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Più petardi che cannoni

Benedetto, Francesco e la crisi della fede. Che ne sarà della Chiesa

Matteo Matzuzzi

Sepolto Ratzinger, si annunciano guerre apocalittiche tra chi ne vuole pietrificare l’eredità e chi invece vuole fare la rivoluzione per santificare la modernità. Pochi hanno però capito qual è il vero problema

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Ora che Benedetto non è più su questa terra, l’atteso profluvio d’analisi sulla “guerra” imminente tra i fronti della Chiesa ha già iniziato a inondare ogni canale mediatico possibile. Giornali, tv, siti internet e social. Tifoserie dell’uno e dell’altro Papa pronte a sguainare le spade, forse neanche troppo metaforicamente, e a darsele di santa ragione. In nome di cosa? Dei princìpi, si dice. Dell’idea di Chiesa che si incarna e del destino che a essa si vuole dare. Strattonati, Benedetto e Francesco, di qua e di là. Conservatori e progressisti – se si vuole usare ancora questa categoria un po’ banale che non chiarisce  i connotati delle squadre in campo – decisi a pervenire al redde rationem, la resa dei conti. 

 

In questi anni molta attenzione è stata posta sulla “destra” nostalgica dell’età ratzingeriana, benché sarebbe più corretto dire che in gioco non c’era tanto quanto Benedetto XVI aveva seminato nel suo breve pontificato, bensì il quasi trentennio trascorso al Soglio petrino da Giovanni Paolo II. Le critiche più feroci, in questo tempo che ci separa dalla rinuncia del febbraio 2013, sono state proprio rivolte all’eredità del Papa polacco, il “santo subito” che qualcuno ha pure proposto di far scendere dagli altari, vuoi per l’affaire Theodore McCarrick, vuoi per certi errori di valutazione su fatti e persone che inevitabilmente in un lasso di tempo così lungo ci sono stati. E giocoforza l’assalto a Wojtyla ha finito per lambire la talare monacale di Ratzinger, che dell’“amato predecessore” è stato l’alfiere dottrinale nonché uno fra i principali collaboratori, benché sempre estraneo a gruppetti e cordate curiali da sempre in fermento in Vaticano e desiderose, ieri come oggi, di farsi avanti e guardare ammirate la sacra pantofola.

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Le lotte che hanno contraddistinto la “coabitazione” nel recinto di Pietro sono state esasperate dalla moltiplicazione dei canali di diffusione: ogni sospiro, ogni foto, ogni chiacchiera di qualche incauto visitatore che non si riservava in pectore le confidenze dell’emerito, finiva rapidamente in rete. E contribuendo così ad alimentare la teoria farlocca dei due Papi, impreziosita da libelli scandalistici dallo scarso valore intellettuale che metterebbero perfino in dubbio la validità della rinuncia. O, peggio, denotando una sorta di Ratzinger “Papa impedito” che fino all’ultimo respiro avrebbe mandato messaggi all’esterno in cui chiariva che se di Pontefice massimo ne esiste uno, quello è lui. Decenni fa, c’era chi ipotizzava la sostituzione di Paolo VI con un sosia: quello vero rinchiuso nelle segrete vaticane, quello finto messo in trono e incaricato di portare la Chiesa alla dissoluzione. Su certi dossier complottisti, veniva pure analizzata la forma dell’orecchio del povero Montini, a dimostrazione che quello vestito di bianco non era il vero Papa. Stavolta le elucubrazioni sono sofisticate, ma il senso è più o meno quello. Anche perché i sedicenti “ratzingeriani” che s’industriano a partorire siffatte teorie non fanno altro che, implicitamente, dare del bugiardo allo stesso Benedetto XVI, non credendo alle sue parole pronunciate in quella ventosa mattina di quasi dieci anni fa. Non si rende un grande onore a quel gigante che è stato Joseph Ratzinger. 

 

Le lotte che hanno contraddistinto la coabitazione nel recinto di Pietro sono state esasperate dalla moltiplicazione dei canali di diffusione

 

Anche per Francesco, però, non è stato semplice e non è affatto da escludere che la presenza del predecessore, e non di un predecessore qualunque, visto che colui che dal Pontefice regnante è considerato il migliore teologo presente su piazza (Christoph Schönborn), ha già paragonato Ratzinger a sant’Agostino, abbia frenato determinati propositi di riforma che forse sarebbero andati avanti in modo più spedito. Ora, si dice, si apriranno le cateratte ed esploderà la guerra, una mezza apocalisse che vedrà gli eserciti fronteggiarsi. Ma qual è la consistenza di queste truppe? Generali che a fatica si reggono in piedi – l’ingravescente aetate vale per tutti, lo scheletro con la clessidra sulla tomba di Alessandro VII è lì apposta per ricordarlo – e spavaldi vescovi mitteleuropei che teorizzano una Chiesa 3.0 con svolte e aperture su tutto davanti a sedie vuote e davanti a edifici che un tempo erano sacri e adesso, se va bene, sono bistrot. 

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Non ha aiutato la teoria  dei due Papi, impreziosita da libelli di scarso valore intellettuale che metterebbero  in dubbio la validità della rinuncia

 

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Il problema non è la guerra imminente, ora che Ratzinger è stato sepolto nelle Grotte. Il problema vero è la crisi della Chiesa, che nessuna riforma strutturata a tavolino od organizzata da confusi “cammini sinodali” che tutto e niente vogliono dire, comprensivi di cantieri messi in piedi da commissioni episcopali, può risolvere. Qualcuno dice che è irrisolvibile, che la modernità (o post modernità) ha presentato il conto e che ora va pagato e che dunque bisogna evolvere. Di solito a dirlo sono sempre quelli che predicano davanti al nulla, perché le pecore – quando s’accorgono che nessuno le guida – se ne sono già andate e recuperarle è impresa più che ardua. Francesco, tolta la melassa che dal 2013 pretende di invadere ogni riflessione seria sul pontificato e sulle cose di Chiesa – e chi si permette di pensare è, in una logica demenziale, ipso facto annoverato tra quanti tramano contro il Papa – ha avviato processi, messo la Barca in acqua affinché prendesse il largo, tentando di teorizzare una sorta di “orizzontalità” che ha aperto non solo alla sinodalità ma anche al fatto che gli episcopati vanno un po’ per conto loro. A destra e sinistra, negli Stati Uniti e in Germania. Da una parte e dall’altra con il Papa che si trova in mezzo, lascia fare e dire, non interviene se non con qualche mezza frase consegnata a braccio ai giornalisti mentre vola da un capo all’altro del mondo. Nostalgici dei tempi delle guerre culturali contrapposti a fautori di innovazioni radicali, come se la questione centrale fosse oggi avere le diaconesse sull’altare, i preti con moglie e prole e – nell’altro campo – tutto ridotto alla battaglia anti aborto. 

 

Il problema è diverso, più grave: la mancanza di fede. Un mondo ignorante che non crede più perché ha perso i fondamentali. Lo si è visto anche nei tre giorni in cui, nella magnifica e solenne cornice della basilica vaticana, il popolo faceva la coda per rendere omaggio ai resti mortali di Benedetto XVI, adagiato su un catafalco beige e vestito con i paramenti rossi, segno della morte papale. Sfilavano e giunti davanti al corpo scattavano foto. Qualcuno registrava, per fortuna non si sono visti selfie. Pochi, pochissimi si facevano il segno della croce. Quasi nessuno abbozzava una genuflessione, anche perché gli addetti invitavano a “non sostare”, quasi fosse un quadro in una pinacoteca e non il feretro di un uomo che è stato vicario di Cristo in terra. Chi immortalava il momento con lo smartphone non lo faceva per disinteresse, alcuni infatti erano addirittura commossi. Lo facevano perché non capivano il significato, lo stare lì davanti alla morte di un Papa. Era uno spettacolo: sì, c’era l’affetto per il defunto, ma era il proscenio a suscitare emozione.  

 

Scriveva Benedetto XVI che “una società nella quale Dio è assente – una società che non lo conosce più e lo tratta come se non esistesse – è una società che perde il suo criterio. Nel nostro tempo è stato coniato il motto della ‘morte di Dio’. Quando in una società Dio muore, essa diviene libera, ci è stato assicurato. In verità, la morte di Dio in una società significa anche la fine della sua libertà, perché muore il senso che offre orientamento. E perché viene meno il criterio che ci indica la direzione insegnandoci a distinguere il bene dal male. La società occidentale è una società nella quale Dio nella sfera pubblica è assente e per la quale non ha più nulla da dire. E per questo è una società nella quale si perde sempre più il criterio e la misura dell’umano”. Non c’è niente di difficile nelle parole del professor Ratzinger, se non per chi è prevenuto nei suoi confronti. 


Francesco, oggi, sta constatando che l’analisi del predecessore è la semplice realtà. Non un fedele più entrato in Chiesa da quando si parla, in riunioni più o meno aperte, di riforme e rinnovamento. Non un prete in più ha varcato le porte dei sempre meno numerosi  seminari. Nel caos fomentato dalle mode del momento e dei venti di dottrina che cambiano a seconda delle circostanze, la Chiesa si è indebolita. Per questo è paradossale profetizzare guerre all’ultimo sangue per stabilirne la rotta. Gli eserciti sono sfiancati e sguarniti, le proposte e promesse di rivoluzione sono ridotte a slogan – “nuova primavera”, “vento di riforma” – buoni per le titolazioni di qualche articolo di giornale e nulla più. I fronti che agitano la Chiesa si contendono insomma non un pregiato trofeo, ma un corpo acciaccato e indebolito. Che ha poco da dire, ormai. Almeno alle latitudini europee.

 

Francesco ha scelto di guardare altrove, dando la partita per persa. L’ha ribadito anche in una delle sue ultime interviste, lui in Europa va solo nei paesi di frontiera, quelli piccoli. Non certo al cuore. Per Benedetto, rianimare quel cuore era invece fondamentale, decisivo per vincere la battaglia, pena l’irrilevanza. Si è scelto di puntare alla periferia, politica sociale e geografica, nella convinzione che da lì arriverà al linfa capace di dare nuova linfa alla testimonianza evangelica. E’ una scommessa e probabilmente solo un Papa gesuita, per vocazione missionario, poteva farla. Sarà il tempo, e non basteranno pochi anni, a stabilire se si è trattato o meno di un azzardo.

 

Per Benedetto, rianimare il cuore dell’Europa era decisivo per vincere la battaglia, pena l’irrilevanza. Francesco ha scelto un’altra strada

 

E’ dunque questo il contesto in cui dovrebbe giocarsi la vaticinata guerra decisiva. Francesco, al tramonto del suo pontificato, viaggia a doppia velocità: se da un lato indice e prepara il grande Sinodo sulla sinodalità che per diversi aspetti ha le caratteristiche di una sorta di Vaticano III – almeno così vorrebbe una buona parte dell’episcopato mondiale –, dall’altro si fa sempre più Papa re, accentrando in poche mani (le sue e quelle di fidatissimi collaboratori) il governo della Chiesa. Venerdì, ad esempio, è stata promulgata una costituzione apostolica che ribalta il vicariato di Roma: il Pontefice presiederà perfino il consiglio episcopale della sua diocesi, avendo l’ultima parola sulla nomina di parroci e viceparroci. Dimensione orizzontale (sinodalità, spesso fraintesa con collegialità) e dimensione verticale (sub Petro): è qui che con ogni probabilità s’animerà lo scontro al futuro Conclave, quando i cardinali saranno prima o poi chiamati a scegliere il successore di Jorge Mario Bergoglio. Prima, Francesco dovrà cercare di trovare la quadra al percorso sinodale, che stenta a decollare e a scaldare il Popolo di Dio.

 

Papa Francesco dovrà cercare di trovare la quadra al percorso sinodale, che stenta a decollare e a “scaldare” il Popolo di Dio

 

La partecipazione è scarsa – come ampiamente prevedibile – e le richieste che emergono non di rado hanno poco a che fare con le reali esigenze della Chiesa. Dando la sensazione, come nel caso tedesco, che il Sinodo sia solo l’occasione per tentare ancora una volta di fare quel che in Germania si tenta da decenni: ribaltare la struttura gerarchica della Chiesa. Francesco l’ha capito, infatti ha detto che lui vuole per i tedeschi una Chiesa cattolica, non un’altra protestante. Ma ogni volta che avrebbe potuto troncare i moti di sfida che giungevano da oltralpe, ha scelto di soprassedere, lasciando che il disordine trovasse spazi in cui operare. Strategia? Si vedrà. Quel che è certo è che ora, venuta meno la presenza terrena di Benedetto XVI, che per tanti fungeva da giustificazione ai rallentamenti dell’azione riformatrice del pontificato, vengono meno anche gli alibi. Ciò che appare improbabile, almeno oggi, è che a scatenarsi sia una guerra apocalittica per il destino della Chiesa. Semmai, viste le truppe schierate, più che il rombo dei cannoni si può prevedere il lancio di qualche petardo di fine anno.

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