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"Dove finisce la sinistra c'è la destra"

Gli orfani di Trump

Lo strano lutto di una sinistra che su The Donald la pensa un po' come la destra

Maurizio Crippa

Ci sono i retequattristi, sì. Poi c’è tutto un mondo che Biden va bene, ma solo se cambia il modello di America. E’ così che The Donald si trasforma nel candidato dei proletari e dei forgotten man

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“Dove finisce la sinistra c’è la destra”
Pier Luigi Bersani

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“Dove finisce la sinistra c’è la destra”
Pier Luigi Bersani

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Una delle cose che ci ingarbugliano sempre le dita, la sinistra con la destra, quando ci specchiamo nell’America è ad esempio Bernie Sanders. Là lo considerano un pericoloso trotzkista, mentre trasportato dal Vermont alle rive del Po sarebbe un placido socialdemocratico novecentesco, come Pier Luigi Bersani. La differenza maggiore è che Bersani è un immaginifico aforista, un filosofo da bocciofila della Ditta ben piantato al tavolino sulla riva del fiume. E con uno spiccato senso dei punti cardinali, quello che noi non abbiamo più da quando anche per capire lo switch della Pennsylvania dobbiamo controllare su Google Maps: più a destra, più a sinistra. Bersani è senz’altro contento che Joe Biden abbia vinto, forse anche più di quanto lo siano Sanders o Alexandra Ocasio-Cortez: non è uno che vagheggi le soluzioni estreme. E infatti a lui si deve uno dei migliori brocardi sulla sinistra italiana dai tempi di Fortebraccio: “Dove finisce la sinistra c’è la destra”. Amante delle citazioni, forse oggi non gli dispiacerebbe pure questa: “Scriveva con lenta sicurezza, da destra a sinistra”. Borges parlava di Averroè, che però non si incartava con la scrittura sinistrorsa, ma andrebbe bene anche per descrivere il cortocircuito di tanta sinistra che anziché sentirsi vittoriosa si atteggia, consapevole o a sua insaputa, a inconsolabile vedova di Trump. Perché a sinistra della sinistra inizia sempre la destra.


Della rannuvolata insoddisfazione per la vittoria mutilata di Biden (o per la sconfitta immotivata di Trump, vai a capire) di Federico Rampini abbiamo parlato altrove, non ci torneremo. Ma in fondo Rampini è tra i liberal migliori, solo che a furia di vedere le cose che non vanno bene tra i liberal è diventato un po’ sandersiano, vorrebbe ci si occupasse di più dei forgotten men della globalizzazione che giustificano l’esistenza di Trump e ne promettono la sopravvivenza anche da defenestrato, per il secondo mandato (vedi alla voce: “Il mito del secondo mandato di Trump”, di cui questo articolo non si può occupare) che sarà inevitabile per via del non aver imparato a occuparsi del forgotten men. Poi ci sono quelli più spericolati, quelli che Trump aveva le sue ragioni e non è certo con i centristi che lo si batte. E’ lì, con la sinistra che guarda a destra, che iniziano fantozzianamente a intrecciarsi i diti. Insomma l’universo mentale di Nadia Urbinati. Squadernato sull’HuffPost: “Se ci spostiamo verso la periferia di destra dello schieramento istituzionale della sinistra” (presto, una bussola!) “le cose non vanno meglio. Da queste parti non si è persa l’occasione per salutare quella di Biden come una vittoria ottenuta grazie al centro. Nulla di più impreciso, per non dire sbagliato”. dice. “I democratici hanno vinto grazie, in primo luogo, alla campagna sincera e convinta di Bernie Sanders – come non era avvenuto con Hillary Clinton, che non riuscì infatti a mobilitare il voto dei giovani e delle classi lavoratrici”. Copiare Trump per battere Trump.


A questo punto della nostra breve rassegna è possibile che ci venga obiettato un eccesso di capziosità: perché cercare la pagliuzza a sinistra, quando a destra le prefiche del trumpismo si contano a mazzi? C’è del vero, e per una rassegna stampa di tutti i retequattristi ci vorrebbe un libro; ma la cosa più interessante è che, a seguire i retequattristi, si ritrovano appunto alcuni refrain della sinistra dura e pura. A parte ovviamente quella patologia psichica che consiste nel rifiuto della realtà: Trump ha vinto lo stesso. Il retequattrismo è ben sintetizzabile in questa narrazione messa online dall’Opinione delle libertà (più che altro la libertà delle opinioni) della “lunga notte degli inganni”. Il punto di vista per descrivere cosa stesse accadendo nelle prime ore a urne chiuse in America è naturalmente quello di Rete 4, che è un po’ come guardare Roma dalla serratura del Cavalieri di Malta, si vede solo il Cupolone, ma pazienza: “Nicola Porro ha condotto uno speciale dalla mezzanotte fino alle sei con ospiti in studio, tra cui oltre ai corrispondenti e oltre a Daniele Capezzone e Vittorio Sgarbi, erano schierati il duo Maria Giovanna Maglie e Paolo Guzzanti, i quali con Porro hanno seguito le assegnazioni numero per numero.  E cosa è accaduto? Che mentre dalle reti Usa a Biden venivano dati per certi stati solo con il 4 per cento dei voti scrutinati, a Trump non erano assegnati neppure quelli con maggioranze decisive”.

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La notte degli inganni. “Tuttavia, chi ha vinto e chi ha perso è già chiaro. Hanno perso i sondaggisti e moralmente ha vinto Trump”. Moralmente. La destra orfana esiste anche sui giornali. Quelli  alla Belpietro, per il quale “Trump può anche perdere le elezioni ma il trumpismo ha cambiato l’America”, che è una versione atlantica di “Salvini è spiaggiato al Papeete ma i pieni poteri ce li ha ancora”. Quelli che s’aggrappano da una decina di giorni “al recupero del presidente azzoppato dall’opaco voto postale”. Quelli come Libero che titola:  “Negli Stati Uniti ha vinto il più tonto”, ed è il massimo di accuratezza d’analisi. Quelli che le analisi le dovrebbero saper fare, come Claudio Risé che, sulla Verità, s’arrischia con la psicologia di massa: “Trump ha fatto dei valori semplici della vita uno degli aspetti più importanti della sua personalità e anche della sua vita”. Per miglior chiarezza, avrebbe potuto sintetizzare i valori semplici e che piacciono al popolo di Trump con un titolo di Ang Lee: “Mangiare bere uomo donna”. Quelli che da tempo avevano già rinunciato a ogni alla decenza e parlavano di complotto, di neri che si ammazzavano da soli, di non ce n’è coviddi in America. O quelli come il capostipite dei comici Paolo Guzzanti, che sul “libertario” Riformista ha scritto: “Naturalmente chi legge sa che io faccio odiosamente il tifo per Trump che ha ai miei occhi una straordinaria qualità: manda in bestia quasi tutti coloro che io trovo banali, ipocriti, petulanti, quelli che simulano l’attacco cardiaco democratico, l’ictus dell’indignazione”, e che papale papale formulava l’ipotesi nera: “La strategia è evidente: se Biden va alla Casa Bianca è probabile che muoia e che Kamala Harris diventi automaticamente presidente, la prima donna per di più di colore”. Ma a be guardare il vero maître à penser dei retequattristi è Dagospia, centrale d’irradiazione del sovranismo trumpista, il cui fondatore, nonché il più intellettuale del gruppo, detta la linea: “I media amano dipingerlo come un porcone in preda a zoccole e pornostar. Tanti altri lo sono stati, dai fratelli Kennedy a Martin Luther King fino a Bill Clinton. Ma da Trump però non si accettano simili comportamenti. In America, per un uomo così, possono avere simpatia solo gli operai e i poveracci e i burini dell’Oklahoma”. La cosa straordinaria è che una certa sinistra, pur di stare più a sinistra, a sinistra di Biden, a sinistra di Blair (il fantasma di Banquo di tutti i dibattiti “torniamo a sinistra”) a sinistra persino di Prodi, finiscono per pensarla quasi identica agli inconsolabili retequattristi, anzi a Dagospia: torniamo a occuparci dei burini dell’Oklahoma.


Alla sinistra-sinistra, questo è noto, poteva stare sulle scatole Hillary  Rodham Clinton, ma sentirsi mutilati, almeno un dito, perché ha vinto Biden è una faccenda assai diversa. C’è la classica sinistra io-ve-lo-avevo-detto, convinta che il problema sia l’aver abbandonato i campi che Trump ha invece arato. Come Romano Prodi, che spiega alla Stampa: “Trump ha avuto un’enormità di voti in più rispetto all’elezione precedente. Significa che lui porta avanti qualcosa di profondo che sta dentro l’anima americana. Si dice: ha pagato per la gestione del Covid, ma ha vinto in 9 dei 10 stati più segnati dal virus. La sua carta forte è stata, e resta, l’inquietudine della classe media e bianca americana sul suo futuro. Non solo tecnologie e globalizzazione che spiazzano la classe media, ma anche la prospettiva che i bambini non bianchi nelle scuole siano presto più di quelli bianchi”.

 

Emanuele Felice ha molti anni in meno di Prodi, ma non è un professore qualunque, è il responsabile economia del Pd. Ha scritto su Domani che “con la vittoria di Joe Biden e Kamala Harris, anche negli Stati Uniti il neoliberismo al tramonto cede il passo a una ‘nuova sintesi’ fondata sul ritorno della politica come leva di cambiamento, e sull’alleanza fra intervento pubblico e mercato. L’obiettivo è governare e correggere il capitalismo”. Cioè Biden avrebbe vinto, certo non con una piattaforma trumpiana, ma con un programma che rinnega l’american way of life del liberismo, “al tramonto”, per una svolta di stampo socialdemocratico. Gli hanno risposto su Twitter: “Guardi Felice che Biden è ancora più a destra di Forza Italia ideologicamente. Secondo lei perché Sanders ha sempre perso (e di tanto) alle primarie dei democratici?”. La destra sovranista italiana ed europea si è schierata con Trump perché incarna alla perfezione certi suoi valori, dal nazionalismo alla paura dei flussi migratori, compresi i valori di tipo etico e religioso. Ma anche perché l’idea di America (first) che Trump prometteva di realizzare è quanto di più lontano dall’America che invece la destra europea ha sempre osteggiato: l’America globalizzatrice, interventista, esportatrice di beni (ah, benedetti dazi) e persino della sua cultura secolarizzata e standardizzata. Ma esiste una parte della sinistra che finisce per condividere lo stesso giudizio sugli Stati Uniti e per la quale la vittoria di  Biden è benedetta sì, ma solo a patto che porti con sé una revisione del modello americano. A patto insomma che sia un po’ meno la City upon the hill. Per la destra, Trump era l’ultima difesa contro il globalismo. Per la sinistra, Biden deve essere un cambio di passo rispetto al globalismo. Il (sempre libertario) Riformista aveva intervistato Duran Barba, docente alla George Washington University e “mago del marketing elettorale dai Caraibi alla Patagonia”, accipicchia: “Trump è un candidato difficile da battere da sinistra perché è il candidato del proletariato. Esprime le esigenze di molti americani che sono stati protagonisti delle due prime rivoluzioni industriali, danneggiati dalla terza, che si oppongono rabbiosamente all’establishment”. Non è andata proprio così, ma la linea di pensiero è chiara. Anzi è quasi un tic. Come per  Aldo Nove, scrittore che ha preso il suo nome d’arte dal messaggio in codice che lanciò l’insurrezione partigiana nel nord Italia, “Aldo dice 26x1”, che intervistato dalla Verità spiega: “Sono di sinistra, perciò sto dalla parte di Trump”. All’obiezione: “Qualcosa non torna…”, replica: “E’ la realtà che non torna. Nel senso che, paradossalmente, c’è maggiore attenzione al popolo e ai problemi della classe lavoratrice in Trump che non nella gauche caviar di Hillary Clinton o di Joe Biden, una sorta di pupazzo”. Sui blog, dove la libertà di parola non paga dazio, capita di leggere: “Trump non deve vincere. Punto. Perché se vince Trump, il sistema crolla. E il Sistema non deve crollare. In tutta Europa, Italia compresa, siamo tutti convinti che quando entriamo nella cabina elettorale, possiamo cambiare il corso delle nostre nazioni. Errore. Se votare fosse importante non ce lo lascerebbero fare (Mark Twain)”. A un passo dal complotto, versione leftist.

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Si parla di imperialismo, ed ecco spuntare Toni Negri, che ha il pregio di essere il più lucido, sull’HuffingtonPost: “Bisogna chiedersi da chi è stato eletto Biden. Non c’è solo il problema di cosa farà, ma come sarà costretto a rispondere, una volta al governo degli Stati Uniti. E qui vedo già dei grossi problemi che stanno nascendo”. E poi: “Penso che avremo ancora fenomeni di lotta di classe estesi e continui negli Stati Uniti per lungo tempo. C’è una situazione conflittuale molto tesa, con grossi problemi relativi al futuro dei democratici. Senza considerare che si ritroveranno a dover gestire l’opposizione pesantissima che il trumpismo continuerà a produrre. Insomma, penso che qualsiasi trionfalismo dei democrats oggi sia come minimo superficiali”. Una sinistra che, più che avere un problema con Trump, sembra avere un problema non risolto con l’America. Ieri Antonio Polito, editorialista lib-dem se mai ce ne fu uno, ha scritto un pensoso pezzo sul Corriere: “Il trumpismo in noi”. “Se il trumpismo di Trump, inteso come stile della lotta politica, è stato battuto, non credo che lo sia in noi, nelle nostre società occidentali”. Ed elenca una serie di motivi. Che un po’ suonano come una preoccupazione, un po’ sembrano la presa d’atto che sì, insomma, alla fine in Trump c’era qualcosa di ineluttabile, che non possiamo espellere e rinnegare come altro da noi, da noi pacati liberal europei. Perché se vai troppo a sinistra, alla fine ti ritrovi a destra.

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