddisfazione, quando finiranno in carcere (perché tutti sono finiti o finiranno in carcere), di essere considerati dei mafiosi veri e non scassapagghiara che si danno delle arie.

 

Da dove deriva la parola mafia? Il dibattito sull’etimologia è aperto. Al di là dell’origine della parola, forse hanno ragione gli studiosi secondo cui altro non sarebbe che l’adattamento italiano del termine arabo mahḥyasṣa, smargiassata, e cioè una tronfia esibizione di forza.

Di più su questi argomenti:
PUBBLICITÁ