PUBBLICITÁ

manifesto populista

Una critica a “Fratelli tutti” e la voce di un altro Papa

Loris Zanatta

Una ricetta antimoderna, un mondo che è una valle di lacrime: l’enciclica di Francesco è una sequela di condanne alla nostra epoca. Con uno schema rodato: apocalisse e redenzione

PUBBLICITÁ

Il Papa scrive sempre le stesse cose per cui io gli muovo sempre le stesse critiche. A maggior ragione stavolta: la sua enciclica è una greatest hits, include i pezzi più popolari, da “niente muri” a “quest’economia uccide”, da “la guerra mondiale a pezzetti” al “poliedro”. La fonte è se stesso, un tributo al culto della personalità che tanti gli rendono. Odia il mercato, ma per il marketing ha fiuto. 

ABBONATI PER CONTINUARE A LEGGERE
Se hai già un abbonamento:

Altrimenti


Il Papa scrive sempre le stesse cose per cui io gli muovo sempre le stesse critiche. A maggior ragione stavolta: la sua enciclica è una greatest hits, include i pezzi più popolari, da “niente muri” a “quest’economia uccide”, da “la guerra mondiale a pezzetti” al “poliedro”. La fonte è se stesso, un tributo al culto della personalità che tanti gli rendono. Odia il mercato, ma per il marketing ha fiuto. 

PUBBLICITÁ

 

Penso che Fratelli tutti sia un manifesto populista, un inno antiliberale, una ricetta antimoderna. E’ riduttivo dire che attacca la globalizzazione. Il suo pensiero era lo stesso cinquant’anni fa: il “nemico”, scriveva, è la “razionalità illuminista”, la “pretesa liberale” di omogeneizzare il mondo. Così ripete oggi.   

 

PUBBLICITÁ

Prima di spiegarmi, due premesse. La prima: non sono credente, non m’importano le faide della chiesa, non appartengo ad alcun esercito. Le mie critiche sono figlie di trent’anni di studio dei populismi latinoamericani. La seconda: gesti, nomine e silenzi, simpatie e antipatie, sorrisi e mugugni dicono di Bergoglio più di tante pagine.  


Ridotta all’osso, l’enciclica espone un’antica parabola: c’era un volta un popolo unito dalla sua cultura, un popolo integro, armonico. Ma ecco il male irrompere e corromperlo, dividerlo e minarne l’identità. Serve un leader, un figliol prodigo, che lo redima e conduca alla terra promessa, paradiso di fratellanza. Eden, peccato originale, schiavitù, esodo, salvezza: teologia e vulgata populista grondano, in America Latina, di quest’idea provvidenzialista della storia.       
Il popolo. Il popolo è il Re dell’enciclica, il perno del mondo del Papa. Lo menziona 58 volte, ha notato Alberto Mingardi su queste pagine. Sempre per esaltarlo. Qualcuno dirà: cita anche la libertà, ben 35 volte! Vero. Ci spiega che è una parola “deformata”, come “democrazia”, uno “strumento di dominio”: sarà per quello che a Cuba la tenne per sé.  


Cos’è il popolo di Bergoglio? E’ un “noi” in cui dobbiamo “costituirci”, più forte “della somma di piccole individualità”, poiché “il tutto è più delle parti”. E’ un popolo “mitico”, innocente e puro, “un’identità comune fatta di legami sociali e culturali”. Una comunità organica, insomma, come ambiva a essere la cristianità che in Europa fu corrosa e demolita da Riforma e Lumi ma che nell’America ispanica si mantenne integra per secoli. Non è un legame razionale tra diversi, ma una fusione naturale tra uguali, per non dire “identici”, vista l’ossessione per l’identità. Perciò il popolo del Papa è sempre al singolare e singolare è la sua cultura: “la propria cultura”, “la propria identità culturale”, non fa che ripeterlo. Ernesto Laclau, filosofo marxista e cultore della “ragione populista”, nume di peronisti e chavisti, totem di Podemos, lo dice peggio. 


Ma allora Bergoglio è “marxista”? Suvvia! Laclau era pur sempre argentino! Deve più lui alla “teologia del popolo” che la “teologia del popolo” a lui. Basta con questa storia del Papa comunista; è il comunismo latino, d’America e d’Europa, a essere un’utopia cristiana, un’idea preliberale di cristianità. Più che Marx, suo padre è la Controriforma. Perciò il cattocomunismo è il tratto egemonico della nostra “cultura”; perciò trova nel Papa argentino il Messia che la riscatta.


Poco importa che l’enciclica impartisca un’arrogante lezioncina sul “populismo” banalizzandone il concetto: la sua distinzione tra “popolarismo” e “populismo” è una logora furbata lessicale. In realtà, proprio quest’idea organica, omogenea, identitaria di popolo è l’essenza del populismo: evidente a chi a lo aborre e a chi lo perora. Risultato? Il popolo puro genera l’antipopolo corrotto, il “nemico del popolo” di tutti i populismi, la “cellula malata” che l’organismo deve espellere: guai, scrive il Papa, alle “false aperture all’universale”, a “chi non è capace di penetrare fino in fondo nella propria patria”. Ceti dirigenti e classi medie liberali e cosmopoliti sono per lui soggetti “coloniali”, estranei al popolo, cavalli di Troia del nemico. L’idea sacralizzata di popolo del Papa trasforma la dialettica politica delle democrazie nella guerra di religione dei populismi. Altro che “fratelli tutti”!

PUBBLICITÁ


Ma ciò che vale per i paesi “poco sviluppati” non vale per quelli occidentali: i valori liberali causano “disgregazione” nei primi, quelli popolari dei migranti portano “ricchezza” nei secondi; i primi “omogeneizzano il mondo”, i secondi rendono “più colorato il poliedro”. Fossero più astuti, invece di rendersi ridicoli dipingendolo come l’Anticristo globalista, i sovranisti darebbero al Papa la loro patente: come loro, difende la “cultura” del “popolo” dalla “corruzione”. E’ solo che invoca un “popolo” diverso dal loro. E’ così abnorme la contraddizione da imprimere agli scritti di Bergoglio una spiccata tendenziosità ideologica: legittima, se non fosse per i suoi anatemi contro le ideologie. D’altronde si sa, ideologici sono sempre gli altri. 

PUBBLICITÁ


Come spiegarla? In un solo modo: visto attraverso il prisma della cristianità latinoamericana in cui s’è formato, Europa e Stati Uniti “colonizzano” con le loro idee, mode e imprese le “culture” dei “popoli” periferici, i quali, invece, intrisi di spontanea religiosità e moralità, migrando purificano l’Occidente “malato di materialismo”. Per chi come me ama le società aperte e la circolazione di uomini e culture, che nulla ha contro migranti e migrazioni, l’idea che “un” popolo abbia “una” cultura è agghiacciante. E’ l’anticamera dell’intolleranza in nome del “popolo”, di gabbie di consuetudini che inibiscono la libertà civile, il pluralismo politico, l’innovazione intellettuale: quel che avviene nei populismi latini. Che ciò si applichi in modo inverso al Sud del mondo e all’Occidente, categorie vetuste, sa di Reconquista, di minaccia alla “mia” cultura.


Apocalisse. Questo “popolo mitico” è corrotto dalla storia, traviato dal peccato. Quale? Non serve la lanterna per trovarlo nell’enciclica: vi lampeggia come un faro, vi suona come una sirena. E’ l’“Impero del denaro”, il capitalismo. Ho letto che Bergoglio ne “critica” gli “eccessi”, come fanno i Pontefici da Paolo VI in qua. Alla faccia! Devo essermi perso la parte in cui gli riconosce meriti. Gli imprenditori? Nobile vocazione, “tuttavia dovrebbero…”. La libera impresa? “Non può stare al di sopra…”. Lo sviluppo? Deteriora l’etica. L’innovazione tecnologica? Causa disoccupazione. La proprietà? Un furto, dice invocando San Giovanni Crisostomo. Citare Proudhon non era il caso.

PUBBLICITÁ


Bergoglio non “critica” il capitalismo, lo condanna; andate a vedere cosa ne pensano i suoi amati “movimenti popolari”. Non è l’erede dei Papi che con la modernità interloquirono, lo è dei crociati antimoderni che lo scomunicavano perché figlio del protestantesimo anglosassone che, tanto per cambiare, corrompeva la “cultura” dei “popoli” ispanici, intrisa di sana fratellanza cristiana. 


L’enciclica è difatti una stucchevole sequela di condanne della nostra epoca. Ricorda le migliaia di lettere pastorali che un tempo censuravano libero mercato e minigonne, tassi d’interesse e balli moderni, finanza ebraica e film per adulti. Perché stupirsi? Tra applausi scroscianti, la Laudato si’ addebitò agli ultimi duecento anni di storia il “deterioramento del mondo e della vita di gran parte dell’umanità”. Si stava meglio prima. 


Lo schema è rodato: apocalisse e redenzione. Se la fine è vicina, urge redimersi. Il mondo di Bergoglio è una valle di lacrime, dal clima alle reti sociali, dalla disuguaglianza agli anziani trascurati. Egoismo, individualismo, consumismo, suonano le trombe del Giudizio, tutto è buio. Perfino il calo della povertà per effetto della globalizzazione gli fa un baffo: lo nega con argomenti bizzarri. Guai a dargli buone notizie! 


Che dire? Ogni epoca si presta a narrazioni apocalittiche. Perciò ogni epoca ha i suoi apocalittici. Ma davvero la nostra è più apocalittica di altre? Studiando il passato, non direi. Per Bergoglio sì. A costo di cadere in grotteschi complottismi: l’“economia globale” vuole “imporre un modello culturale unico”; i “poteri economici transnazionali” applicano il “divide et impera”; l’“universalismo autoritario e astratto” è “dettato o pianificato da alcuni” potenti senza volto ma coi denti aguzzi, la bava alla bocca, il gelo nel cuore. Frasi popolari, luoghi comuni, successo sicuro.


La deduzione è prevedibile: chili di vittimismo terzomondista, di teoria della dipendenza,  ammuffita da decenni. Ma che importa? Benché inconsistente e semplicista, l’idea che i paesi ricchi sono ricchi perché sfruttano i poveri e quelli poveri sono poveri perché i ricchi li sfruttano funziona sempre. Eccolo così invocare “politiche solidali” purché “non sottomettano gli aiuti a strategie e pratiche ideologicamente estranee o contrarie alle culture dei popoli cui sono indirizzate”; purché, tradotto, non tocchino i tratti culturali e istituzionali che ne inibiscono lo sviluppo: la botte piena e la moglie ubriaca. Ce n’è anche per chi vuole limitare l’aiuto ai paesi arretrati: vogliono imporre “misure di austerità”! Eppure è gente della statura di Angus Deaton, gente che agli aiuti imputa la piaga assistenzialista che promuove più corruzione che sviluppo, più irresponsabilità dei governi che miglioramento di vita delle popolazioni.
 

Non per Bergoglio. Causa del sottosviluppo è per lui il peso del “debito estero”. Promuove perciò condoni che apriranno la via a nuovi prestiti mal impiegati e ad altri condoni: noi saniamo così i sensi di colpa, loro ci fanno politiche populiste coerenti con la loro “cultura”. L’Argentina, dove il peronismo ha reso egemoniche le diagnosi e ricette care al Papa, è il caso più clamoroso al mondo di declino economico, mobilità sociale discendente, incurabile polarizzazione politica. Ci sarà un motivo? Pensare che ci sono “popoli” con la sua stessa “cultura” che fanno passi in avanti e hanno debiti contenuti e sostenibili. Come sarà? “Qualcuno – scrive il Papa – pretendeva di farci credere che bastava la libertà di mercato perché tutto si potesse considerare sicuro”. Boom. La realtà è che a stare peggio, a sprofondare nel baratro economico e nella devastazione sociale, sono coloro che il mercato l’hanno soppresso. Per questo che non parla mai del Venezuela? 


Redenzione. Se l’Apocalisse è alle porte, che Redenzione addita l’enciclica? A prima vista dà luce, pace, gioia. Bergoglio invoca amicizia, fratellanza, solidarietà universali. Poiché però, non lo dico io, la via dell’inferno è costellata di buone intenzioni, meglio andarci a fondo. Certe medicine sono peggio del male. 


Un primo, inquietante indizio, salta subito agli occhi: “Se qualcuno pensa che l’unico messaggio sia che dobbiamo migliorare i sistemi e le regole già esistenti”, scrive il Papa sugli effetti del Covid, “sta negando la realtà”. Sarà che sono affezionato al metodo popperiano, che sono un inveterato riformista, ma proprio così penso: si sperimenta, si sbaglia, si corregge; così avanziamo nell’oscurità, cercando di migliorare le nostre esistenze. Per gli apocalittici non basta. Per questo che i populisti hanno sempre in bocca la Rivoluzione: è la parola secolare per Redenzione; demolire per ricostruire, espiare per raggiungere la Terra Promessa. Dicono che il Papa sia rivoluzionario.


Com’è la Terra Promessa auspicata da Bergoglio? Il comunitarismo ch’egli invoca, bel concetto dai trascorsi poco rassicuranti, è piuttosto oscuro e confuso: chiuso ma non troppo, aperto ma non del tutto, non statalista ma, s’intuisce, bisognoso di tanto Stato. Sarà per scelta o per incertezza, ma alludendovi il Papa aggiunge preoccupazione a preoccupazioni.


Il suo ideale è la “festa della fratellanza universale”, un mondo dove il diritto di ciascuno è “armonicamente ordinato al bene più grande”. San Francesco non “cercò” di vivere in armonia con tutti? Già: ma ci riuscì? E’ possibile? Anche per noi normodotati? E andrà bene, sarà opportuno, potrà funzionare un mondo in cui ognuno è cellula di un corpo che lo trascende, organo di un organismo, membro di un “popolo”? Come sarebbe “una società umana e fraterna in grado di adoperarsi per assicurare in modo efficiente e stabile che tutti siano accompagnati nel percorso della loro vita”? Nessuno me ne voglia, ma quest’“orco filantropico”, Octavio Paz dixit, che veglia sul mio bene invocando la “cultura” del “popolo” mi suona invasivo, mi puzza di totalitario. Preferisco un mondo disarmonico, dove tutti accettano il conflitto, l’antipatia, le differenze ma apprendono a conviverci. Non voglio che tutti mi amino, mi basta che mi rispettino. 
Il Papa sogna l’armonia ma l’armonia è davvero troppo. E il troppo stroppia. A coltivare fini cosi levati, capita che si sorvoli sui mezzi per raggiungerli, che l’ipotetico bene collettivo costi la concreta libertà individuale. Quest’armonia idealizzata ricorda Jean-Jacques Rousseau, l’armonia di “parecchi uomini riuniti” che “si considerano come un solo corpo, non hanno che una volontà”. Da lì a pensare che siamo un “formicaio”, un “alveare”, come diceva Fidel Castro, il passo è breve: “non si può vivere por la libre”, gridava alla sua piazza, “tutti siamo parte di qualcosa molto più grande di noi”. No grazie. Così non raggiungeremo alcuna concordia; produrremo la guerra cronica tra un “noi” e un “loro”, “il tutto” e “la parte”: tale è la storia dei populismi latini. Isaiah Berlin colloca i cultori dell’armonia assoluta tra “i traditori della libertà”.      


Tra di essi Rousseau, appunto, altro santino populista. La sua vita, narra nelle Confessioni, svoltò dinanzi alla domanda se “il progresso” avesse “contribuito a corrompere o purificare i costumi”. A corromperli, che diamine! La civiltà è male! Così è per Bergoglio, tale è l’utopia antimoderna della Fratelli tutti. I populismi latini fanno ancora scuola: partiti per modernizzare il mondo, finiscono per celebrare la “santa povertà” già esaltata dai gesuiti delle riduzioni. Perché no? Se la storia è corruzione del popolo, se l’innovazione ne contamina la cultura, perché non fermare la storia e l’innovazione? Da ciò il sogno della decrescita, l’elevazione del povero ad archetipo di virtù, l’impegno a distruggere la ricchezza più che ad eliminare la povertà. Fallirà come fallisce chi pretenda di mettere le braghe al mondo, di perfezionare ciò che perfetto non è. Non ci renderà migliori, non seminerà amicizia né prosperità. Ma ci farà perdere tempo e opportunità.
 

Di più su questi argomenti:
PUBBLICITÁ