Dick Cheney il giorno dell’inaugurazione di Donald Trump a presidente (Reuters)

Questo film su Cheney è una delusione

Daniele Raineri

Una pagina enorme di storia americana ridotta a uno sketch grillino

New York. Sono andato a vedere il film biografico su Dick Cheney – si chiama “Vice” – in un cinema di Brooklyn, che è un quartiere di New York dove ancora oggi le persone mimano un conato di vomito soltanto a sentire il nome “Dick Cheney”, e vicino al waterfront in un posto a quattro chilometri in linea d’aria da Ground Zero dove nel 2001 gli aerei pilotati da al Qaida hanno buttato giù le Torri gemelle. C’era parecchia roba che si poteva dire su Dick Cheney, vicepresidente di George W. Bush in uno dei periodi più intensi della storia americana che si è ritirato con uno degli indici di approvazione più bassi della storia, il 13 per cento, e si poteva dire anche roba terribile, ma il film alla fine è una delusione. Peccato perché c’è Christian Bale che è uguale a Cheney in tutto, ha studiato il ghigno e la postura, per avere qualcuno ancora più simile all’ex vicepresidente avrebbero dovuto proporre la parte direttamente a lui. E peccato perché il film offre qualche gag ingegnosa per tenere alta l’attenzione, come il falso finale con i titoli di coda a circa metà del film oppure il dialogo shakespeariano che precede la campagna elettorale. Tuttavia: è una delusione.

 

Secondo gli autori del film, gli uomini si muovono soltanto per tornaconto personale. Storia e ideologia non sono considerate

Vice imbocca la pista del grillismo cinematografico, quella in cui tutto è spiegato da un grande magna magna universale che corrompe uomini e governi e non accenna mai allo straccio di un’idea. Gli uomini si muovono soltanto per tornaconto personale. E quindi il presidente George W. Bush è uno scemo e Cheney è un puparo perfido che lo manovrava perché voleva i pozzi di petrolio dell’Iraq e questo è quanto. “What do we believe in?”, chiede in una scena il Cheney degli anni Settanta al suo mentore Donald Rumsfeld – che sarà poi il capo del Pentagono nell’Amministrazione Bush – e quello gli ride in faccia, non gli risponde, e mentre Cheney lo insegue ancora per ripetergli la domanda, in cosa crediamo?, gli sbatte la porta in faccia. E poi sghignazza ancora da dietro la porta. Capito? E tutto il resto del film va avanti così. Cheney è un grosso e lento predatore che sale con metodo nella scala gerarchica di Washington, pronuncia poche parole ma sempre definitive, e quando vuole rilassarsi s’infila un paio di stivali e va a pesca fra le pietre di un torrente, metafora telefonata per dire che sta facendo la stessa cosa nella capitale, si muove piano, getta esche e aspetta che i pesci abbocchino per trascinarli fuori dall’acqua. Fino ad arrivare al pesce più grosso, appunto, il figlio ubriacone del presidente Bush, che si candida per diventare a sua volta presidente. E allora Cheney lo aggancia con maestria, se lui non può diventare presidente diventerà qualcosa di più potente ancora, l’uomo che controlla il presidente rincoglionito. E nel frattempo per due volte c’è la fatidica scena di Cheney che allarga una mappa dell’Iraq prima dell’11 settembre e contempla la posizione dei pozzi di petrolio con accanto già segnati i nomi delle compagnie petrolifere occidentali che potrebbero sfruttarli come se pensasse: un giorno sarete tutti miei. Il film lascia allo spettatore il compito di riempire con la mente i passaggi che mancano: il vicepresidente con un passato in una compagnia petrolifera lavora per un presidente texano, è una storia che fa greggio da tutte le parti.

 

Il punto è che i passaggi mancano perché non ci sono. Più di dieci anni fa sono andato in Iraq a seguire la guerra americana contro lo Stato islamico – che già allora si chiamava così ma si usavano nomi diversi come “al Qaida in Iraq” per non complicare troppo le cose agli spettatori e così quando anni più tardi lo stesso gruppo si è ripresentato è sembrato una novità: no, era lo stesso – e ricordo le code lunghe di autocisterne scortate dai militari che arrivavano a Baghdad da sud perché trasportavano carburante dal Kuwait. Erano i rifornimenti per l’esercito americano e i suoi blindati molto pesanti e per gli elicotteri sempre per aria che consumano tantissimo ed era tutto carburante importato da fuori. I soldati americani importavano benzina per fare la guerra in un paese seduto sulle maggiori riserve di petrolio del mondo. Non era il caso più curioso di import militare, ricordo che compravano da fuori anche sabbia per creare campetti da volley per far rilassare i soldati nelle grandi basi perché quella irachena non era adatta, non era sabbia abbastanza fine, e così alla fine il risultato pratico era che il Pentagono portava petrolio e sabbia in Iraq – poi ci si chiede il perché dei conti astronomici delle guerre. E questi lunghi convogli di autocisterne che facevano settecento chilometri di autostrada piatta tra il Kuwait e l’Iraq centrale ci portano a Donald Trump, che è sempre stato convinto che gli americani avrebbero dovuto prendersi il petrolio iracheno per ripagare i costi della guerra e la perdita di vite americane. “L’ho sempre detto, non dovremmo essere lì, ma almeno prendiamoci il petrolio – ha detto a Matt Lauer della rete Nbc il 7 settembre 2016 – se ci fossimo presi il petrolio non ci sarebbe l’Isis, perché l’Isis si è formato con il potere e la ricchezza di quel petrolio. Al vincitore va il bottino di guerra. Laggiù non c’è un vincitore, ma io ho sempre detto: almeno prendete il petrolio”. A parte la teoria fantasiosa a proposito dell’Isis e il petrolio iracheno (l’Isis ha commerciato petrolio, ma soltanto quello ottenuto dai pozzi siriani), Trump ha ripetuto molte volte questo concetto “dovevamo prenderci il petrolio quando abbiamo fatto la guerra in Iraq”. Nell’agosto 2015 disse alla trasmissione Meet the Press: “Prendiamo il petrolio in Iraq così lo togliamo all’Isis. Prendere il petrolio iracheno è una cosa che avremmo dovuto già fare”. E alla Cnn nell’ottobre 2015: “L’ho detto fin da subito, se dobbiamo lasciare l’Iraq (nel 2011) prendiamoci il petrolio perché adesso vedete le mani in cui è finito”. E un anno dopo, mentre spiegava la sua politica estera durante un comizio in Ohio: “Lo dico da molto tempo, avremmo dovuto tenerci il petrolio dell’Iraq”. Secondo la rivista conservatrice (e antiTrump) National Review, il presidente ha questa fissazione del petrolio iracheno fin dal 2007.

 

L’America quando combatteva in Iraq era costretta a importare petrolio dal Kuwait. Altro che guerra per il greggio

Ora, Trump è stato oggetto di sberleffi per questa sua linea rapace a proposito del petrolio iracheno. La sua proposta è considerata assurda e non è fattibile sia dal punto di vista pratico, sia dal punto di vista della legge internazionale sia dal punto di vista dei rapporti tra America, resto delle nazioni e Iraq. Ogni volta che la rilancia tutti, e succede specialmente tra i democratici, la considerano una cosa ridicola e impossibile da farsi e scuotono la testa. Ma come è possibile pensare oggi che il presidente americano Trump sia scemo e incompetente perché avrebbe voluto prendersi il petrolio iracheno e allo stesso tempo pensare che nel 2003 Dick Cheney abbia scatenato la guerra in Iraq per prendersi il petrolio iracheno?

 

Questa è la lista delle compagnie petrolifere che oggi hanno una licenza concessa dal ministero del Petrolio di Baghdad per lavorare in Iraq: BP, China National Offshore Oil Corporation (CNOOC), China National Petroleum Corporation (CNPC, Dragon Oil, Egyptian General Petroleum Corporation (EGPC), Eni, ExxonMobil, Gazprom, Inpex, Itochu, Japan Petroleum Exploration Company (Japex), Kogas (Korea Gas Corporation), Kuwait Energy (KEC), Lukoil, Pakistan Petroleum, Pertamina, PetroChina, Petronas, Rosneft, Sonangol, Total, Türkiye Petrolleri Anonim Ortaklığıigi (TPAO). Le compagnie russe, cinesi, francesi e turche, quindi di paesi che erano contrari alla guerra in Iraq, più le compagnie dei paesi che durante la guerra in Iraq sono rimasti in disparte, sono il grosso delle multinazionali del petrolio che oggi lavorano in Iraq e superano di molto la presenza americana. Se c’era un piano per impossessarsi del greggio a dieci anni di distanza dalla fine della guerra non se ne vede traccia. Gli iracheni vendono il greggio fuori, alle condizioni che decidono loro com’è naturale. Nell’estate del 2018 il governo iracheno ha indetto una gara per offrire alcune concessioni, ma il bando è andato quasi del tutto deserto perché le compagnie petrolifere sono già impegnate altrove. La mappa dei pozzi su cui Cheney si china nel film per un paio di volte resterà come spiegazione perfetta della guerra in Iraq per milioni di spettatori, ma non corrisponde alla realtà e questa cosa noiosa la sapranno gli addetti ai lavori.

 

La dottrina del vicepresidente era “threatism”: usare tutti i mezzi per difendere l’America dalle minacce incombenti

Come spiega bene un pezzo del New Yorker, il settimanale molto sofisticato che non ha mai simpatizzato con Dick Cheney, il vicepresidente è stato fin dagli inizi della sua carriera politica un conservatore molto impegnato nel dibattito ideologico all’interno del Partito repubblicano. Questa parte è del tutto assente in Vice. Il suo primo lavoro con Rumsfeld dentro all’ufficio per le opportunità economiche fu tentare di smantellare la linea politica anni Sessanta impostata dalla precedente amministrazione democratica. Negli anni Settanta Cheney guidò una rappresentanza del Campidoglio a un incontro degli studenti democratici a Madison, dove aveva studiato lui, per far vedere da vicino quanto gli studenti degli anni Settanta fossero estremi nelle loro opinioni. La moglie Lynne raccontò in un’intervista di quando per arrivare in classe doveva superare le proteste permanenti: “Studenti con la faccia dipinta di bianco che agitavano intestini di animali per manifestare contro l’industria chimica”. Insomma, Cheney faceva parte di un partito, di una dottrina e di una tradizione politica che negli anni e a fasi alterne ha controllato il paese. Il che ha conseguenze sorprendenti per lo spettatore distratto. Cheney per esempio è convinto da posizioni di destra che il tentativo di Trump di vietare l’ingresso ai musulmani in America sia sbagliato: “Questa cosa che in qualche modo possiamo dire no ai musulmani e vietare un’intera religione va contro ogni cosa per cui ci battiamo”, disse in un’intervista. Ai tempi di Bush fece pressione senza successo per una modifica legislativa che avrebbe concesso uno status legale più favorevole a dieci milioni di migranti. Ed è decisamente schierato a favore del libero commercio, anche questa una cosa che il Partito repubblicano finito sotto il controllo di Trump detesta. Gli errori di Cheney sono sempre lì, raccontati da giornali e film, ma il fatto che ci fosse un apparato ideologico è sparito, come anche che il fatto che quell’apparato è in contrapposizione con l’Amministrazione di oggi. Nel film tutto questo è condensato da un’apparizione di Ronald Reagan di cinque secondi. Poi ci si lamenta che non si comprende l’America profonda. Tutto appiattito e ipersemplificato nel nuovo racconto delle cose che sarà per sempre fissato dal cinema. In cosa crediamo? In nulla. Risate. Mappa dei pozzi di greggio.

 

Date un’occhiata alla lista delle compagnie che pompano petrolio iracheno, e guardate quante sono quelle americane

Vice tratta il conservatorismo di Cheney come fosse semplice, puro opportunismo, scrive ancora il New Yorker. “Ma non lo era affatto, era quello che potremmo definire ‘threatism’ – da threat, minaccia. Forze potenti, determinate e con una capacità distruttiva enorme – l’Unione sovietica, l’islam radicale, la sinistra americana – vogliono distruggere la libertà americana e la democrazia. Politici troppo indulgenti, i liberal in particolare, sono incapaci di comprendere il pericolo o di raccogliere le forze necessarie a combatterlo. Per il gruppo ristretto di chi riesce a capire la situazione è imperativo fare un uso del potere discreto, esperto e aggressivo”. La parte che meglio illustrerebbe questo passaggio nel film manca, perché farebbe inciampare tutta la sceneggiatura, ed è quando Cheney come ministro della Difesa di George H. W. Bush, il padre, faceva parte dei falchi che nel 1990 consigliavano di intraprendere un’azione determinata contro il dittatore iracheno Saddam Hussein che aveva invaso il Kuwait. Si sa come andarono le cose: l’operazione Desert Storm cambiò i canoni della guerra, dimostrò che un esercito convenzionale poteva essere spazzato via in poche settimane dalla superiorità tecnologica americana, che l’America aveva la capacità di superare la sindrome Vietnam e di ottenere risultati in politica estera. La guerra in Kuwait creò l’illusione che l’America avrebbe potuto vincere anche sfide non convenzionali e fu una vittoria a metà per Cheney, perché lui faceva parte di chi sosteneva la necessità di portare a fondo la guerra e di spodestare Saddam Hussein, cosa che Bush padre rifiutò di fare. In uno degli ultimi documenti commissionato (assieme ad altri) da segretario alla Difesa, Cheney chiese una strategia che avesse al centro il riconoscimento dell’America come sola superpotenza rimasta in piedi dopo la Guerra fredda e la necessità di prevenire l’ascesa di nuovi, possibili rivali. Lo studio si chiamava “Defense Planning Guidance”. Otto anni più tardi, da vice di Bush figlio, volle recuperare quell’impostazione e si schierò a favore di un piano che questa volta prevedeva l’eliminazione di Saddam Hussein. Storie immense, errori schiaccianti, discussioni da cui dipendono le sorti dell’occidente e della sua identità e che arrivano rapidi fino a oggi, mentre l’America di Trump vuole di fatto appaltare alla Turchia la guerra contro lo Stato islamico in Siria e ai talebani le operazioni contro al Qaida. Un soggetto molto interessante. E invece ci è toccato lo sketch.

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  • Daniele Raineri
  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)