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Venezia 2021

 Il lunghissimo film polacco vola più rapido di quello dei D’Innocenzo Bros

Mariarosa Mancuso

I registi dicono di non capirci niente nemmeno loro. "America latina" dura un’ora e mezza, ma allo spettatore sembrano tre. "Leave no traces", invece, ne dura due e quaranta, ma volano rapide

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I fratelli (gemelli) Fabio e Damiano D’Innocenzo hanno una passione per le piscine e per Elio Germano. Da “Favolacce” a “America Latina” – ultimo film italiano dei cinque in concorso alla Mostra di Venezia – la piscinetta gonfiabile è promossa a piscina di cemento, nel giardino di cemento di una villa di cemento che sorge in mezzo al nulla (però si vede che l’architetto è passato di lì, mettendo la sua firma su un incongruo scalone curvo che richiama la forma della piscina – o viceversa, solo l’architetto può saperlo).

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I fratelli (gemelli) Fabio e Damiano D’Innocenzo hanno una passione per le piscine e per Elio Germano. Da “Favolacce” a “America Latina” – ultimo film italiano dei cinque in concorso alla Mostra di Venezia – la piscinetta gonfiabile è promossa a piscina di cemento, nel giardino di cemento di una villa di cemento che sorge in mezzo al nulla (però si vede che l’architetto è passato di lì, mettendo la sua firma su un incongruo scalone curvo che richiama la forma della piscina – o viceversa, solo l’architetto può saperlo).

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Siamo a Latina, dove Elio Germano fa il dentista (pediatrico, gli rinfaccia il vecchio genitore: noi abbiamo distolto gli occhi dal trapano). Una notte scende nel sotterraneo e ci trova una ragazza legata e imbavagliata. Uso a ubriacarsi una volta la settimana con l’amico, scartata l’ipotesi che qualcuno abbia rapito la fanciulla e scelto il villone come nascondiglio, pensa a un black-out. Qualcosa che non ricorda di aver fatto, mentre al piano di sopra la moglie e due figlie, nella calda luce da mulino bianco si svegliano e fanno colazione (il resto sono colori al neon, altra firma stilistica dei D’Innocenzo Brothers). “America latina” dure un’ora e mezza d’orologio. Allo spettatore sembrano tre, mentre cerca di estrarre dalle immagini – leggiadre, ma dovrebbero essere la base – un brandello di trama. Quando il film uscirà nelle sale a novembre, anche i fan avranno difficoltà a districarsi. Neanche i registi forniscono un aiutino, nelle interviste dicono che il senso del film è oscuro pure a loro, forse la crisi del maschio. Così giovani e già così Grandi Maestri, colpa dei critici che ne hanno detto meraviglie.

 

Dura 160 minuti, pari a due ore e 40, il film polacco in concorso, titolo internazionale “Leave No Traces”. Volano rapidi, per la bravura del regista Jan P. Matuszynski e la brillantezza della sceneggiatura tratta da una storia vera. Siamo in Polonia, 1983. Due studenti di Varsavia escono per fare una passeggiata. Fermato dalla polizia per futili motivi – o forse no, era figlio della poetessa Barbara Sadowska, vicina a Solidarnosc – Grzegorz Przemyk viene selvaggiamente pestato e due giorni dopo muore in ospedale. L’amico Jurek Popiel testimonia contro le forze dell’ordine. Qui “Leave No Traces” (l’ordine alla caserma di polizia: colpire allo stomaco per non lasciare lividi) comincia davvero, mostrando la goffaggine e la stupidità militaresca, un’impressionante rete di spionaggio che come nella migliore tradizione comunista arruola anche i familiari, la destrezza dei professionisti che mettono le cimici nei telefoni. Le fughe per nascondersi fuori città, le perquisizioni, gli amici che prendono le distanze, i ricatti: “il suo diploma da parrucchiera non è valido”, e la poveretta si trova da un giorno all’altro senza lavoro. Gli interrogatori della procuratrice che mai si toglie il colbacco bianco di pelliccia.

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Domande e risposte su “chi ha fatto cosa” tornano nel più inutile e fastidioso film visto finora, sia pure fuori concorso. Non il modesto “Halloween Kills”, invitato per festeggiare il Leone d’oro a Jamie Lee Curtis: serviva la quota rosa, non c’era per festeggiarla un film dove si ammazzano meno ragazze? Il modestissimo, rispetto alle pretese, “Les choses humaines” di Yvan Attal (nato a Tel Aviv e marito di Charlotte Gainsbourg, così ci capiamo). Un processo per stupro, a Parigi. Il figlio di una famosa attivista femminista avrebbe fatto bere, fumare e indotto al pompino, la figlia di Mathieu Kassovitz, suo nuovo compagno in precedenza sposato a un’ebrea. “Era consenziente”. “No che non lo ero”. Ripetere da capo, oltre ogni umana pazienza.
 

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