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facce dispari

Renato Trabalza: “Sora Lella, un archetipo in cucina”

Francesco Palmieri

Fu negli ultimi cento metri che Elena fregò pure un colosso come suo fratello. Perché se chiedi di Aldo Fabrizi a chi è nato dopo il ’93 magari che ne sa, ma della grande cuoca romana può sovente citarti una battuta. A 30 anni dalla sua morte, suo nipote ne porta avanti l'eredità

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Controllando con Google, nel 2023 fanno trent’anni che è morta Sora Lella, ossia Elena Fabrizi sorella di Aldo. Se trenta paiono troppi è perché, grazie al tratto finale di vita percorso al cinema con Carlo Verdone, e alla popolarità di certe clip dei film, lei è entrata in quella curiosa corsia del tempo dove a sparuti personaggi è consentito sparigliare i calendari. Col privilegio di diventare archetipi, o maschere. Fu negli ultimi cento metri che Elena fregò, per carità bonariamente, pure un colosso come suo fratello. Perché se chiedi di Aldo Fabrizi a chi è nato dopo il ’93 magari che ne sa, ma della Sora Lella può sovente citarti una battuta.

Renato Trabalza, cinquantott’anni il prossimo 31 dicembre, lavora da quasi un quarantennio nel ristorante della Sora Lella, ossia di sua nonna paterna, assieme a due fratelli e una sorella. E nell’èra in cui si sogna un futuro da chef più che da giornalista, oscillando tra Cannavacciuolo e i Måneskin, tra le canne perlomeno terapeutiche e l’immanenza della curcuma, assaporare il Novecento che resiste in cucina fa piacere quanto rileggere i corsivi di Fruttero&Lucentini o quanto scorrere le foto della Befana del Vigile.

Il suo piatto preferito?

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Da cuoco o da avventore?

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Quello che più le piace mangiare.

Coda alla vaccinara.

Annamo bene… direbbe sua nonna.

Per caso lei è vegano? Ah, no? Meno male. Dunque, la cucina romana tradizionale è fatta di sapore e di sostanza, ma trattata con accortezza e parsimonia non è così pesante. La coda va sgrassata bene e nel sugo, oltre a sedano, uva passa e pinoli metto un tocchetto di cioccolato, che non si sente ma ingentilisce il sapore del manzo.

Ricetta rivisitata?

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Macché, pura tradizione. Fatta così, la coda è il re dei secondi. Mio nonno Renato lavorava al mattatoio e portava a casa il cosiddetto “quinto quarto”, che nonna cucinava. Poi lei aprì una trattoria a Campo de’ Fiori e dal ’59 all’Isola Tiberina, dove imparò mio padre Amleto.

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Un omaggio a Shakespeare?

No, era il nome del fratello maggiore di nonno. Però mio padre lo chiamavano Amleto solo in casa: all’anagrafe fu registrato come Aldo in omaggio a mio zio.

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C’era rivalità artistica, o culinaria, tra Aldo e Lella?

Nessuna. Aldo si era preso cura delle sorelle quando erano rimasti orfani di padre. Con immenso affetto per lei, che era più piccola di dieci anni.

La pietanza prediletta da Aldo?

Domanda difficile: minestre, amatriciana, pasta e patate… però, quando veniva a trovarci, mio padre gli imbastiva una frittata coi pezzi di bollito. Irresistibile.

Il piatto amato da nonna?

Se dovessi menzionarne uno solo, gli gnocchi all’amatriciana con guanciale affumicato e stagionato. Se dovessi ricordare la pietanza delle feste, quando la trattoria era chiusa, gli involtini coi peperoni. Le ricette sono nel volume ‘Annamo bene’ pubblicato da Giunti. Preparava teglie intere di involtini, ma le faceva piacere.

Poi lasciò a voi i fornelli.

Si spostò alla cassa. Certe volte s’assopiva con la penna in mano mentre teneva i conti, ma si riscuoteva: “Datemi un po’ di gelato alla crema, ché mi risveglia”. Quando andava sul set si divertiva moltissimo perché non si sforzava: faceva se stessa e andava pure a braccio. Sulla sua notorietà ironizzava. Un giorno, mentre “capava” broccoletti e carciofi, notò che c’era un po’ di gente venuta a salutarla: “Ahò, ma che so’ diventata… la madonna de Lùrdese?”

Chissà cosa avrebbe detto di Cracco o della pizza di Briatore.

Sentendo il prezzo avrebbe sbottato col classico: “Me cojoni!”. Non discuto la bontà della cucina stellata ma è tutto così “brandizzato”, perdoni l’anglismo, che la sostanza può esserci ma anche non esserci. Conta di più la firma.

La cucina tradizionale romana si estinguerà?

I giovani vengono a lavorare, fanno un po’ di esperienza e dopo qualche mese vanno altrove. Non capiscono che antico non vuol dire superato. L’antico ritorna e le tradizioni regionali, quelle veraci, non le impari nelle scuole o dai tutorial, ma da una generazione all’altra. Con l’avvento della cucina gourmet, dagli anni novanta la tradizione verace resiste più a fatica.

La sua ricetta preferita da cuoco?

Minestra di broccoli e arzilla coi maltagliati all’uovo. Un’antica esplosione di sapori.

Il piatto più difficile?

Quelli dagli ingredienti più semplici: la carbonara per esempio, per la ricerca del giusto equilibro della cremetta, né troppo asciutta né troppo liquida. È una questione di temperature. Stessa cosa per la cacio e pepe.

Sapori dimenticati?

Lo zabaione mi sembra un po’ passato di moda. Le mamme non fanno più l’uovo sbattuto ai bambini, su cui quando crescevi versavano il goccetto di marsala. È un gusto che sto riscoprendo anche da gelatiere: sto aprendo un locale a Bologna dove lo riproporrò nei maritozzi.

Una soddisfazione?

Andy Garcìa l’estate scorsa, quando ha assaggiato le polpette e mi ha chiesto la ricetta. O i romani, i clienti più difficili, quando convinti magari da un amico milanese si ricredono sul valore della propria cucina e la riscoprono.

 

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