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Caccia al fantasma

Riccardo Lo Verso

Arresti, sequestri, perquisizioni. Castelvetrano è una città sotto assedio. Il boss Messina Denaro ancora non si trova, e così ci si arrangia col sospetto

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Castelvetrano, via Alberto Mario, pochi giorni fa. “Aprite polizia”. Gli agenti entrano. Hanno gli occhi spalancati, malgrado potrebbero tenerli chiusi. Conoscono infatti la strada a memoria. E’ la casa di Lorenza Santangelo, la madre di Matteo Messina Denaro. Non è la prima volta e non sarà l’ultima che viene perquisita. Non c’è abitazione, garage, cantina o anfratto che non sia stato perlustrato centimetro per centimetro. Gli investigatori hanno ormai acquisito una specializzazione in topografia. Disegnano un punto rosso su ogni luogo visitato. Ormai la mappa è una distesa rossa. Conoscono ogni mattonella del paese in provincia di Trapani. La perquisizione è, come sempre, approfondita. Che il latitante non sia in casa è scontato. Ma neppure c’è un pizzino, una letterina, un gingillo, un souvenir, qualunque cosa abbia la parvenza di una traccia. Il padrino non c’è. E’ un fantasma, nonostante da anni venga ricondotto alla sua volontà tutto ciò che avviene in provincia di Trapani, dalla disputa per un terreno a pascolo all’apertura di una bottega in paese, alla costruzione di un mega impianto fotovoltaico. Basta mettere una dietro l’altra le notizie, vere o presunte tali, e false che più false non si può per scrivere il romanzo criminale, tragico e grottesco, della latitanza. Tragico è che si siano perse le sue tracce dal 2 giugno 1993, giorno in cui andarono ad arrestarlo per le stragi di Roma e Firenze. Grottesco è tutto ciò che l’eterna fuga ha alimentato. Donna Lorenza, anziana com’è, vive con la figlia Rosalia. E’ vedova, il marito, don Ciccio Messina Denaro, è morto nel 1998. Una sera di novembre di quell’anno il fratello di donna Lorenza andò a denunciare di avere trovato il cadavere del cognato in campagna. Mani giunte, vestito scuro, mocassini nuovi. Fine della latitanza, durata otto anni. “Sulu mortu lu putistivu pigghiari”, urlò la moglie. A casa Messina Denaro c’è un ritratto del figlio Matteo, stile Andy Wharol, con tanto di corona in testa. A ogni perquisizione spunta fuori il filmato dell’effigie regalata alla famiglia, pare, da un tatuatore locale. Fa il giro delle prime pagine di televisioni e giornali e il mito dell’imprendibile capomafia si alimenta. A pensarci bene forse è proprio questo che vogliono i familiari, farsi notare, piazzando il quadro in salotto sopra il divano. Il volto del latitante, quello vero, si conosce grazie a un paio di vecchie foto. Poi circola un identikit a cui non credono neppure coloro che lo hanno realizzato. E dire che fu presentato in pompa magna, come la chiave investigativa. Per anni, d’altra parte, si è inseguito Bernardo Provenzano con l’identikit di un cattivo del cinema hollywoodiano e invece l’abietto padrino corleonese si presentava come un anziano sottomesso.

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Castelvetrano, via Alberto Mario, pochi giorni fa. “Aprite polizia”. Gli agenti entrano. Hanno gli occhi spalancati, malgrado potrebbero tenerli chiusi. Conoscono infatti la strada a memoria. E’ la casa di Lorenza Santangelo, la madre di Matteo Messina Denaro. Non è la prima volta e non sarà l’ultima che viene perquisita. Non c’è abitazione, garage, cantina o anfratto che non sia stato perlustrato centimetro per centimetro. Gli investigatori hanno ormai acquisito una specializzazione in topografia. Disegnano un punto rosso su ogni luogo visitato. Ormai la mappa è una distesa rossa. Conoscono ogni mattonella del paese in provincia di Trapani. La perquisizione è, come sempre, approfondita. Che il latitante non sia in casa è scontato. Ma neppure c’è un pizzino, una letterina, un gingillo, un souvenir, qualunque cosa abbia la parvenza di una traccia. Il padrino non c’è. E’ un fantasma, nonostante da anni venga ricondotto alla sua volontà tutto ciò che avviene in provincia di Trapani, dalla disputa per un terreno a pascolo all’apertura di una bottega in paese, alla costruzione di un mega impianto fotovoltaico. Basta mettere una dietro l’altra le notizie, vere o presunte tali, e false che più false non si può per scrivere il romanzo criminale, tragico e grottesco, della latitanza. Tragico è che si siano perse le sue tracce dal 2 giugno 1993, giorno in cui andarono ad arrestarlo per le stragi di Roma e Firenze. Grottesco è tutto ciò che l’eterna fuga ha alimentato. Donna Lorenza, anziana com’è, vive con la figlia Rosalia. E’ vedova, il marito, don Ciccio Messina Denaro, è morto nel 1998. Una sera di novembre di quell’anno il fratello di donna Lorenza andò a denunciare di avere trovato il cadavere del cognato in campagna. Mani giunte, vestito scuro, mocassini nuovi. Fine della latitanza, durata otto anni. “Sulu mortu lu putistivu pigghiari”, urlò la moglie. A casa Messina Denaro c’è un ritratto del figlio Matteo, stile Andy Wharol, con tanto di corona in testa. A ogni perquisizione spunta fuori il filmato dell’effigie regalata alla famiglia, pare, da un tatuatore locale. Fa il giro delle prime pagine di televisioni e giornali e il mito dell’imprendibile capomafia si alimenta. A pensarci bene forse è proprio questo che vogliono i familiari, farsi notare, piazzando il quadro in salotto sopra il divano. Il volto del latitante, quello vero, si conosce grazie a un paio di vecchie foto. Poi circola un identikit a cui non credono neppure coloro che lo hanno realizzato. E dire che fu presentato in pompa magna, come la chiave investigativa. Per anni, d’altra parte, si è inseguito Bernardo Provenzano con l’identikit di un cattivo del cinema hollywoodiano e invece l’abietto padrino corleonese si presentava come un anziano sottomesso.

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Disegnano un punto rosso su ogni luogo visitato. Ormai la mappa è una distesa rossa. Conoscono ogni mattonella del paese


 

L’identikit di Messina Denaro si deve alle informazioni di uno dei tanti, troppi personaggi che in questi anni hanno detto di averlo visto, incontrato, salutato e abbracciato. Un ex consigliere comunale di Castelvetrano, Calogero Giambalvo, si era imbattuto in un solitario uomo di mezza età che se ne andava in giro per le campagne a cacciare. Coppola e lupara: che immagine. Non lo aveva riconosciuto. Poi “abbracci e pianti”. Dialogo surreale: “Lillo, come stai?”; “Bene e tu?; “Bene”, e mentre rispondeva il padrino aveva messo gli occhi sulla preda già catturata da Giambalvo: “Stiamo facendo mezz’ora di pianto e ti stai fottendo la lepre”. E giù risate. Era una balla talmente colossale che Giambalvo se l’è rimangiata mezz’ora dopo essere finito nei guai giudiziari. Un meccanico di Mazara del Vallo raccontava, anche lui senza sapere di essere intercettato, di avere giocato a carte con il latitante che faceva il furbo. Gli piaceva vincere facile e utilizzava un mazzo truccato. Truccato, anzi rifatto, come la sua faccia. C’è chi ha saputo che si è sottoposto a intervento di ricostruzione del viso in una clinica del Piemonte o della Val D’Aosta (la fonte non ricorda). Almeno la voce (come parla Messina Denaro?), sarà rimasta la stessa di sempre. Manco a dirlo. Un altro galeotto, infatti, ha detto che si è fatto operare alle corde vocali. Dove? Dietro l’angolo, in Thailandia. Vabbè, vorrà dire che il giorno in cui lo acciufferanno si farà affidamento sulle impronte digitali. E no, troppo facile. Altra fonte, altro problema: Messina Denaro si è rifatto i polpastrelli delle dita in Guatemala (evidentemente più lontano si va e più bravi sono i medici) per evitare che lo riconoscano attraverso le impronte. Meno male che gli investigatori hanno incamerato il profilo genetico dei familiari. Quando lo prenderanno il Dna non mentirà. Nel frattempo basta annunciare, a ogni arresto, anche e soprattutto del mafiosetto di terz’ordine, che il cerchio si stringe per guadagnarsi i titoloni in prima pagina. Vuoi che qualcuno non lo abbia nominato nel corso di migliaia di ore di intercettazioni trascritte in tonnellate di carte giudiziarie? “Sono convinto che lo arresteremo a breve”, ha annunciato il procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero De Raho. Non è per sfiducia, se lo dice il più alto in grado dell’esercito dei cacciatori, c’è da essere ottimisti. Per dovere di cronaca va messo agli atti che già il 2019, secondo Cafiero de Raho, avrebbe dovuto essere l’anno della cattura. Vabbè, mese più mese meno. I più pessimisti, oltreché complottisti, sono certissimi che Messina Denaro la faccia franca grazie a inconfessabili coperture politico-istituzionali. Un melmoso miscuglio di servizi segreti deviati e massoneria. Non lo vogliono arrestare perché “se si pente lui”, così dicono, “crolla tutto”. I segreti delle stragi, l’archivio di Riina sparito dal covo di Bernini – quello perquisito in ritardo – la trattativa Stato-mafia etc etc. Il padrino ha un potere ricattatorio eterno. Certo è dura credere che un manipolo di corrotti sia capace di prendersi gioco delle migliori forze investigative del paese che, detta così, non ci fanno proprio una bella figura. L’ultimo dei padrini latitanti deve avere una gola profonda in ogni ufficio di polizia, caserma dei carabinieri e della finanza etc etc. Qualcuno che alza la cornetta, oppure si collega via Skype o Telegram per avvisarlo dei movimenti degli investigatori. Sarà un lavoro usurante. Una chiamata un giorno sì e l’altro pure, alla luce della continuità dei blitz. Messina Denaro deve essere sempre raggiungibile anche se irreperibile. Condizione a rischio per un vecchio lupo di mare come lui. A largo delle coste i collegamenti traballano. Hanno detto anche questo del latitante, che ha allestito una flotta di barche in Sud America. Fa il pescatore, ma in grande stile. Parola di un detenuto che a un certo punto ha sentito fortissimamente la necessità di non tenersi dentro questo segreto. Toglietegli tutto al capomafia, ma non il mare. Ma proprio tutto tutto.


Se c’è il sospetto che da giovane qualcuno abbia bevuto una gazzosa con Messina Denaro è certo che quel qualcuno sia stato spiato


 

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Non c’è attività commerciale, piccola o grande, che non gli sia stata attribuita. A ogni sequestro spunta la parolina magica “riconducibile” a Matteo Messina Denaro che negli ultimi anni si è dato al turismo, rivelando degli alberghi, all’agricoltura, aprendo aziende vitivinicole o frantoi per macinare la nocellara del Belice, e soprattutto alle energie alternative. Impianti fotovoltaici, eolici, biomasse. Ha costruito un impero che valeva miliardi prima, e milioni di euro oggi. Messina Denaro, il femminaro, fa la bella vita e si dimentica degli amici. Persino del capo dei capi, quel Totò Riina che gli voleva bene come un figlio e che ha subito il tam tam mediatico come un cittadino qualunque. “A me dispiace dirlo questo… questo signor Messina (Matteo Messina Denaro ndr) – sbottava Riina nelle sue passeggiate con il confessore e istigatore di confidenze Alberto Lorusso – questo che fa il latitante, che fa questi pali eolici, i pali della luce, se la potrebbe mettere nel culo la luce... questo si sente di comandare, si sente di fare luce dovunque, fa luce, fa pali per prendere soldi ma non si interessa…”. Ah se fosse stato vivo don Ciccio Messina Denaro, “quella buonanima di suo padre”, che glielo aveva affidato, sarebbe andata in maniera diversa. Riina in carcere c’è rimasto fino all’ultimo respiro e quell’irriconoscente di Messina Denaro se la spassa in giro per il mondo. Perché non ci sono solo i viaggi per motivi di salute, ma anche quelli di affari e di piacere.

 

E’ stato segnalato a New York. Gli investigatori sono andati nella Grande Mela. Non c’era più lui, ma almeno si potevano mettere le mani su un hard disk che un aspirante collaboratore di giustizia diceva di avere conservato nella cassetta di sicurezza di un lussuoso appartamento. Niente, trasferta inutile. Peccato, sai che scoop le foto del latitante in bermuda, come un qualsiasi turista, in Spagna, Yugoslavia, Francia, Olanda, e Svizzera. D’altra parte con un’identità nuova e agganci istituzionali di altissimo livello si può viaggiare in prima classe, e sempre con bella donne, senza farsi notare. Che poi come lo noti uno come “lo zio” che “si è fatto rifare tutte cose”, registrò una cimice piazza a Castelvetrano che intercettava Luca Bellomo, pure lui arrestato.


L’identikit si deve alle informazioni di uno dei tanti, troppi personaggi che in questi anni hanno detto di averlo visto e abbracciato


 

Bellomo è sposato con Lorenza Guttadauro, sorella di Francesco, il “nipote del cuore” del padrino di Castelvetrano. E’ qui si apre il capitolo dei parenti. Gli hanno arrestato di tutto: Salvatore Messina Denaro (fratello), Anna Patrizia Messina Denaro (sorella), i cognati Vincenzo Panicola (marito di Anna Patrizia), Gaspare Como (marito di Bice), Rosario Allegra (marito di Giovanna), Filippo Guttadauro (marito di Rosalia), Francesco Guttadauro (figlio di Filippo Guttadauro e Rosalia Messina Denaro, dunque nipote). Qualcuno dei parenti nel frattempo ha pure finito di scontare la condanna, altri ne subiscono in silenzio la maledizione. Come Filippo Guttadauro, che da quattro anni vive da internato al 41 bis nel carcere di Tolmezzo. Ha finito di scontare la sua condanna, ma essendo ancora socialmente pericoloso gli è stata applicata una ulteriore misura di sicurezza. Dovrebbe partecipare alla vita della casa lavoro. Siccome il lavoro non c’è per gli onesti figuriamoci per i mafiosi, manca lo strumento per valutare il suo comportamento attuale. E così il suo status viene mantenuto di proroga in proroga. In gergo carcerario si chiama ergastolo bianco. Guttadauro sopporta in silenzio come tutti coloro che hanno fatto parte della rete di pizzinari. I messaggi sono arrivati “con la carrozza”, “in treno alla stazione” o con l’autista in “Mercedes”. Tutti arrestati e condannati, anche i vecchi mafiosi un tempo legati al padre che hanno veicolati i messaggi, questi sì giudicati autentici dagli inquirenti. Visite notturne a tappeto anche a casa degli amici di infanzia. Se c’è il sospetto che da giovane qualcuno abbia bevuto una gazzosa con Messina Denaro è certo che quel qualcuno sia stato spiato. “Qui stanno arrestando pure le sedie”, scriveva il latitante in uno degli ultimi messaggi a sua firma inviati a Bernardo Provenzano. Era il 2006 ed era l’alba di una stagione di arresti.


Non c’è attività commerciale, piccola o grande, che non gli sia stata attribuita. A ogni sequestro spunta la parolina magica 


 

Niente di niente, non lo hanno turbato le vicissitudini dei familiari – non ha visto crescere sua figlia che si chiama Lorenza, come la mamma – figuriamoci quelle degli amici o dei conoscenti. Messina Denaro resta un fantasma, investito di un potere assoluto più dai media che dai mafiosi. La verità è che nella riorganizzazione della cupola di Cosa Nostra, tentata dai palermitani nel 2018, del capomafia corleonese non c’è traccia. Non lo hanno cercato. La sua presenza è immateriale. Un avvocato, qualche anno fa, disse che per contestare a un imputato di avere fatto parte dell’associazione criminale Cosa Nostra guidata da Matteo Messina Denaro bisognava dimostrare innanzitutto che il latitante fosse vivo e che la guidasse davvero la mafia. Il legale si attirò immeritate e immotivate critiche. Qualcuno si spinse a dire che si poteva trattare di un esempio di collateralismo. Nulla di tutto ciò. Si può essere certi, perché sarebbe venuto fuori. Ogni tanto qualcuno sente il bisogno nominare Messina Denaro. Mai per nome, basta dire “Iddu”. Iddu non c’è. Non resta che sperare che la profezia di Cafiero De Raho si avveri davvero presto – mese più mese meno – perché Messina Denaro, mafioso e stragista, ha un conto da saldare con la giustizia. Nell’attesa il controllo militare prosegue, casa per casa. “Aprite polizia”, la strada la conoscono. Magari un giorno salterà fuori una traccia. L’ultima primula rossa di Cosa Nostra potrebbe commettere un errore.

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