Jessica Chastain alla Festa del cinema di Roma (LaPresse) 

popcorn a roma

Jessica Chastain al servizio del Signore in “Gli occhi di Tammy Faye”

Mariarosa Mancuso

L’apertura della Festa del cinema di Roma è stata brillante, la commedia di esaltazione religiosa e rovinosa caduta avrà successo in sala. Ma per aiutare il cinema italiano, messo peggio del cinema Usa, bisognerebbe chiudere gli occhi sui mille difetti di “L’Arminuta”

“Dio ci vuole ricchi”. Tammy Faye e il marito Jim Bakker ne sono convinti, e vanno in giro a predicarlo – erano gli anni 70, voleva dire soprattutto televisione (prima per bambini, con i pupazzi, gli adulti seguiranno). Lei mette al servizio del Signore la voce e le ciglia spropositate (finalmente la frase “sbattere gli occhi” ha avuto la sua campionessa). Il contorno delle labbra se l’è fatto tatuare. Ma siamo già negli anni del declino, farmaci e trucco pesante hanno cancellato ogni ingenuità – se mai c’era stata. Lui aveva altri progetti, crede in Dio per una grazia ricevuta. La scena del corteggiamento tra i due pudichi studenti, che poi vanno a letto dicendo ogni momento “non si può non si può”, e subito si sposano, è una delle più divertenti. 

“Gli occhi di Tammy Faye” ha aperto l’altro ieri la Festa di Roma, edizione numero sedici. Lo ha diretto Michael Showalter, con Jessica Chastain che si fa conciare in tutti i modi (vedendola in “Scene da un matrimonio” di Hagai Levi quelle guanciotte non c’erano) e un meno brillante Andrew Garfield. La star era lei, lui pensava in grandissimo e combinava pasticci. Parchi giochi a tema religioso, una replica di Gerusalemme, anche una bella casa sul lago per sé e la mogliettina. Sullo schermo appare spento e con brutte parrucche, non sembra il genio del male che dovrebbe essere.

 

Alla settima stagione sotto la direzione artistica di Antonio Monda, la festa è sempre più festa (fatto salvo l’algoritmo delle prenotazioni che raggruppa le persone, mentre siamo invitati a uscire dalla sala “mantenendo il metro di sicurezza”). L’apertura è stata brillante, la commedia di esaltazione religiosa e rovinosa caduta avrà successo in sala. E tuttavia – parlando di cinema e senza farsi troppo prendere dall’atteggiamento “aiutiamo il settore e smettiamo di criticare” – indugia troppo sul finale. E non ha quel ben cinismo che aveva, per esempio, “Tonya” ovvero la pattinatrice assassina. 

Per aiutare il cinema italiano, messo peggio del cinema Usa, bisognerebbe chiudere gli occhi sui mille difetti di “L’Arminuta”, il film di Giuseppe Bonito tratto dal bestseller, e premio Campiello 2017, di Donatella Di Pietrantonio. Siamo nel 1975, ma nelle campagne abruzzesi ancora vigeva il neorealismo, canottiere e slipponi a costine mai di bucato (nelle sale il 21 ottobre, forniremo altri dettagli).

Netflix mostra un certo coraggio, mettendo la sua potenza distributiva su “Passing”, scritto e diretto dall’esordiente Rebecca Hall (dal romanzo “Due donne” di Nella Larsen). Bianco e nero, per giunta in formato “antico” – più quadrato – e dicono “nigger” con una certa frequenza. New York, 1920: certi neri con la pelle chiara si fanno passare per bianchi. Qualcuna riesce anche a farsi sposare da un marito razzista.