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Al cinema

Un film per riscoprire Sergej Dovlatov

Marco Archetti

I romanzi dello scrittore russo, cantore delle righe storte dell’umanità, raccontano con micidiale ironia l’uomo sovietico

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Un metro e novanta di altezza e un quintale di peso. Sergej Dovlatov era l’antitesi vivente delle sue opere, tutte agili, tutte stringate, mondi portatili capaci di raccontare con micidiale ironia l’uomo sovietico e di sempre, quello che si arrabatta, che deve pur vivere e non fa che arrangiarsi, e si arrabatta, vive e si arrangia in slalom perpetuo tra le evenienze, tra l’assurdo imponderabile e ristrettezze ponderabilissime, tentando di domare le complicazioni di un destino balordo che opera tragicamente sotto spoglie ridicole, magari proprio quelle di un calzino finlandese come accade nel romanzo La valigia (riproposto a puntate sul Foglio nell’estate di alcuni anni fa), memoir costruito intorno ai pochi oggetti che l’autore porta con sé nel 1979, al momento di emigrare, trentottenne, negli Usa. “Dalla pena che mi facevo, poco mancava che mi mettessi a piangere. Ero convinto di possedere delle cose. Invece, in tutto, una sola valigia.”

Esce al cinema, in questi giorni, “Dovlatov - I libri invisibili”, film ispirato alla sua vita a firma del regista russo Alexej German jr, Orso d’argento a Berlino 2018. L’Ansa che ne riporta la notizia scocca un “Dovlatov, poeta puro e duro nella Russia sovietica”, ed ecco cosa significa mancare il bersaglio. Per carità, l’inattesa ribalta dovlatoviana ci riempe di gioia, ogni riga di questo scrittore è una lezione da imparare, un equilibrio di umorismo e complessità risolta tra pudicizia e impudicizia e altri proficui opposti, ma è il caso di chiarire che Dovlatov non fu né duro né puro, anzi, al contrario, fu malleabile e contraddittorio, mai assiomatico o manicheo ma sempre partecipe della natura umana, cantore essenziale delle righe storte dell’umanità, soldato semplice della vita, disarmato e divertito dai paradossi solenni dell’esistenza. 

“Un uomo di bassezza morale epica”, scriveva nei Taccuini riferendosi a chissà chi e regalandoci, in cinque parole, il proprio compendio: qui non c’è alcuna ironia perché in Dovlatov la bassezza può davvero essere epica, basti pensare, nel Parco di Puskin, al ritratto di Micha l’alcolista: difende i nazisti, vuole sparare alla moglie, ma davanti al ritratto di Engels si toglie il cappello. Nel mondo dovlatoviano i delatori non sono che vulnerabili provinciali, mitomani feriti dalla vita, mancatori di parola a se stessi prima che agli altri, e i delati, intanto, fanno quello che possono, non che si possa garantire sulla loro probità, non a lungo, ma in fondo chi è probo? E fino a quando? 

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Regime speciale, di questa costante dubitativa dovlatoviana, è il romanzo-emblema. Racconta l’esperienza da sorvegliante in un campo di lavoro per delinquenti comuni. “Ho visto la crudeltà,” scrive Dovlatov, “insensata come la poesia. E la violenza, banale come l’umidità. In quel mondo ci si picchiava con raspe appuntite, si mangiavano cani e si violentavano capre. Ma la vita continuava a conservare le proprie consuete proporzioni. Il rapporto tra bene e male restava immutato”. Il mondo di Dovlatov: uguale nelle proporzioni, mutevole in tutto il resto, e reso con una prosa precisissima e un filo cinica, che simula noncuranza e svogliatezza al punto che ogni riga sembra sempre un po’ estorta a se stessa. Difficile preferire un solo romanzo. Indimenticabile il quartiere di Forrest Hill raccontato in Straniera con trionfale esuberanza (il mondo degli emigranti russi della terza ondata, rubizzi e litigiosi, energici e malfidati), ma angolare Noialtri, vasta saga familiare di cento pagine che trasforma in oro una biografia sovietica (“A sei anni sapevo che Stalin aveva ucciso il nonno”). Irrinunciabile La filiale, increscioso racconto d’amore, e indispensabile Compromesso, referto del surreale quotidiano sotto Brežnev. Ma come non scolarsi anche tutto il resto? Il consiglio è di cedere all’opera omnia – undici volumetti, tutti per Sellerio – e a quel sentimento che la pervade, di lieve e puskiniana “clemenza per i caduti”. Il coraggio – diceva Dovlatov – in fondo è proprio questo: amare la vita, pur sapendo, della vita, tutta la verità.

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