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l'intervista

Toni Servillo: "Interpretando Eduardo Scarpetta ho capito che la solitudine va coltivata"

Gianmaria Tammaro

Parla l'attore napoletano, in gara a Venezia con i film di Mario Martone e Paolo Sorrentino. "Dopo tanti anni di carriera non mi interessano le vocazioni. Per questo mestiere sono più importanti i sacrifici e i compromessi"

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Mario Martone voleva girare “Qui rido io” (in concorso alla Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, e al cinema da domani con 01 Distribution) da molti anni. Per Toni Servillo, che interpreta Eduardo Scarpetta, questo è un film che celebra la vita del teatro. “E non è solo un ritratto di questo straordinario attore: in un certo senso, è un ritratto anche mio e di Martone”.

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Mario Martone voleva girare “Qui rido io” (in concorso alla Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, e al cinema da domani con 01 Distribution) da molti anni. Per Toni Servillo, che interpreta Eduardo Scarpetta, questo è un film che celebra la vita del teatro. “E non è solo un ritratto di questo straordinario attore: in un certo senso, è un ritratto anche mio e di Martone”.

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Scarpetta è una figura enorme, un talento esplosivo, l’uomo che fu in grado di superare il successo di Pulcinella e di creare una nuova maschera, quella di Felice Sciosciammocca. Viveva la vita secondo le sue regole, ed era il primo, quando scriveva, recitava e guardava gli altri recitare, a divertirsi. La faccia gli si contorceva per la gioia. E le intuizioni, come le battute, gli venivano naturali: una sovrapposizione di due piani, quello dell’immaginazione e della realtà.

“Qui rido io” è un film che racconta più storie, e che trova un ordine, un filo, nella carriera e nell’esistenza di uno dei più importanti commediografi italiani. C’è lo scontro con gli intellettuali napoletani, stanchi del successo della commedia popolare; e c’è quello più feroce e politico, consumato in tribunale, con Gabriele D’Annunzio. Poi c’è la sua vita privata, con gli Scarpetta da una parte e i De Filippo dall’altra.

Eppure, in tutta questa confusione, nei pranzi affollati, nelle prove concitate e tese, si respira sempre un’aria di profonda solitudine. “Questi grandi personaggi”, dice Servillo, “sono affamati di vita. Nel caso di Scarpetta, poi, parliamo anche di un impresario, di un uomo che prova a tenere insieme il lavoro sul palcoscenico e quello amministrativo. Nella sua carriera, è riuscito ad accumulare una grande ricchezza. Era capace, e ne aveva decisamente l’intenzione. Ha dovuto affrontare, però, uno scotto: rimanere solo. Questo è un mondo fatto anche di gelosie e di invidie”.

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Più in generale, essere un attore significa essere soli?
“A volte sì. La solitudine è una cosa che, in qualche modo, va coltivata; e coltivarla, per un attore, non è per forza un male. Stare tra le persone serve, certo: è un’occasione per rubare piccole cose e piccoli dettagli, per imparare e per nutrirsi. Ma stare soli, in tournée e nelle camere d’albergo, rappresenta una realtà precisa per l’attore. Non voglio dipingere un’immagine romantica, ma è così: si aspetta molto e si rimane molto da soli con sé stessi”.

 

Ed è una cosa che serve, che può aiutare?
“Gli attori non passano tutto il loro tempo a festeggiare o appoggiati ai banconi dei bar a bere cocktail. Questa vita richiede preparazione e impegno, e tanta solitudine. Se, chiaramente, c’è l’intenzione di fare bene questo mestiere. Io che ho 40 anni di esperienza alle spalle, e centinaia e centinaia di repliche nelle gambe, ho imparato la dimensione e la consistenza di questi momenti passati da solo”.

 

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Proprio verso la fine del film Scarpetta urla: “la libertà è in pericolo!”.
“In quel caso, si stava difendendo. Da comico, e da comico satirico, aveva provato a graffiare uno dei potenti dell’epoca. Voleva prendere in giro una certa retorica che fa parte, tradizionalmente, del dannunzianesimo. Con quella frase, Scarpetta si riferiva a questo; ma si riferiva anche al diritto più generale di parodia. Benedetto Croce (interpretato da Lino Musella, ndr) lo spiega benissimo: la parodia fa parte della vita, e nella vita esiste sia l’infinitamente grande sia l’infinitamente piccolo”. 

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Questa distinzione, però, sembra ferire Scarpetta.
“Sperava in una lode da parte di Croce; e invece si ritrova faccia a faccia con la verità. Croce gli dice, con molta sincerità, che le proteste durante il suo spettacolo, i colpi di tosse e il fastidio, erano stati causati soprattutto da un testo brutto”.

Gli dice anche che ognuno di noi ha un ruolo e un talento, e che il genio sta proprio in questo.
“Se lei recitasse il Conte Ugolino, gli dice, sarebbe il capo dei morti di fame. Ma gli dice anche un’altra cosa; gli dice che è importante imparare ad accontentarsi di sé stessi. Lei, dice Croce, è un grande attore e ha dato felicità a molte generazioni: e anche questo è un fatto”.

Ne “Il teatro al lavoro”, il documentario di Massimiliano Pacifico, parla dei gesti e del loro ruolo nella messa in scena. Da quali gesti è partito per costruire, o ricostruire, Scarpetta?
“In parte mi sono affidato a quello che è rimasto e che è stato scritto e in parte a quello che è stato tramandato e raccontato da Eduardo e Peppino De Filippo. In Eduardo, soprattutto, nel modo in cui si muoveva e si esprimeva, c’era molto del padre”.

In che senso?
“A un certo punto, in questo film, durante la recita di Miseria e nobiltà, c’è una camminata che qualcuno ha definito chapliniana. In realtà, quel modo di camminare era di Eduardo De Filippo quando interpretava quel testo del padre. Ci sono gesti e movimenti che vanno al di là, che superano confini ed estrazioni; e che poi, in qualche modo, ritornano”.

Questo è anche un film sui camerini.
“Un attore vive molto di più nei camerini che negli alberghi, a volte; e anche questo fa parte della sua solitudine. I camerini sono il luogo della concentrazione e sono anche, per certi versi, una casa. Un posto familiare”.

A Malcom Pagani, su GQ, ha detto: “Capirò esattamente che cos’è questo mestiere quando avrò intuito cosa mi è accaduto come uomo e a che cosa ho rinunciato per consacrarmi totalmente a tournée da 180 date all'anno”. Era il 2014. L’ha capito?
“Messa così, suona spaventosa. Volevo dire che non mi interessano le vocazioni, ma i bilanci. E io, ora, mi sento ancora lontano da un bilancio. Ritorniamo sempre lì, se vuole: al pericolo della retorica. Io non credo a quegli attori folgorati sulla via di Damasco. Questo mestiere si sceglie, e lo si accetta. E per farlo, come per tanti altri lavori, servono sacrifici e compromessi”.

Per esempio?
“Il tuo corpo è il tuo strumento principale, e questo porta a una serie di conseguenze: sul piano professionale, sì, ma anche sul piano personale. C’è un coinvolgimento profondamente fisico nel lavoro dell’attore. In teatro di più, ma anche nel cinema”.

 

A Venezia, quest’anno, c’è molta Napoli.
“Sì, ma è una presenza che, in qualche modo, non viene mai a mancare. Napoli è una città che ha molti problemi, come ho detto spesso, e che è molto complessa. Ma nella sua storia ha sempre avuto una spinta propulsiva verso tutte le arti. E quando non ce ne occupiamo direttamente noi, se ne occupano altri registi straordinari come Matteo Garrone”.

È in concorso con due film, uno di Martone e uno di Sorrentino. Per lei deve essere un momento estremamente felice.
“E lo è due volte. Con Martone siamo venuti a Venezia, con Morte di un matematico napoletano, quasi trent’anni fa. E con Sorrentino, invece, venti anni fa con L’uomo in più”.

Quante cose sono cambiate in questo tempo?
“Tantissime. Sul piano privato e, ovviamente, su quello professionale. Pensiamo a quello che è successo in questi ultimi due anni: oggi è tutto diverso. E tanto basta, direi; non serve aggiungere altro”.

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