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La svolta di Adam McKay: in Don't look up i superricchi sono cattivi e basta

Giulio Silvano

La nuova pellicola del regista della Grande scommessa e Succession è una potente metafora, il cui battage è politicamente schierato e quindi trasparente. Il male originario è la massimizzazione del profitto

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E’ diventato virale, almeno nell’universo tv-boomer, il video “cringe” del programma “Un giorno da pecora” dei tre virologi italiani – Crisanti, Bassetti e Pregliasco – che cantano, stonati e fuori tempo, “Sì, sì vax”, un invito a vaccinarsi sulle note di Jingle Bells. Polemiche varie, ma è certo che nel Coronacene lo status di celebrity per gli scienziati ha raggiunto nuovi livelli, bimbe di Burioni e così via.

 

Anche nel nuovo film di Adam McKay, Don’t Look Up, il personaggio interpretato da Leonardo DiCaprio, professore ansiogeno del Midwest, Xanax, capelli sporchi, occhiali e barba da nerd, attraverso le ospitate in televisione diventa “lo scienziato più sexy d’America.” Lui e Jennifer Lawrence, trasformati in “brutti”, rappresentano la frustrazione dello scienziato contemporaneo di fronte al relativismo populista di chi non vuole sentirsi dire che “il mondo sta per finire”. Il film, uscito qualche giorno al cinema e ora su Netflix, in stile Sorrentino, è un Dottor Stranamore 2.0. Ma se nel film di Kubrick la distruzione del pianeta era causata da contrasti ideologici, qui il motore è l’alleanza tra stato e corporation. Il focus, il male originario che anima gli antagonisti, è la massimizzazione del profitto e del pil. La figura più spaventosa di tutte in Don’t Look Up non sono i redneck che ignorano l’evidenza scientifica, non è la presidentessa ex star di un reality, non sono i giornalisti narcisi e cinicamente ottimisti, non è l’astrofisico che si vende ai finanziatori della Casa Bianca – “Mi sono prostituito, come la scienza all’industria”, canta Tutti Fenomeni – ma il magnate del tech Peter Isherwell, interpretato dall’attore shakespeariano Mark Rylance, premio Oscar per Il ponte delle spie. 

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Isherwell è un mix tra Elon Musk, Steve Jobs e tutti i guru della Silicon Valley che abbiamo elevato a “uomini dell’anno” e che competono come Rockerduck e zio Paperone per scalare le liste di Forbes. Il modo in cui risponde alle domande, con calma robotica e melliflua, non è così diverso da come lo faceva Mark Zuckerberg davanti al Congresso. L’unico momento in cui Isherwell perde la sua espressione claustrale è quando DiCaprio lo paragona a un businessman. Impazzisce, perché lui si considera in primis un visionario.

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Il prossimo film di McKay sarà basato sul libro Bad Blood: Secrets and Lies in a Silicon Valley Startup, inchiesta del giornalista premio Pulitzer John Carreyrou sullo scandalo dell’azienda di analisi del sangue Theranos. Il battage di McKay è politicamente schierato, trasparente, e per questo sfocia nell’esagerazione, nell’andare sopra le righe. I cattivi sono cattivi, e basta. Non persone, ma allegorie. Non c’è spazio per i dolori e la commiserazione dei super ricchi e non è un caso che il regista sia anche produttore esecutivo di Succession, che sarebbe potuto essere un Mad Men murdocchiano se non fosse così partigianamente anti billionaires, così caricaturale nel raccontare i capricci dei figli dei tycoon.  Scuola SNL, McKay ha diretto in passato una serie di commedie divertentissime con Will Ferrell.  Ma non aveva più senso, dice il regista in un’intervista, “con il crollo finanziario, l’ascesa dell’estrema destra, la crisi climatica e l’impennata delle disuguaglianze salariali. E’ diventato quasi bizzarro fare quelle commedie vecchio stile”. Ha deciso di fare altri film, usando la posizione ottenuta a Hollywood per cambiare le cose. Ma non tipo Marlon Brando che quando gli venne assegnato l’Oscar per il Padrino mandò sul palco, a rifiutare il premio, la nativa americana Sacheen Littlefeather.

 

Quello che sta facendo McKay è molto più consistente. Ha iniziato con la crisi finanziaria in La grande scommessa, per poi passare a Vice – L’uomo nell’ombra – forse il miglior film degli anni Dieci – un biopic sul potentissimo vicepresidente Dick Cheney, interpretato da un Christian Bale messo all’ingrasso. Scegliere membri del cast acchiappa-ragazzine, come Ariana Grande o Timothée Chalamet, che ha un ruolo abbastanza inutile in Don’t Look Up, è sintomo dell’interesse a far arrivare il messaggio dappertutto. Come se Costa-Gavras prendesse Robert Pattinson per un film sulle Falkland. 

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