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La chiesa che si fa mondana

Matteo Matzuzzi

Il paradosso di un pontificato che ha tagliato i ponti con il potere temporale e  ora si comporta come uno stato qualunque. Tra riforme mancate e spoils system, il Vaticano sembra un’azienda. Ed è un guaio per il futuro

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“Non conformatevi a questo mondo, ma trasformatevi rinnovando il vostro modo di pensare, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto” (Rom 12, 2)

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“Non conformatevi a questo mondo, ma trasformatevi rinnovando il vostro modo di pensare, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto” (Rom 12, 2)

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Molti cattolici non sanno più chi è Cristo, cos’è la chiesa. Non sanno più cos’è un sacramento, qual è la struttura sacramentale della chiesa”, diceva sconsolato qualche giorno fa il cardinale Rainer Maria Woelki, seguendo il lavori del Sinodo tedesco, quello che si ripromette per l’ennesima volta di cambiare tutto al di là delle Alpi, aprendo le porte alle sacerdotesse e a preti ammogliati, lanciando ultimatum a Roma rea di non capire lo stato delle cose e come va il mondo. Woelki parlava della sua Germania, dove la chiesa ha i forzieri pieni e le navate vuote, ma il concetto vale un po’ ovunque in Europa e nell’occidente secolarizzato. Mancano i fondamentali, insomma. La base. 

 

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Il rischio concreto, notava il cardinale Jean-Claude Hollerich, lussemburghese che pure qualche novità pastorale la gradirebbe, è che si dia per assodato che il cattolico vero è il “cattolico culturale”, quello che crede sì, ma che è interessato più che altro all’aspetto riflessivo, al dialogo e all’aspetto sociologico. Che crede,  ma insomma non proprio a tutto: sulle apparizioni della Madonna si può dibattere, sui santi da adorare dipende, e via così. Questi “cattolici culturali hanno visto che la vita è molto comoda.  Possono vivere molto bene senza dover venire in chiesa. Anche le prime comunioni, il catechismo per i ragazzini, tutto questo diminuirà di numero”, diceva Hollerich all’Osservatore Romano, profetizzando che le cose si metteranno davvero male: “La chiesa deve essere ispirata da un’umiltà che ci permetta di riorganizzarci meglio, di essere più cristiani, perché altrimenti questa cultura del cristianesimo, questo cattolicesimo soltanto culturale, non può durare nel tempo, non ha nessuna forza viva dietro”. 

 


Il vero problema della chiesa di oggi? “La gente non sa più chi è Cristo”, ha risposto il cardinale arcivescovo di Colonia, Woelki


 
Ci sono le parole magiche che tornano come un mantra dell’ultimo decennio: riforma e riorganizzazione. Che s’accompagnano sempre a trasparenza e pulizia. Il chiodo fisso della riforma (in senso funzionalistico), che poi nelle aspettative di qualcuno subito diventa rivoluzione, poeticamente e sacralmente tradotta in quella “primavera dello Spirito” che faccia entrare aria pulita. 

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Ecco, il pontificato di Francesco si è attorcigliato proprio qui, su questo aspetto. Il volere a tutti i costi la grande riforma stabilita a tavolino, con i consigli della corona convocati periodicamente a Roma mentre perdevano pezzi per scandali e anzianità dei suoi componenti. Chiamati per ridisegnare la curia romana, aggiornarne le costituzioni. Commissioni e comitati, organismi e gruppi di lavoro. Tabelle e bozze. Con cardinali à la Mariadaga, globetrotter loquace,  che si facevano portavoce del nuovo che arriva, del detersivo che toglie la muffa, della riforma che è sempre imminente anche se da quando è stata impostata sono passati sette anni e mezzo. La chiesa che diventa un parlamento da snellire – senza referendum – e i suoi regolamenti da cambiare. In una logica costante di maggioranze e minoranze, sostenitori  e oppositori. Così, si racconta, funzionerà meglio e sarà, finalmente, al passo con i tempi. Del suo essere entità ultraterrena, fondata da Cristo, poco resta. Sui giornali, anche i suoi ministri più importanti raccontano che è importante renderla “trasparente”, in modo che tutto si veda, così gli ispettori di Moneyval potranno promuovere il lavoro fin qui fatto. La chiesa come una sorta di ente assistenziale e caritatevole, che si occupa giustamente dei senzatetto e dei più poveri, ma che in poco, purtroppo, appare dissimile da una qualunque ong. E per quanto riguarda le finanze, il canovaccio seguito è il medesimo.

  


 Il pontificato di Francesco si è attorcigliato sul volere a tutti i costi la grande riforma stabilita a tavolino ed esaltata dai suoi cantori


    
Il problema, ha scritto il professor Alberto Melloni su Domani, è che “lo stato della Città del Vaticano è nato per non essere uno stato”, bensì un qualcosa atto a garantire la “sovranità e l’indipendenza del Papa”. Invece, “una tendenza recente ha puntato a creare al suo interno tutte le funzioni di uno stato: sia sul piano finanziario sia sul piano giudiziario. Gli effetti non solo sono stati modesti, ma perfino negativi. Così – aggiunge Melloni – dopo aver aperto a consulenti e forze estranee, la sede romana riconsegna al Papa tutto. Anche il compito di uscire dall’illusione che aumentando i congegni statuali si possano ottenere risultati migliori che con il Vangelo”. Il che è un paradosso: il Papa del “Vangelo sine glossa”, dell’annuncio della Parola di Dio nella sua radicalità, della centralità evangelica rispetto a tutto il resto, alle beghe curiali e ai “coltelli sotto al tavolo”, è costretto a occuparsi di questioni terrene che più terrene non potrebbero essere. Epurando la curia di uomini fino al giorno prima potentissimi e fedelissimi – per di più privandoli dei diritti connessi al cardinalato, qualunque cosa voglia dire –  solo sulla base di inchieste giornalistiche, segnalazioni, chiacchiere, sospetti e maldicenze d’oltretevere. Il mondo applaude il marcio (o presunto tale) che viene eradicato, è sempre stato così e la storia di esempi ne offre in abbondanza, dal delirante giubilo delle folle parigine che si gustavano la decapitazione pubblica dei nobili alla macelleria di Piazzale Loreto. Ma la chiesa se lo può permettere? 

     

Nell’omelia dell’ultima solennità di Pentecoste, Francesco aveva in qualche modo parlato della questione: “Veniamo a noi, chiesa di oggi. Possiamo chiederci: ‘Che cosa ci unisce, su che cosa si fonda la nostra unità?’. Anche tra noi ci sono diversità, ad esempio di opinioni, di scelte, di sensibilità. Ma la tentazione è sempre quella di difendere a spada tratta le proprie idee, credendole buone per tutti, e andando d’accordo solo con chi la pensa come noi. E questa è una brutta tentazione che divide. Ma questa è una fede a nostra immagine, non è quello che vuole lo Spirito. Allora si potrebbe pensare che a unirci siano le stesse cose che crediamo e gli stessi comportamenti che pratichiamo. Ma c’è molto di più: il nostro principio di unità è lo Spirito Santo. Lui ci ricorda che anzitutto siamo figli amati di Dio; tutti uguali, in questo, e tutti diversi. Lo Spirito viene a noi, con tutte le nostre diversità e miserie, per dirci che abbiamo un solo Signore, Gesù, un solo Padre, e che per questo siamo fratelli e sorelle! Ripartiamo da qui, guardiamo la chiesa come fa lo Spirito, non come fa il mondo. Il mondo ci vede di destra e di sinistra, con questa ideologia, con quell’altra; lo Spirito ci vede del Padre e di Gesù. Il mondo vede conservatori e progressisti; lo Spirito vede figli di Dio. Lo sguardo mondano vede strutture da rendere più efficienti; lo sguardo spirituale vede fratelli e sorelle mendicanti di misericordia. Lo Spirito ci ama e conosce il posto di ognuno nel tutto: per Lui non siamo coriandoli portati dal vento, ma tessere insostituibili del suo mosaico”. Tutto giusto, se non fosse che oggi chi parla di “strutture da rendere più efficienti” è proprio la squadra che circonda il Pontefice, impegnato come non mai  a lavorare per ottenere tale efficienza.

 
Riccardo Ruggeri, già ceo di New Holland e cattolico devoto,  ha scritto su Zafferano news a proposito della vicenda Becciu, il cardinale invitato dal Papa a dimettersi durante una burrascosa udienza concessagli la scorsa settimana che nel caso in esame “Papa Bergoglio si è comportato  da persona comune e perbene, com’è. Questo modello (né garantismo sciocco né giustizialismo cattivo) lo scelsi quando facevo il ceo. Un ceo, per definizione e ruolo, non può essere né ‘giustizialista’ né ‘garantista’. Deve decidere in tempi stretti e non deve avvalersi di una Gestapo interna”. Per poi concludere con un interrogativo: “Il mondo torbido e malato del ceo capitalism sarà arrivato anche nei sacri palazzi?”.

  


Dall’obiettivo di predicare il Vangelo “sine glossa” alla realtà delle epurazioni cardinalizie sulla base di un’inchiesta giornalistica


  
Un altro paradosso, considerando il rifiuto della chiesa “costantiniana” che mai come in questo pontificato è stato così esibito. Scriveva padre Antonio Spadaro sulla Civiltà Cattolica dello scorso 4 gennaio che “il Papa oppone una forte resistenza alla fascinazione per il cattolicesimo inteso come garanzia politica, ‘ultimo impero’, erede di gloriose vestigia, pilastro di argine al declino, davanti alla crisi delle leadership globali nel mondo occidentale. Per dirlo in termini semplificati, egli sta sottraendo il cristianesimo alla tentazione di rimanere erede dell’Impero romano. Quell’eredità che mischia potestas politica e auctoritas spirituale”. “Egli – aggiunge Spadaro –  spoglia il potere spirituale dei suoi panni temporali, delle sue corazze, delle sue armature ossidate e arrugginite. Il suo abito bianco – e senza stemmi – riporta il cristianesimo a Cristo. Non indossa più il rosso, colore tradizionalmente imperiale ed espressione della imitatio imperii del vescovo di Roma, di cui il Constitutum Constantini costituisce la giustificazione e la sanzione giuridica. Non illudiamoci: l’intreccio tra sacerdotium e imperium non è facile da dipanare. Forse non sappiamo nemmeno quali saranno gli esiti di questo processo. Bisogna chiarirne le condizioni e le possibilità. Certo è che il Papa non incorona simbolicamente più alcun ‘re’ come defensor fidei. Sì, egli è un leader religioso di rilevanza mondiale, ma anche un leader dotato di un soft power in grado di proporre una visione del mondo capace di futuro. In questo senso san Pietro è san Francesco. Per alcuni questo è l’ossimoro, lo ‘scandalo’, cioè la pietra d’inciampo nella lettura del pontificato.

 


 “La riforma è anzitutto segno della vivacità della chiesa”, diceva quattro anni fa il Pontefice. Una vivacità che è divenuta battaglia 


 

L’aureola del santo di Assisi, povero cristiano, coincide con quella del vicario di Cristo. E abbandona per sempre il profilo dell’imperatore romano. Ma pure sfugge al pericolo di identificarsi con don Chisciotte della Mancia che lotta contro i mulini a vento dei nostri giorni. E rifugge dal compito di psicopompo delle anime belle rimaste nell’ovile”. Il discorso fila, ma al di là delle osservazioni su stemmi e sul colore rosso che non indossa più – che interessano fino a un certo punto – bisognerebbe domandarsi se l’abbandono dei riferimenti costantiniani si sia realmente tradotto in un ritorno del cristianesimo a Cristo. Davvero siamo davanti al taglio del cordone ombelicale con il potere temporale? Osservando le cronache quotidiane, sembrerebbe vero il contrario. Anche senza portare più la mozzetta rossa e con le scarpe nere ai piedi. Quattro anni fa, ai cardinali riuniti per il consueto scambio augurale natalizio, Francesco diceva che “essendo la curia non un apparato immobile, la riforma è anzitutto segno della vivacità della chiesa in cammino, in pellegrinaggio, e della Chiesa vivente e per questo – perché vivente – semper reformanda, reformanda perché è viva. E’ necessario ribadire con forza che la riforma non è fine a sé stessa, ma è un processo di crescita e soprattutto di conversione.

 

La riforma, per questo, non ha un fine estetico, quasi si voglia rendere più bella la curia; né può essere intesa come una sorta di lifting, di maquillage oppure di trucco per abbellire l’anziano corpo curiale, e nemmeno come una operazione di chirurgia plastica per togliere le rughe. Cari fratelli, non sono le rughe che nella chiesa si devono temere, ma le macchie!  In questa prospettiva – aggiungeva Bergoglio –  occorre rilevare che la riforma sarà efficace solo e unicamente se si attua con uomini ‘rinnovati’ e non semplicemente con ‘nuovi’ uomini. Non basta accontentarsi di cambiare il personale, ma occorre portare i membri della curia a rinnovarsi spiritualmente, umanamente e professionalmente. La riforma della curia non si attua in nessun modo con il cambiamento delle persone – che senz’altro avviene e avverrà – ma con la conversione nelle persone. In realtà, non basta una formazione permanente, occorre anche e soprattutto una conversione e una purificazione permanente. Senza un mutamento di mentalità lo sforzo funzionale risulterebbe vano”. Leggendo queste parole  a quattro anni di distanza e riflettendo su ciò che sta accadendo, con il caos imperante, si comprende di più meglio le ragioni che portano a definire declinante il pontificato di Francesco.

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