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Portare via i morti

Maurizio Crippa

Le fotografie del convoglio militare di Bergamo. Lo sgomento di una guerra, di una solitudine, che non conoscevamo

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Il cielo già livido della sera dietro a quella fila di camion militari, fermi in attesa davanti all’architettura gigantesca e cupa, come senza conforto, del Cimitero monumentale di Bergamo. Poi la notte già scesa, illuminata solo dai fari dei camion militari che attraversano la città in silenzio. In colonna di guerra, non in corteo. Senza ali di folla, senza un saluto o un fiore, la città ricacciata indietro dalle regole e da uno sgomento troppo grande anche per affacciarsi alla finestra. Trenta camion dell’esercito che trasportano sessantacinque bare, una parte persino piccola delle sue vittime che Bergamo non può più nemmeno seppellire, non riesce nemmeno più a cremare. Sono le fotografie di mercoledì 18 marzo, non se n’erano ancora viste di così strazianti, e solenni, nella storia (breve) della nostra pandemia. Di così mute, anche. Le fotografie per natura non parlano, ma molte volte le più drammatiche sembra di sentirle urlare, di sentirne i rumori, i pianti. Da quelle fotografie di camion militari, l’esercito d’Italia, che sgomberano la città come tanti carri di monatti, sale il silenzio. Uno ha scritto su Twitter: “Bergamo mia questa notte non ho più parole, non ho più nemmeno un ‘andrà tutto bene’”. In provincia i morti sono più di 550, questi andranno a Modena, in Friuli e in Piemonte. A Varese, Piacenza, Parma, Rimini. Provvisoriamente. Verrà il giorno di fare ritorno. Immagini di guerra, come non pensarlo? Ma nel ricordo sfocato di telegiornali da terre lontane.

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Il cielo già livido della sera dietro a quella fila di camion militari, fermi in attesa davanti all’architettura gigantesca e cupa, come senza conforto, del Cimitero monumentale di Bergamo. Poi la notte già scesa, illuminata solo dai fari dei camion militari che attraversano la città in silenzio. In colonna di guerra, non in corteo. Senza ali di folla, senza un saluto o un fiore, la città ricacciata indietro dalle regole e da uno sgomento troppo grande anche per affacciarsi alla finestra. Trenta camion dell’esercito che trasportano sessantacinque bare, una parte persino piccola delle sue vittime che Bergamo non può più nemmeno seppellire, non riesce nemmeno più a cremare. Sono le fotografie di mercoledì 18 marzo, non se n’erano ancora viste di così strazianti, e solenni, nella storia (breve) della nostra pandemia. Di così mute, anche. Le fotografie per natura non parlano, ma molte volte le più drammatiche sembra di sentirle urlare, di sentirne i rumori, i pianti. Da quelle fotografie di camion militari, l’esercito d’Italia, che sgomberano la città come tanti carri di monatti, sale il silenzio. Uno ha scritto su Twitter: “Bergamo mia questa notte non ho più parole, non ho più nemmeno un ‘andrà tutto bene’”. In provincia i morti sono più di 550, questi andranno a Modena, in Friuli e in Piemonte. A Varese, Piacenza, Parma, Rimini. Provvisoriamente. Verrà il giorno di fare ritorno. Immagini di guerra, come non pensarlo? Ma nel ricordo sfocato di telegiornali da terre lontane.

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Sarajevo, i Balcani, per evocare l’Europa e il tempo più vicini a noi. Ma in Italia mai, mai da tempo infinito. Chi rimesta la memoria dei diciannove camion militari, ognuno con la sua bara avvolta nel tricolore, che sfilavano dall’Altare della Patria alla basilica di San Paolo, il 18 novembre del 2003, per i funerali dei soldati morti a Nassiriya. Chi ha qualche anno, ha negli occhi le bare di Piazza Fontana, di Piazza Grande. O i militari in divisa che portavano a spalle le bare dei morti di Erto, la tragedia del Vajont. Ma i camion militari, per le vittime civili, no. Trenta “ACTL”, autocarri tattico-logistici, come in una guerra vera, a portar via i morti, mai. Con le bare nascoste, quasi a volerle proteggere, dai teloni mimetici. Quelle persone e quei corpi che i parenti, i figli, le mogli e i mariti e gli amici non hanno potuto salutare prima, né vedere poi, né piangere ora davanti a una fotografia e a un mazzo di fiori. E’ forse questo senso di lontananza, di impossibilità di un abbraccio e di un lutto da esibire, come per i caduti al fronte annunciati da una lettera listata di nero, ciò che fa più impressione delle fotografie di Bergamo. Ciò che le fa somigliare di più a una guerra.

 

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La pandemia del Covid-19 non lo è, ovviamente. La guerra è una metafora senza alternative per condensare tutte le sofferenze di una malattia. E quelle fotografie, più ancora delle corsie d’ospedale, più ancora dei ventilatori e degli infermieri, risvegliano pensieri nascosti, o ricacciati indietro in mille modi. Come sempre più allontaniamo da noi, e da chi ci sta intorno, l’immagine pubblica della morte. Abbiamo imparato che è più dignitoso, forse è meglio. Ma perdere un proprio caro, in questa guerra senza nemico visibile, e non poterlo salutare, accompagnare, non l’avevamo ancora provato. E anche chi per sua fortuna non abbia un caduto da piangere, non può non sentire che questo silenzio a distanza è un dolore quasi più grande della stessa perdita di una persona cara. E immaginarci – anzi trovarci davanti – quei sessantacinque morti che se ne vanno da Bergamo, nascosti dai tendoni mimetici dei carri di guerra, senza nessuno che possa mandare un bacio, portare un fiore, dire una parola o una preghiera, è uno strazio cui non avevamo pensato mai. Che non ci trova preparati. C’era voluta l’arte, il cinema, per farci immaginare una solitudine così, e il desiderio di poterla colmare. In un film di qualche anno fa, “Still Life”, c’è un impiegato del comune incaricato di occuparsi dei defunti così soli che nessuno li reclama nemmeno per il funerale. Così lui cerca di ricostruire la loro vita, prepara un bel discorso per il funerale, sceglie le musiche, li accompagna al cimitero. Forse per sentirsi meno solo. Forse per restare umano.

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