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Le voci di nessuno

Francesco Palmieri

Viaggio letterario attorno alle fosse comuni di Hart Island dove New York seppellisce le vittime senza nome del coronavirus

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Tutta New York, sarebbe a dire ognuno in Occidente, s’è ricordata all’improvviso di quell’isola dei morti infissa al centro del suo fiume che dà ricetto gramo ai corpi di un milione e più di sconosciuti, semisconosciuti, oppure un quarto d’ora celebri nella vita ma ignoti anche ai parenti stretti quando scoccò l’estremo istante. New York ossia ciascuno in Occidente, everyman, s’è ricordata dell’Hart Island faccia al Bronx – un chilometro e 600 di lunghezza, quattrocento metri larga – dove dal 1869 la povertà certificata, quella dei senza funerale, saluta l’anagrafe in una cassa di pino grezzo quasi bianca (l’assenza di ogni liturgia s’approssima alla purezza), accatastata con altre nelle larghe trincee scavate dai bulldozer, dove un giorno improbabile qualcuno può venire a reclamare quelle ossa altrimenti è tutto già concluso, ogni memoria, nel giorno stesso della sepoltura in un moto corale di Requiem Aeternam. Quello che i più nell’Occidente associano alla musica di Mozart, è quello più di ogni altro il Requiem.

 

Requiem aeternam dona eis, Domine, et lux perpetua luceat eis.

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New York s’è ricordata dell’Hart Island, dove dal 1869 la povertà dei senza funerale saluta l’anagrafe in una cassa di pino grezzo

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Sono migliaia le salme di chi ha chiuso con tutto forse prima del tempo a causa del coronavirus, che ha impestato anche New York, e che la fretta ingiunge di smaltire. Poi se qualcuno vuole le reclamerà, c’è persino il volenteroso Hart Island Project, un database che con codici e droni ha tracciato la mappa delle sepolture anche più antiche, affinché a una cassa di pino corrispondano un nome e le sue ossa.

 

Non è la Cina, dove le vittime del Covid-19 chi mai saprà quante sono – se non si finisce nel crematorio collettivo c’è una fila di congiunti con l’urna per la consegna delle ceneri, omaggio confuciano agli antenati ma senza frange di sentimento o gloria o, per chi l’abbia, di attese trascendenti su cui cavalcare i rimpianti. Chiunque invece in Occidente, everyman, detratti o aggiunti Halloween e il pragmatismo, riconosce nell’isola di Hart – sia newyorchese o meno – la sua Isola dei Morti. Ce n’è una dappertutto, ovunque siano state scavate fosse affrettate, comuni o futuri ossari per dare pace ai morti di sciagure corali. Epidemie. Guerre. Cimiteri dei colerosi e quelli delle battaglie – laddove anche se sulla croce resta un nome lo assimila a una sua comunità. Basta andare a Montecassino, che è qui dietro, dove combatté tutto il mondo nell’ultima Guerra, per capire certe differenze tra l’erbosa spianata del cimitero del Commonwealth, l’impervia allocazione del tedesco, la cattolica quiete del polacco, l’ecumenica pace – metà croci metà mezzelune – del camposanto francese. Requiem aeternam che suona diverso ma sempre corale nelle congiunture collettive, né è necessario che uno creda. L’opera K 626 in Re minore funge pure da laica colonna sonora di Radio Radicale.

 

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(AP Photo/John Minchillo)

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Ci sono, six feet under Hart Island, gli esiti dei grandi colpi di falce degli ultimi centocinquant’anni. Sempre lo è la povertà con l’assenza degli affetti – che solo un errore di prospettiva lascia considerare vicenda individuale, mentre è una permanente pandemia – e lo fu l’influenza spagnola del 1918-19; lo fu l’Aids negli anni Ottanta quando New York in primis, ma everyman in Occidente si sentì flagellato da un biblico castigo per cui “nulla dopo sarà più lo stesso”, come adesso dicono i Rezza, i Burioni, le Capua incuranti di sapere che invece tutto tornerà uguale perché è questa l’immancabile grazia offerta al genere umano: dimenticare, ricominciare, sognare. Ma all’epoca su Hart Island i morti per Aids furono interrati a parte per paura delle contaminazioni, e l’esclusione dagli altri defunti fu estesa anche alle vittime bambine, figli di tossici con la sindrome dei genitori per immeritata eredità.

 

Kyrie eleison; Christe eleison.

 

Signore, abbi pietà. Che tutto torni come prima. E che New York – pensando il contagio nuovamente relegato nel passato – torni a organizzare nel museo cittadino mostre come due anni fa: Germ City: Microbes and the Metropolis, senza prevedere che il prima si riversa nel dopo e che il coronavirus avrebbe rianimato la filologia, le foto artistiche e le ossa nella patologia, nei reparti di terapia intensiva e nei luoghi contaminati. Perché è mentre sei distratto che la storia fa un giro di ruota, che i pipistrelli svolazzano non solo sopra i cimiteri e nei seriali film su Dracula, ma in un remoto mercatino o in un laboratorio cinese, e poi ticchettano improvvisi sui vetri delle tue finestre una notte che avevi supposto, per abitudine o legittima superficialità, come una notte qualunque.

 

Ci vuole un nome, e la scelta di una tomba, per inspirare o espirare la nostalgia che invecchia. Per giustificare meglio quand’è che si piange

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L’isola è su quel fiume che meglio d’altri visse e descrisse Walt Whitman, un primus tra i poeti perché mai mise i versi a piacere e nel canto Sul ferry di Brooklyn aveva avvertito circa “le somiglianze del passato e del futuro”; aveva scritto che “altri vedranno le navi di Manhattan a nord e a ovest, e le alture di Brooklyn a sud e a est, altri vedranno le isole piccole e grandi”. Sì, “di qui a cent’anni, o anche a parecchie centinaia d’anni, altri le vedranno, e si godranno il tramonto, l’urger dell’alta marea, il ritrarsi del mare alla bassa marea”. E’ l’abolizione della rassicurante voglia di mettere in archivio, perché Whitman avverte che “queste e molte altre visioni furon per me ciò che ora sono per voi”, e addirittura – sul ferry di Brooklyn – spiega al lettore futuro che “i pensieri che voi formulate ora su me, altrettali formulai io su voi, facendone tempestivo raccolto, a lungo e seriamente pensai a voi, prima ancor che nasceste”.

 

Parlando ai posteri, che vivranno l’epidemia di spagnola, l’Aids e il Covid-19 lì sotto “Manhattan, incoronata dagli alberi delle navi”, parlando a chi verrà dopo di lui – e di noi, perché sì, neppure questa sarà l’ultima volta – il poeta domanda: “Chi può sapere se, nonostante tutta questa distanza, io non riesca fin d’ora a vedervi, sebbene voi non possiate vedermi?”.

 

Il ferry di Brooklyn è la barca di Caronte che s’avvicina all’Isola dei morti dipinta dal simbolista svizzero Arnold Böcklin, ripensata cinque volte su cinque quadri in sei anni nell’ultimo ventennio dell’Ottocento, perché una nave verso un’isola che incute paura – come ogni terra ignota – sfila sempre sulle acque del cuore di ciascuno, everyman, proprio al centro della metropoli Metropolis e anche se te lo scordi Whitman ribadisce: io vi ho già visti prima che nasceste. E arriva il tempo di rifare i conti almeno una volta a generazione.

 


L'isola dei morti, prima versione dell'opera di Arnold Böcklin nel museo d'arte di Basilea


 

Dies irae, dies illa, Solvet saeclum in favilla, Teste David cum Sibylla.

 

“Chi può sapere se, nonostante tutta questa distanza, io non riesca fin d’ora a vedervi, sebbene voi non possiate vedermi?”, scrive Whitman

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Perché quel tempo inevitabile si ripresenti tutto deve tornare come prima: l’oblio necessita alla memoria come altra faccia della medesima moneta. Lo sosteneva Borges, cui la cecità acuì lo sguardo, perciò il “niente sarà come prima” fa sorridere, con la sua ingenua definitività che da millenni siamo addestrati a ignorare oscurando sovente nella nebbia la scabra presenza di Hart Island. Fra le mille luci di New York.

 

Chi è mai stato capace, quale pazzo lo sarebbe, di tenere vuoti teatri, cinema, stadi, sale da concerto rinunciando alla rischiosa ma ineluttabile prossimità umana che ci permette da sempre di essere l’Occidente e persino di generare distanze. E’ l’inusuale, voluta assenza di contatti che definisce un eremita, un misantropo, taluni artisti. Siamo tutti fratelli in una perenne Spoon River e stiamo forse sotto la lapide assegnata da Lee Masters all’Editor Whedon, il direttore di giornale “in grado di vedere ogni lato di ogni questione; essere in ogni settore, essere tutto, essere nulla che duri”; riempiamo a quel suo modo colonne e pagine e tweet per “poi giacere qui vicino al fiume oltre il punto dove la fogna scorre dal villaggio, e le scatole vuote e l’immondizia vengono gettate, e gli aborti nascosti”.

 

Che a ogni dichiarazione, a ogni certezza – “niente più come prima” – si contrapponga una sommessa voce. C’è per ogni rumore nelle Hart Island della mente un silenzio necessario a catturare sussurri.

 

(AP Photo/John Minchillo)


 

 

Tuba mirum spargens sonum, Per sepulchra regionum.

  

Sporcano il suono della tromba migliaia di voci senza nome, o con un nome che non dice più niente, che possono o vogliono ancora dire qualcosa di cui potremo farci reporter. E’ stato uno scrittore messicano, come suol dirsi “autore di un libro solo” (o per quello ricordato), Juan Rulfo, che in un breve densissimo romanzo Pedro Páramo captò tutte le parole di una cittadina abbandonata dove i morti continuano, senza sosta, a chiacchierare: “Questo paese è pieno di echi. Ti sembrano rinchiusi nel vuoto delle pareti o sotto le pietre. Quando cammini, senti che ti calpestano i passi. Senti degli scricchiolii. Risate. Risate ormai molto vecchie, come stanche di ridere. E voci ormai logore dall’uso. Senti tutto ciò”. Bisognerebbe andare con questa disposizione d’animo, o d’orecchio, nelle Hart Island d’Occidente – non solo a New York, ce n’è dappertutto persino tra le fondamenta di palazzi qualunque – per domandare a una voce: “E la tua anima? Dove credi che sia andata?”. La risposta potrebbe darla Whitman se dicesse “è nel futuro”, oppure Rulfo, secondo cui “starà vagando sulla terra come tante altre; cercando vivi che preghino per lei”.

 

Ci sono le preghiere religiose o civili, come la cerimonia che onora il Milite Ignoto all’Altare della Patria: sarebbe molto meno pomposa se a quelle spoglie s’attribuisse un nome, perché allora non apparterrebbero più a tutti ma a qualcuno più degli altri. E come un re, o un presidente, vi si potrebbe inchinare con la stessa reverenza che ispira l’omaggio a un anonimo?

 

Rex tremendae majestatis, Qui salvandos salvas gratis.

 

Lo raccomandava, a metà Settecento, l’Elegia sopra un cimitero di campagna: Thomas Gray invitò a inchinarsi con modestia anche presso la tomba insignificante dove giace “il capo stanco” di un ragazzo “alla Fortuna ed alla Fama ignoto”, come i bambini dell’Aids su Hart Island. Che forse avrebbero potuto nella vita… che avrebbero potuto se non fosse stato che.

 

Bisognerebbe andare con questa disposizione d’animo, o d’orecchio, nelle Hart Island d’Occidente. Con preghiere religiose o civili

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Il bambino più famoso di Hart Island è tuttavia Bobby Driscoll, che è un morto di trentun anni per quelli che lo dimenticarono quando si ridusse al vagabondaggio, mentre è rimasto sempre un ragazzino di tredici per quelli che lo ricordavano, e forse lo ricordano, vincitore dell’Oscar per il miglior attore fanciullo. Tenne il ruolo dell’intraprendente Jim Hawkins in L’isola del tesoro del 1950. Tre anni dopo prestò la voce, oggi sussurro da captare tra le migliaia di Hart Island, al magico bambino che non cresce mai. A Peter Pan. Ma quando crebbe lui, calcò la sorte di molti bimbi prodigio, quella di farsi adulto irrisolto per dissolversi, “alla Fortuna ed alla Fama ignoto”, tra il carcere e le droghe.

 

Confutatis maledictis, Flammis acribus addictis.

 

Capirono chi fosse stato quel maudit soltanto molto tempo dopo il ritrovamento del cadavere e il seppellimento a Hart Island, nel 1968, grazie alle impronte digitali: Robert Cletus Driscoll un tempo detto Bobby.

 

Everyman in Occidente, e non solo il newyorkese, oggi fa i conti con l’Isola dei morti. Everyman, uno tra gli ultimi romanzi di Philip Roth, mette il protagonista malato e morente al cospetto delle ossa altrui, che sono nel suo caso quelle dei genitori in un cimitero secondario e prossimo alla cancellazione dalla storia (anche i cimiteri periodicamente muoiono). “La carne si dilegua, ma le ossa durano. Le ossa erano l’unico conforto che esistesse per uno che non credeva nell’aldilà e sapeva con certezza che Dio era un’invenzione e che questa era l’unica vita che avrebbe mai avuto”. Sua madre era morta a ottant’anni, suo padre a novanta. Lui dice loro ad alta voce: “Ho settantun anni. Il vostro ragazzo ha settantun anni” e fatica ad andarsene da lì, preso dal desiderio irresistibile “che fossero tutti ancora vivi. E che tutto potesse ricominciare da capo”.

 

Ci vuole un nome, e la scelta di una tomba, per inspirare o espirare la nostalgia che invecchia. Per giustificare meglio quand’è che si piange.

  

 

Lacrimosa dies illa, qua resurget ex favilla.

 

Fu alla sezione contrassegnata da queste parole, com’è noto, che Mozart morì il 5 dicembre 1791 dopo aver dettato le ultime battute musicali. Fu interrato, si sa anche questo, in una fossa comune nel cimitero di St. Marx a Vienna. Lo studioso Aloys Greither ha accertato che la sepoltura non fu affrettata per celare un assassinio o un losco mistero, ma perché la sua malattia si confuse con l’epidemia altamente contagiosa che correva quell’anno, “e le autorità sanitarie viennesi furono perentorie. Ordinarono sepolture immediate delle salme e vietarono tombe singole”. Fu un’influenza come la spagnola, o come un coronavirus. È la storia di everyman che si ripete, si chiami pure Mozart (o Sepulveda). Tranquilli per il dopo: sarà tutto come prima affinché tutto si ripeta. Ma è giusto che qui, sul Lacrimosa, s’interrompano anche queste note, con la coda di un verso di cui rifulge il senso quanto più sfugge l’autore: Ich bin nur eine Stimme.

 

“Io non sono stato altro che una voce”.

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