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il foglio del weekend

Nel segno del Papa re

Matteo Matzuzzi

Cardinali epurati, gendarmi cacciati, leader spirituali esiliati. Il grande equivoco del pontificato di Francesco è l’idea che la Chiesa sia ormai un Parlamento dove uno vale uno. Quando in realtà resta una monarchia assoluta

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Poiché fu Pier Paolo Pasolini a dire che “la Chiesa non può che essere reazionaria, non può che accettare le regole autoritarie e formali della convivenza”, non c’è timore d’essere equivocati quando si parla di Francesco, Pontefice regnante, come di un vero e perfetto Papa re. Non tanto nell’accezione del sovrano assoluto detentore del potere temporale prima su un terzo d’Italia e poi sul Lazio e infine su qualche ettaro di Roma, bensì nell’espressione di un potere totale, autocratico, che non necessita di spiegazioni o giustificazioni. Sviati da anni di melassa mediatica che ha costruito il santino di Francesco riducendolo a un sorta di peluche consolatorio per i momenti d’afflizione, non si è colto in tutta la sua importanza lo spirito militare del gesuita argentino eletto da cento e passa suoi confratelli Pontefice della Chiesa cattolica nonché vicario di Cristo in terra. Anni di cuori commossi per i cordiali “buonasera” e i “buon pranzo” a chiosa degli Angelus e/o Regina Coeli domenicali hanno messo nell’ombra lo stile di governo di Jorge Mario Bergoglio, ottocentesco più che moderno o post moderno come si suol dire oggi.

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Poiché fu Pier Paolo Pasolini a dire che “la Chiesa non può che essere reazionaria, non può che accettare le regole autoritarie e formali della convivenza”, non c’è timore d’essere equivocati quando si parla di Francesco, Pontefice regnante, come di un vero e perfetto Papa re. Non tanto nell’accezione del sovrano assoluto detentore del potere temporale prima su un terzo d’Italia e poi sul Lazio e infine su qualche ettaro di Roma, bensì nell’espressione di un potere totale, autocratico, che non necessita di spiegazioni o giustificazioni. Sviati da anni di melassa mediatica che ha costruito il santino di Francesco riducendolo a un sorta di peluche consolatorio per i momenti d’afflizione, non si è colto in tutta la sua importanza lo spirito militare del gesuita argentino eletto da cento e passa suoi confratelli Pontefice della Chiesa cattolica nonché vicario di Cristo in terra. Anni di cuori commossi per i cordiali “buonasera” e i “buon pranzo” a chiosa degli Angelus e/o Regina Coeli domenicali hanno messo nell’ombra lo stile di governo di Jorge Mario Bergoglio, ottocentesco più che moderno o post moderno come si suol dire oggi.

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In quest’ultimo anno però, smaltita la sbornia e inevitabilmente moltiplicatesi le discussioni sulla crisi del pontificato, sul suo tramonto o declino – discussioni normali e puntuali che interessano ogni pontificato dopo un variabile numero di anni – l’esercizio del potere da parte del Papa pro tempore è stato indagato e commentato. Troppi, infatti, i casi che hanno fatto strabuzzare gli occhi anche ai più distaccati e meno “tifosi” tra gli osservatori di cose vaticane. Chiedere, per averne conferma, al cardinale Giovanni Angelo Becciu, fino al 24 settembre scorso potentissimo prefetto curiale – titolare della congregazione per le Cause dei santi  e prima sostituto della Segreteria di stato –, strettissimo collaboratore di Francesco al punto da poterlo ospitare ogni anno a pranzo nella propria dimora e di colpo estromesso da tutto al termine di un’udienza burrascosa su cui tanto è stato detto e ricamato. Privato, addirittura, dei “diritti connessi al cardinalato”, qualunque cosa questo voglia dire, visto che a cinque mesi di distanza nessuno in Vaticano s’è preso la briga di spiegare in cosa consista – formalmente – il provvedimento papale. Ma ancor più importante: perché Becciu è stato licenziato e privato dei diritti legati alla porpora che lo stesso Francesco gli aveva conferito? Quale gravissimo delitto ha commesso il cardinal prefetto per essere vittima di una tale furia da parte del vescovo di Roma, suo diretto e incontestabile superiore? Non si sa. Si fanno ipotesi, si citano copertine dell’Espresso che proprio in quei giorni mettevano alla gogna il cardinale sardo e finite sul tavolo della suite di Santa Marta, si sono tirate in ballo amicizie imbarazzanti, faccendiere e faccendieri, aiuti economici ai fratelli  – nel senso di famiglia, non nell’accezione generale della Chiesa –, oboli spariti, palazzi londinesi pagati uno sproposito, addirittura trame internazionali per eliminare con la più infamante delle accuse il nemico cardinale George Pell. Roba che, a saperlo prima, sarebbe finita dritta in un romanzo di Dan Brown perché il rischio è che stavolta la realtà superi, e di gran lunga, la fantasia. 

 

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Si è detto di tutto: si è chiacchierato. Si è cioè commesso il peccato contro cui più volte si scaglia il Papa da ogni pulpito possibile, dalla finestra del Palazzo apostolico per l’Angelus, dalla sedia da cui tiene le catechesi del mercoledì, dal leggio da cui pronuncia le omelie. Per non parlare di interviste a giornali e televisioni, i documentari che lo vedono protagonista. Si chiacchiera. I pettegolezzi corrono l’uno dopo l’altro, nel silenzio tombale del Vaticano in cui saltano come birilli prefetti, gendarmi, consulenti, funzionari, cardinali, vescovi e arcivescovi. E di loro non si sa più nulla. Che cosa avrà mai combinato il potente cardinale per subire quello che ben pochi cardinali hanno subìto negli ultimi secoli? Nella sintesi mediatica, rapida per necessità, è già passato il messaggio che Becciu deve averla combinata grossa, visto che è stato condannato senza tener conto della presunzione d’innocenza che ogni sistema democratico garantisce all’imputato. Intanto è alla gogna, colpevole perché qualcosa deve aver pur fatto. Poi si vedrà, il tempo emetterà il suo verdetto e se necessario il consueto trafiletto a pagina tredici del giornale sarà doveroso e dunque garantito. 

 

Il problema è proprio questo, che la Chiesa cattolica non è una democrazia. Non lo è mai stata e non può esserlo per sua stessa natura. Qui c’è il grande paradosso dei tempi che viviamo, il grande equivoco che sta debilitando non solo il pontificato di Francesco e la spinta riformatrice che s’era dato e che era stata pretesa dai cardinali riuniti nelle congregazioni generali del pre Conclave, ma anche la credibilità strutturale della Chiesa stessa. Si è voluto cioè farla sembrare una democrazia, un consesso di pari, tutti dotati di diritto di parola e – più o meno – di eguali poteri. Una specie di Onu, benché Francesco fin dall’inizio del suo ministero abbia detto, ridetto e ribadito che la Chiesa “non è una ong”. Ha assunto, nella percezione collettiva, la forma di un enorme parlamento mondiale dove ciascuno può mettere in dubbio l’autorità. Il Papa dice che è giusto e sacrosanto concedere “qualche autentica autorità dottrinale” alle conferenze episcopali locali? E allora non ci si può stupire se dalla Germania si indice un Sinodo biennale e vincolante che si propone di rovesciare tutto, portando le donne sull’altare, mettendo la parola fine al celibato sacerdotale, rivoluzionando la morale sessuale perché così stabilisce un voto di qualche centinaio di delegati riuniti in assemblea. Se è stata concessa l’autorità dottrinale, poi possono ben poco i moniti delle congregazioni curiali e le Lettere papali accorate in cui si chiede, per favore, un passo indietro. 

 

La democratizzazione della Chiesa, per cui si domanda pure l’elezione dei vescovi da parte di non meglio identificati consessi locali, è un vecchio mantra che riaffiora a decenni alterni. Ogni tanto si chiama “vento dello spirito”, altre volte “primavera”, altre ancora – ma più raramente ché la parola è delicata e complessa – “modernità”. Dimenticando che Cristo le chiavi le ha date a uno e a uno soltanto il cui successore oggi è al comando della Barca. Così, nella Chiesa divenuta suo malgrado Parlamento dove si è fatto intendere che tutto sommato uno-vale-uno e che tutto, ma davvero tutto, può essere messo in discussione – è rimasta negli annali la massima del preposito gesuita padre Arturo Sosa Abascal secondo il quale non si sa cosa Gesù abbia davvero detto visto che “a quel tempo nessuno aveva un registratore per inciderne le parole” – ogni qualvolta che il Papa agisce per quello che è, e cioè monarca assoluto e vicario di Cristo in terra, si suda freddo. 

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Non si capisce. Si cercano freneticamente e nevroticamente spiegazioni, motivazioni, una logica. Perché di sicuro il Papa non voleva, non poteva, non l’avrebbe mai fatto. Ci dev’essere per forza un mistero, una trappola, una cospirazione. E’ di questi giorni la fine probabile della dolorosa vicenda che ha coinvolto Enzo Bianchi, fondatore del monastero di Bose, leader spirituale della sinistra cattolica italiana e ispiratore di tanti presuli che sovente lo chiamavano a predicare nelle rispettive diocesi. Di certo, Bianchi è stato un assoluto protagonista della chiesa italiana post conciliare. Ebbene, lo scorso maggio è arrivato il decreto inappellabile firmato dal cardinale segretario di stato e approvato dal Pontefice che gli intimava di lasciare l’eremo nel quale s’era ritirato dopo le dimissioni del 2017. Conclusione drastica della visita apostolica del dicembre precedente, quando a Bose fu ravvisata “una situazione tesa e problematica per quanto riguarda l’esercizio dell’autorità del fondatore, la gestione del governo e il clima fraterno”. Ma Enzo Bianchi – non solo lui – rifiutò il decreto e rimase a Bose. Lo fece notare, qualche mese più tardi, il delegato pontificio padre Amedeo Cencini. Passarono altri mesi e a gennaio si ribadì che Bianchi doveva lasciare il biellese e trasferirsi nella canonica di Cellole di San Gimignano, provincia di Siena, una delle fraternità gemelle di Bose. Per rimarcare con lucida perfidia la durezza della condanna all’esilio, si faceva sapere che Cellole, nuova dimora di fratel Enzo, avrebbe perso ogni connotazione monastica. Ma Bianchi non si trasferiva entro il termine previsto, che era il mercoledì delle Ceneri. Ebbene, in tutti questi mesi, l’affaire Enzo Bianchi ha destato grande clamore mediatico e nella narrazione dominante  tutto s’è ridotto al compatimento della vittima sacrificale e incompresa e allo sguainare di spade affilate contro il sistema della curia cattiva impersonata dall’oscuro delegato Cencini, che dai ritratti dei molti fan del fondatore bosiano sembra un personaggio uscito dal Nome della rosa di Eco. “Una condanna senza appello e senza accuse”, scriveva Alberto Melloni, grande amico di Bianchi e suo “collega” in seno alla Fondazione per le scienze religiose Giovanni XXIII. E così via, tra opinionisti addolorati per la sanzione abnorme comminata a fratello Enzo, giornalisti che ricordavano sui social e sui propri giornali di essere assidui frequentatori di Bose, appelli sparsi qua e là perché fosse riparato il torto. 

 

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E il Papa? Ovviamente truffato, imbrogliato, circuito dalla solita curia e dai cattolici ultraconservatori, perché lui non può aver deciso  di silurare uno come Bianchi, che tanto ha fatto per l’ecumenismo, la spiritualità, la Chiesa, e via dicendo. “Il decreto è a oggi ignoto, così come gli atti della visita apostolica da cui discende, le denunce che l’hanno preceduta. Si conosce solo un comunicato apparso sul sito di Bose (ma scritto in vaticanese) che dice poco e pone domande inquietanti”, notava alla fine della scorsa primavera il professor Melloni, aggiungendo: “C’è qualcuno che ha dimenticato di dire al Papa che Bose fa parte della storia di tutta della chiesa italiana ed è stato l’unico antidoto allo spiritualismo svenevole dell’ecumenismo italiano?”. Peccato che dal maggio del 2020 al febbraio del 2021 l’appello al Cielo – e al vicario in terra – non abbia dato alcun esito, nonostante il battage mediatico, le petizioni e le perorazioni. Silenzio assoluto da Santa Marta, mentre Enzo Bianchi faceva gli scatoloni per trasferirsi là dove stabilito. Hanno ragione quanti sostengono che la vicenda è poco chiara, che non si sa nulla, che le accuse non ci sono e se ci sono restano ben nascoste, al di là delle osservazioni sul “potere” del fondatore e sulla sua capacità di influenzare la comunità anche una volta ritiratosi e ceduto lo scettro del comando al successore. Ma questo è il modus operandi vigente, e vale per tutti. Vale per i francescani dell’Immacolata e per i curiali congedati seduta stante, con tanto di comunicati in cui si chiarisce che d’ora in poi ogni prefetto di curia sarebbe rimasto in carica cinque anni e mai oltre il settantacinquesimo anno d’età (norma scritta per porre termine al mandato del cardinale Gerhard Ludwig Müller alla Dottrina della fede e solo a lui applicata). Vale per i movimenti, su cui dal 2013 sovente il Papa ha agitato la ramazza, tra appunti sugli adoratori di cenere e a quanti se ne vanno in giro per il mondo a fare proselitismo. Vale per il cardinale Robert Sarah, confermato donec aliter provideatur al compimento dei 75 anni lo scorso giugno e repentinamente congedato la scorsa settimana, all’inizio della Quaresima lasciando vacante la carica: non pochi si sono domandati quale sia il senso di lasciare al proprio posto un “ministro” della curia senza usare il tempo della proroga per trovare un successore. Domande rimaste senza risposta, va così. Certo, l’obiezione è scontata: siamo in  pieno esercizio della sinodalità, che però fino a questo momento ha prodotto più guasti che benefici, creando fratture non sempre necessarie, alimentando veleno ecclesiastico, lasciando parecchie questioni nell’incertezza. Si discute, si fa parresia, ci s’accapiglia tra padri riuniti in Vaticano sulla comunione da dare ai divorziati risposati, sulle diaconesse e sui viri probati per i villaggi dell’Amazzonia. I problemi vengono a galla, vengono sbattuti sul tavolo. Ma poi? Al di là di come uno la possa pensare, e di opinioni in merito ce ne sono molte, visto che quel Sinodo si risolse in una drammatica conta all’ultimo voto quasi si trattasse della fiducia a un governo italiano, da anni si discute ancora del significato di una nota a pié di pagina contenuta nell’esortazione Amoris laetitia. La sinodalità, insomma, ha prodotto sì belle discussioni con tanto di sani infervoramenti, ma ha lasciato anche parecchie scorie sul campo. Non raccolte e ancora tutte lì. Parlare chiaro e dire quel che si pensa è meglio di una coltellata sotto al tavolo, ha sempre detto Francesco. Che però, poi, i cardinali che gli avevano inviato i loro dubbi su certe decisioni sinodali non li ha neanche mai voluti ricevere, quasi si trattasse di lesa maestà. 

 

Contraddizioni, potrebbe dire qualcuno. Più semplicemente, l’esercizio assoluto del potere monarchico proprio del Papa, mai come ora   – per restare in tempi recenti – così palese. Che scontenta tutti, a destra e a sinistra, e proprio per questo diventa ancor più difficilmente intelligibile. Scontenta a destra quando i propri paladini, veri o presunti, vengono sacrificati sull’altare del “nuovo corso” tra le fanfare e i flabelli degli ultras novatori. E scontenta a sinistra quando l’ola di quegli stessi ultras si ferma improvvisamente constatando che anche qualche loro beniamino è congedato senza neppure troppa cortesia. Il tutto, quasi sempre, in assenza di gesti riparatori, di quel promoveatur ut amoveatur un po’ ipocrita che però nei secoli ha sempre salvato le apparenze e regolato lo spoils system ecclesiastico. Dopotutto, perché la rivoluzione sia irreversibile e non si possa tornare indietro è necessario anche questo processo “depurativo”. Un Collegio cardinalizio sempre più fatto a immagine e somiglianza del Pontefice in carica per evitare tentazioni di ritorno all’ancien régime, vescovi che – notava un presule italiano pur divertito dalle novità – “sembrano fatti con lo stampino, tant’è che diventa pure noioso discutere visto che la si pensa un po’ tutti allo stesso modo e tutti hanno letto gli stessi libri e tutti scrivono le stesse lettere pastorali”. In questo senso, è indubbio che il pontificato di Francesco, a prescindere  dal successo delle riforme, dalla spinta alla nuova evangelizzazione e dalle possibili dolorose fratture con gli episcopati riottosi, segnerà un punto di svolta nella storia.

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