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Quel che resterà del viaggio del Papa in Iraq

Francesco non è un irenista e i tre giorni di pellegrinaggio lo dimostrano. Dialogo con l'islam incluso. Prossima tappa, il Libano

Matteo Matzuzzi

Ha parlato di barbarie e di terrorismo, ha ascoltato le testimonianze dei cristiani perseguitati. L'obiettivo è rendere possibile la convivenza in quelle terre. Una questione di puro realismo

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Con l’islam si deve dialogare, anche rischiando, dice il Papa a bordo dell’aereo che lo stava riportando a Roma dopo il viaggio in Iraq. Rischiare, negoziando, pregando, riflettendo e correggendo, come capitato in segreto e per sei mesi prima di firmare il documento di Abu Dhabi sulla fratellanza che ha poi portato alla stesura dell’enciclica Fratelli tutti. Lo impone la realtà vista a Mosul e Qaraqosh, le chiese sventrate e ridotte in macerie e spesso ricostruite anche con l’aiuto dei musulmani che lì abitano. Non a caso Francesco ha ricordato la testimonianza della donna il cui figlio fu ucciso da un colpo di mortaio e che ora ha parole di perdono per gli assassini. Il Papa non vive su un altro pianeta né è un irenista, come pure tante volte viene dipinto e raccontato. Più volte, tra Ur e la Piana di Ninive, ha parlato di barbarie e di terrorismo –  anche quando il rigore diplomatico non lo prevedeva – segno che è consapevole di quanto è avvenuto lì e  sa bene quali fossero le insegne dell’esercito nero del Male che marchiava con la “N” di nazareno le case dei cristiani. 

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Con l’islam si deve dialogare, anche rischiando, dice il Papa a bordo dell’aereo che lo stava riportando a Roma dopo il viaggio in Iraq. Rischiare, negoziando, pregando, riflettendo e correggendo, come capitato in segreto e per sei mesi prima di firmare il documento di Abu Dhabi sulla fratellanza che ha poi portato alla stesura dell’enciclica Fratelli tutti. Lo impone la realtà vista a Mosul e Qaraqosh, le chiese sventrate e ridotte in macerie e spesso ricostruite anche con l’aiuto dei musulmani che lì abitano. Non a caso Francesco ha ricordato la testimonianza della donna il cui figlio fu ucciso da un colpo di mortaio e che ora ha parole di perdono per gli assassini. Il Papa non vive su un altro pianeta né è un irenista, come pure tante volte viene dipinto e raccontato. Più volte, tra Ur e la Piana di Ninive, ha parlato di barbarie e di terrorismo –  anche quando il rigore diplomatico non lo prevedeva – segno che è consapevole di quanto è avvenuto lì e  sa bene quali fossero le insegne dell’esercito nero del Male che marchiava con la “N” di nazareno le case dei cristiani. 

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Poi c’è la realtà, che è quella di cristiani e musulmani che condividono da secoli strade, piazze, palazzi e luoghi di lavoro ed è su questa pacificazione  – la “fratellanza” – che bisogna lavorare, anche rischiando appunto. Il problema è sempre quello, depurare l’islam della sua visione politica, degenerazione che porta subito al fondamentalismo e ai califfati jihadisti. Per questo Francesco va a Najaf dal Grande ayatollah sciita e ne loda parole e opere conversando con i giornalisti – “Un uomo umile e saggio, a me ha fatto bene all’anima questo incontro. E’ una luce, e questi saggi sono dappertutto perché la saggezza di Dio è stata sparsa in tutto il mondo –, e per questo lavora con il Grande imam sunnita di al Azhar per stringere un patto che renda la convivenza possibile. Non è un caso che più d’una volta in tre giorni abbia parlato di libertà,  rispetto, riconoscimento e cittadinanza. “E’ indispensabile assicurare la partecipazione di tutti i gruppi politici, sociali e religiosi e garantire i diritti fondamentali di tutti i cittadini. Nessuno sia considerato cittadino di seconda classe”. Ancora, “l’antichissima presenza dei cristiani in questa terra e il loro contributo alla vita del paese costituiscono una ricca eredità, che vuole poter continuare al servizio di tutti. La loro partecipazione alla vita pubblica, da cittadini che godano pienamente di diritti, libertà e responsabilità, testimonierà che un sano pluralismo religioso, etnico e culturale può contribuire alla prosperità e all’armonia del paese”. Insomma, conosceva bene il contesto nel quale si trovava. 
Il rischio è grande ma, è la convinzione del Papa, va corso. Per mero realismo, perché non si può fare altrimenti. Glielo chiedono anche le gerarchie ecclesiastiche locali, che in qualche caso avrebbero voluto anche parole più forti del Pontefice contro le potenze occidentali, “male assoluto” che ha determinato  – nella loro lettura – distruzione ed esodo. Francesco se ne è guardato bene, preferendo dare al viaggio l’impronta del pellegrinaggio anziché quella del tour politico con immediate implicazioni geopolitiche. 

 

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I discorsi in terra irachena avranno bisogno d’essere ripresi e letti in continuità con l’enciclica Fratelli tutti e il già citato documento di Abu Dhabi. Solo così si potrà mettere a fuoco la “questione” islamica, che resta sul tavolo in tutta la sua forza nonostante le pur storiche photo opportunity con Ali al Sistani. Il problema lo spiegava bene il grande islamologo Samir Khalil Samir, mentre osservava l’avanzata califfale in Iraq e Siria: “L’Islam, a differenza del cristianesimo, non è solo una religione: è una totalità. E’ questo la sua forza e il pericolo. Può diventare un impero, una dittatura, perché niente sfugge all’islam: l’economia, la politica, l’aspetto militare, il rapporto uomo-donna, i gesti precisi nella preghiera, il modo di vestirsi, tutto! Tutto è islamico! E’ una forza, una potenza, ma è anche la lacuna, la difficoltà dell’islam. Mescolando religione, politica, economia e potere, la religione perde la sua essenza. E’ ciò che cerco di spiegare agli amici musulmani: fino a che ci sarà questo miscuglio – e rischia di essere per l’eternità – sarà difficile per i musulmani trovare una linea umanistica completa”. Francesco non perde di vista il vicino oriente: se un viaggio in Siria non è all’orizzonte – “Non ho pensato a un viaggio in Siria, perché non mi è venuta l’ispirazione” – per la prossima tappa del pellegrinaggio l’obiettivo è il Libano

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