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Il Papa nel suo labirinto

Il paradosso di un pontificato nato sul mito della collegialità. Mai come ora Francesco agisce da sovrano assoluto, tra epurazioni e rivoluzioni

Matteo Matzuzzi

Nel 2013 invocava autonomia dottrinale alle chiese locali. Il risultato? La rivolta dei vescovi tedeschi e il caos tra quelli americani. 

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Chissà se mentre preparava la Lettera al popolo di Dio che è in cammino in Germania, poi pubblicata alla fine di giugno del 2019, il Papa stava pensando al punto 32 del più importante documento del suo pontificato, l’esortazione apostolica Evangeli gaudium, il programma, la tabella di marcia, la bussola che ha orientato e tenta ancora di orientare i passi di Francesco. Era deciso, Bergoglio, in quel punto-chiave del testo, a dire che bisognava finalmente avviare la “conversione del papato”, coinvolgendo le conferenze episcopali nazionali affinché potessero “portare un molteplice e fecondo contributo acciocché il senso di collegialità si realizzi concretamente”. Scriveva, il Papa, che era necessario renderle “soggetti di attribuzioni concrete, includendo anche qualche autentica autorità dottrinale”, perché “un’eccessiva centralizzazione, anziché aiutare, complica la vita della Chiesa e la sua dinamica missionaria”. 

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Chissà se mentre preparava la Lettera al popolo di Dio che è in cammino in Germania, poi pubblicata alla fine di giugno del 2019, il Papa stava pensando al punto 32 del più importante documento del suo pontificato, l’esortazione apostolica Evangeli gaudium, il programma, la tabella di marcia, la bussola che ha orientato e tenta ancora di orientare i passi di Francesco. Era deciso, Bergoglio, in quel punto-chiave del testo, a dire che bisognava finalmente avviare la “conversione del papato”, coinvolgendo le conferenze episcopali nazionali affinché potessero “portare un molteplice e fecondo contributo acciocché il senso di collegialità si realizzi concretamente”. Scriveva, il Papa, che era necessario renderle “soggetti di attribuzioni concrete, includendo anche qualche autentica autorità dottrinale”, perché “un’eccessiva centralizzazione, anziché aiutare, complica la vita della Chiesa e la sua dinamica missionaria”. 

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Tanta acqua è passata nel Tevere da allora. Sette anni dopo, a una delle più importanti conferenze episcopali sul pianeta giungono periodicamente altolà da Roma, richiami a stare sub Petro e a non mettere a rischio l’unità cattolica. I vescovi tedeschi, infatti, hanno preso alla lettera quelle parole del Papa, e se in gioco c’è l’autorità dottrinale, allora il presidente mons. Georg Bätzing ha tutto il diritto di dire che è ora di aprire all’ordinazione sacramentale delle donne, che gli argomenti ostativi sono meno convincenti di un tempo, che è doveroso cambiare, evolversi. Sempre scrutando – è il leitmotiv che torna sempre utile – i segni dei tempi. L’interpretazione più ampia possibile delle frasi di Francesco, insomma: libertà assoluta di pensare, dire e fare quel che si vuole. Adattando e relativizzando il tutto alla situazione particolare di un territorio, di una Chiesa, di una parte di mondo. Ecco allora lo spauracchio delle chiese autocefale à l’ortodossa, che il cardinale Rainer Maria Woelki ha tradotto in un più consapevole “rischio di vedere nascere una Chiesa nazionale tedesca”. L’esempio della Germania mai doma è il più estremo, ma analogo discorso potrebbe essere fatto anche per la realtà statunitense, dove il Papa è da anni intento ad attuare un certosino spoils system delle gerarchie, con ricambi e porpore concesse a vescovi dal comune sentire sociologico e pastorale, per sintonizzare quella Chiesa sulle stesse frequenze impostate a Roma nel marzo del 2013. Impresa più che ardua, come dimostrano gli strappi profondi che la percorrono da un capo all’altro, ancora più visibili oggi dopo quattro anni di presidenza trumpiana con annesso assalto al Congresso. Da una parte la vecchia guardia e un po’ nostalgica della stagione delle culture war, dall’altra i nuovi (che poi, nella logica ecclesiastica americana sono i veri vecchi, i delfini di Joseph Bernardin, il carismatico già cardinale arcivescovo di Chicago che fu per anni il leader dell’ala progressista americana fino a quando la rivoluzione di Giovanni Paolo II divenne anche lì realtà). Per non parlare, poi, delle tensioni e degli strappi sinodali, dalla famiglia all’Amazzonia: battaglie all’ultimo voto, testi emendati, presuli speranzosi opposti a prelati terrorizzati dal cambiamento, teologi pronti a interpretare un possibile via libera ai viri probati per le foreste sudamericane come l’imprimatur papale all’ordinazione di preti ammogliati ovunque nel mondo. 

 

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E’ forse qui, su questo punto, che più il pontificato si è incagliato. Non sulle questioni di casse e denari – che Francesco ha ereditato e ha cercato di sistemare come ha potuto – né sui tradimenti di uomini a lui vicini né, ancora, sul dramma degli abusi e i mea culpa cileni. No, la frenata è arrivata sul cardine centrale del modus pensandi (e operandi) di Jorge Mario Bergoglio, ossia la continua volontà di sparigliare le carte, di andare al largo senza una meta prefissata, di generare processi considerando che tanto il tempo è superiore allo spazio. Magari con frasi lanciate qua e là in interviste a giornali e tv o in occasione di qualche documentario. Rettificando poi a metà, qualche giorno o settimana dopo. Lasciando nel dubbio e nell’incertezza, con eroici funzionari vaticani chiamati a interpretare quel che forse il Papa voleva dire, studiando il testo, sottolineando virgole e pause e fornendo parafrasi ed esegesi. 

 

Generare processi e andare al largo, il tempo superiore allo spazio: concetti nobili e opportuni, anche poeticamente originali, ma che rischiano di restare pura teoria mentre il mondo va avanti e chi è salpato senza un orizzonte definito arriva a sostenere svolte che – a sentire quel che dice il vescovo emerito di Fulda e a leggere i documenti usciti in serie dal Vaticano – preoccupano lo stesso Pontefice. Senza accorgersene, dietro alla parresia e alla delicata  osservazione dei segni dei tempi, si celano strategie e obiettivi vecchi di decenni, che la Chiesa aveva già affrontato e risolto. Si pensi solo alle dichiarazioni più recenti del presidente della Conferenza episcopale tedesca, mons. Bätzing, proprio sulla possibilità di ordinare sacramentalmente le donne previo passaggio al diaconato. Bätzing pone (o meglio, ripropone ancora una volta) un tema che su cui i papi si sono già espressi in modo chiaro. Lo stesso Papa Francesco, a più riprese, ha detto la sua: “Se il Signore non ha voluto il ministero per le donne, non va. Non possiamo andare oltre la rivelazione e l’esplicitazione dogmatica, siamo cattolici”. Giovanni Paolo II, Papa e fino a prova contraria santo, scrisse “che la Chiesa non ha in alcun modo la facoltà di conferire alle donne l’ordinazione sacerdotale e che questa sentenza deve essere tenuta in modo definitivo da tutti i fedeli della Chiesa”. Il cardinale prefetto della Dottrina della fede, nominato da Francesco, ha ricordato che “desta seria preoccupazione veder sorgere ancora in alcuni paesi delle voci che mettono in dubbio la definitività di questa dottrina. Per sostenere che essa non è definitiva, si argomenta che non è stata definita ex cathedra e che, allora, una decisione posteriore di un futuro Papa o Concilio potrebbe rovesciarla. Seminando questi dubbi si crea grave confusione tra i fedeli, non solo sul sacramento dell’ordine come parte della costituzione divina della Chiesa, ma anche sul Magistero ordinario che può insegnare in modo infallibile la dottrina cattolica”. Francesco ha ribadito che sull’ordinazione di donne nella Chiesa cattolica, l’ultima parola chiara è stata data da san Giovanni Paolo II, e questa rimane”. 

 

Opinioni, nient’altro che opinioni. Rispettabili ma pur sempre opinioni, a quanto pare. Almeno stando a sentire quel che si dice al di là delle Alpi. Il Papa ha detto che non si può? Pazienza: il suo è un parere, uno fra i tanti. Nell’ultimo numero di Civiltà Cattolica, il cardinale gesuita Michael Czerny ha scritto che “il Papa non ha idee preconfezionate da applicare al reale, né un piano ideologico di riforme prêt-à-porter, ma avanza sulla base di un’esperienza spirituale e di preghiera che condivide man mano nel dialogo, nella consultazione, nella risposta concreta alle situazioni di vulnerabilità, di sofferenza e di ingiustizia (…). Non insegue né ottimizzazioni istituzionali preconfezionate, né strategie pensate a tavolino e finalizzate a ottenere risultati statistici migliori”. E’ il refrain che si sente da otto anni ed è anche la risposta che viene puntualmente data quando si sostiene la tesi di un pontificato incartato su se stesso, declinante – come lo sono tutti i pontificati a un certo punto, e notarlo non è un delitto di lesa maestà come non lo era quando si notava e si faceva laicamente notare l’impaludamento del pontificato giovanpaolino o di quello ratzingeriano – e ormai senza più alcuna spinta propulsiva. Si controbatte, appunto, che il Papa non ha alcun progetto né programma e che quindi non può incartarsi: si procede sulla base di un’esperienza per così dire condivisa quotidianamente. Tesi legittima ma che solleva più d’un dubbio, perché basterebbe prendere in mano la già citata Evangeli gaudium per accorgersi che lì un programma c’è scritto eccome. Fortunatamente, viene da dire: sarebbero guai seri se non fosse così.  E non si tratta tanto di proposte da sviluppare, ma di concetti espressi in modo assai chiaro. Come, ad esempio, proprio la concessione di autonomia dottrinale alle Conferenze episcopali locali. 

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“Forse – scrive ancora il cardinale Czerny – c’è ancora molta strada da percorrere per comprendere questa profonda riforma della nostra esistenza istituzionale quali discepoli di Cristo riuniti nella Chiesa. Ancor di più c’è da capire la Chiesa, semper reformanda, in relazione ai tempi – inclusa l’attuale pandemia – in cui stiamo vivendo, provando a mettere insieme e valorizzare la Chiesa locale, nazionale, regionale e continentale”.
Ma il risultato di questa valorizzazione qual è? Il Papa è costretto ora a far valere tutto il suo ruolo primaziale, anche con gesti  ovviamente legittimi ma che di certo richiamano alla mente più le autocrazie del presente e del passato che una casa ammantata di misericordia come da santini in voga. Motu proprio uno dietro l’altro, epurazioni di gendarmi, dipendenti e cardinali – privati dei diritti connessi alla porpora, qualunque cosa voglia dire, visto che dal Vaticano che della trasparenza ha fatto un must nessuno si è preso la briga di spiegarlo – senza dare all’esterno alcuna motivazione ma anzi, non smentendo neanche l’incredibile voce secondo la quale un cardinale sarebbe cacciato dal Collegio solo sulla base della copertina di un settimanale. E non si tratta solo delle più che lecite sostituzioni di prefetti e segretari, cosa che ogni Papa ha fatto e che rientra nell’ordine naturale delle cose. Ma di epurazioni mai chiarite, opache, ammantate di un velo di mistero che né qualche documentario realizzato da registi russi né un’intervista a Vanity Fair si propongono di alzare. Fa più notizia un commento a braccio all’Angelus (3 gennaio) su quanti in “un paese, non ricordo quale”, sono andati in vacanza senza pensare “ai problemi economici di tanta gente che il lockdown ha buttato a terra, agli ammalati”. “Soltanto  – è il virgolettato del Papa  –  fare le vacanze e fare il proprio piacere”. Frasi buttate lì, che solo per rispetto alla figura del Pontefice non vengono tacciate di demagogia o di purissimo populismo. 
Due anni e mezzo fa, in un articolo apparso sulla rivista Limes (6/2018) padre Antonio Spadaro definì “terapeutico” il pontificato presente, chiamato a curare le ferite del mondo e delle persone che vivono dovunque e in qualunque condizioni. Non, dunque, le ferite della curia romana o del Vaticano “e neanche del cattolicesimo”. Siamo sicuri che basti? Nello stesso articolo, Spadaro si domandava: “Che cosa fa Francesco? Annuncia la profezia di un mondo nuovo oppure trattiene in pezzi di un mondo che sta crollando? Spinge o trattiene?”. “Per il Papa il compito della Chiesa non è quello di adattarsi alle dinamiche del mondo, della politica, della società per puntellarle e farle sopravvivere alla meno peggio: questo è da lui giudicato ‘mondanità’. Tantomeno egli intende schierarsi contro il mondo, contro la politica e contro la società. Il Papa non respinge la realtà in vista di un’apocalisse agognata, di una fine che vinca la malattia del mondo distruggendolo”. Forse, guardando come va il mondo   – e con esso la Chiesa – un po’ poco.

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