Donatella Di Pietrantonio. Foto tratta da ilcentro.it

L'Arminuta, il dolore di un'anima che resiste

Davide D'Alessandro

Dialogo con Donatella Di Pietrantonio, vincitrice del Premio Campiello 

Poi càpita di arrivare in fondo a un libro che in tanti hanno già amato, struggente e vero, struggente perché vero, e vorresti non avesse mai fine, ma tutto finisce e anche il libro sull’abbandono ti abbandona, quando l’arminuta, la ritornata del dialetto delle genti d’Abruzzo, ha scolpito sulla pietra il suo dramma e il suo faticoso adattamento. L’hanno ben compreso, al Campiello, premiando Donatella Di Pietrantonio, che non è uscita dalle scuole di scrittura creativa, dai laboratori dove s’impastano plot e metafore, ma dal proprio laboratorio di dentista pediatrico trovando, tra un incisivo e un canino, le parole per dirlo, come Marie Cardinal, per dire il dolore, il travaglio, lo spaesamento, il viaggio andata e ritorno lungo i sentieri impervi di un’anima ceduta, poi ritornata, dopo tredici anni, perché restituita. La scrittrice pensa al premio e sorride col cuore: “È stata una grande emozione, il riconoscimento di valore per chi ha sperimentato e coltivato per decenni la scrittura in ambito solitario e privato, per un’artigiana che ha lavorato con passione le parole, plasmandole tra forme e contenuti e leggendo molto, soprattutto Borges, Yourcenar e Kristóf”.

 Non le piace la definizione di romanzo di filosofia esistenziale, poiché “appare una definizione troppo alta. La mia resta un’opera narrativa con due protagoniste su tutte, due sorelle che spontaneamente costruiscono atti di resilienza sul campo, nelle prove quotidiane di vita. Adriana ha una notevole intelligenza pratica, una capacità di adattamento a condizioni anche estreme e l’arminuta si nutre e si rafforza di e con questa complicità”, tanto da sospirare: “Mia sorella. Come un fiore improbabile, cresciuto su un piccolo grumo di terra attaccato alla roccia. Da lei ho appreso la resistenza. Ora ci somigliamo meno nei tratti. Ma è lo stesso il senso che troviamo in questo essere gettate al mondo. Nella complicità ci siamo salvate”.

 Già, la complicità prorompe, si ribella alla trama che il caso (o chi ci si diverte a giocare) ha tessuto per te. Se scrivere è arrampicarsi con ardore sul cielo bianco della pagina e soffermarsi su quanto avviene sotto, su quanto hai perso di te durante la scalata lasciandone traccia sulla pagina (perché devi perdere tanto se vuoi che il lettore tanto raccolga), leggere è incontrare Adriana, lo spiraglio di luce oltre il buio, l’immagine chissà quante volte invocata tra uno sfratto e l’altro: “Sì, Adriana è fondamentale, anche se essere resilienti non vuol dire essere vincenti. Le ferite e i traumi restano. L’arminuta non dorme, non ha la capacità di abbandonarsi, le manca la fiducia nel risveglio”. Su ogni romanzo ci si chiede quanto sia autobiografico, ma Di Pietrantonio è netta: “È una falsa questione. Io non sono l’arminuta, sia chiaro, non sono stata mai ceduta e restituita, ma conosco l’abbandono, il vissuto interiore dell’abbandono e sono dentro le vite dei protagonisti anche senza una corrispondenza evidente dei fatti. In questo senso ogni mio romanzo è autobiografico”.

 L’Arminuta si presta a una trasposizione cinematografica? “Certo”, conclude la vincitrice del Campiello, lasciando presagire che, dopo la pagina scritta, arriverà il grande schermo. Del resto, si può essere sfrattati nella vita, per la miseria e la freddezza, ma non della vita. La vita non è una casa. La vita lotta, difende sé stessa, oppone la sua forza, resiste, vive. La vita è fatta per vivere. E per scrivere. Anche una madre che dà vita e la cede, lo sa. Anche Di Pietrantonio lo sa. Ora anche i lettori lo sanno.