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La defenestrazione del card. Becciu, il carrierismo e l’odore delle pecore

Maurizio Crippa

Il Papa non ama il professionismo ecclesiastico del quale il porporato sardo era emblema. Ipotesi sulla “diplomazia” di Francesco 

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Esiste un aspetto forse non secondario che la vicenda della “defenestrazione” – o “downgrade cardinalizio” come la si potrebbe chiamare, poiché l’impressione generale è che sia tanto nuova da richiedere un neologismo – del cardinale Giovanni Angelo Becciu potrebbe aiutare a illuminare. Sebbene ci sia il rischio che l’illuminazione finisca per essere una lampada da terzo grado. L’aspetto da mettere in luce è il rapporto tra il ministero sacerdotale – comprendendo in esso anche il lavoro della curia, delle curie, cioè quanto di non trascurabile importanza compete all’istituzione – e la carriera ecclesiastica come un lavoro, una professione. La spinosa vicenda permette infatti di confrontare la concezione propria di Papa Francesco, celeberrimo Papa callejero delle periferie che vuole che i pastori si riconoscano dall’odore delle loro pecore, rispetto a quella che molte volte Jorge Mario Bergoglio ha definito come carrierismo. Oppure come clericalismo.

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Esiste un aspetto forse non secondario che la vicenda della “defenestrazione” – o “downgrade cardinalizio” come la si potrebbe chiamare, poiché l’impressione generale è che sia tanto nuova da richiedere un neologismo – del cardinale Giovanni Angelo Becciu potrebbe aiutare a illuminare. Sebbene ci sia il rischio che l’illuminazione finisca per essere una lampada da terzo grado. L’aspetto da mettere in luce è il rapporto tra il ministero sacerdotale – comprendendo in esso anche il lavoro della curia, delle curie, cioè quanto di non trascurabile importanza compete all’istituzione – e la carriera ecclesiastica come un lavoro, una professione. La spinosa vicenda permette infatti di confrontare la concezione propria di Papa Francesco, celeberrimo Papa callejero delle periferie che vuole che i pastori si riconoscano dall’odore delle loro pecore, rispetto a quella che molte volte Jorge Mario Bergoglio ha definito come carrierismo. Oppure come clericalismo.

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Il Papa argentino nutre per il carrierismo ecclesiale, e per il professionismo ecclesiastico, qualcosa di più di una forte idiosincrasia. Basta conoscere la sua biografia, non c’è bisogno di fare l’elenco delle sue citazioni, da Pontefice e anche prima. Il cardinale Becciu, 72 anni, entrato in seminario a 12, sacerdote a 24 e nominato da Giovanni Paolo II nunzio apostolico a 53, ha svolto quasi tutto il suo ministero nella diplomazia vaticana. Niente di male, ovviamente. Ma dell’odore di pecore che piace tanto a Francesco, poco. Poi è stato dal 2011, scelto da Benedetto XVI, sostituto segretario di Stato con Tarcisio Bertone: anni che in fatto di trasparenza politica e gestionale della Santa Sede hanno lasciato uno strascico, diciamo così, un poco commendevole. Cosa che ha procurato più di un serio danno al pontificato, così poco avvezzo al comando con uso di bastone, del mite Papa professore. Ma sarebbe assurdo pensare che Bergoglio ce l’abbia con lui solo per questo. C’è un altro aspetto che però può valere la pena illuminare, nella vicenda della defenestrazione. Secondo quasi tutte le ricostruzioni, Francesco avrebbe perso poco francescanamente le staffe e avrebbe agito d’impulso (un difetto caratteriale, ma soprattutto di governo, di cui lui stesso ha raccontato in passato riferendosi a suoi errati comportamenti giovanili).

 

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Va però notato che con il cardinale Becciu, uomo aduso al potere e a quanto si dice anche temuto, e con una rete solida di relazioni, Bergoglio aveva dimostrato in passato prudenza diplomatica e tattica, se non caritatevole, dopo averlo a lungo confermato nel ruolo di sostituto in segreteria di Stato. Dopo le lunghe e travagliate vicende di quegli anni e di quelli più recenti, che non si starà a elencare, nel 2018 Papa Francesco lo ha creato cardinale e lo ha nominato prefetto della Congregazione delle cause dei santi, l’ex Fabbrica dei santi alquanto decaduta nei ritmi produttivi, dopo i tempi gloriosi di Giovanni Paolo II. Un incarico prestigioso ma lontano dalla macchina e dai flussi di cassa. Insomma il più classico e funzionale dei promoveatur ut amoveatur. Un anno prima, 2017, lo aveva nominato delegato speciale presso il Sovrano Militare Ordine di Malta: un altro gesto di cortesia, o addirittura di fiducia, ma per un ruolo che non è difficile immaginare Bergoglio consideri non strategico. Un lascito della storia che oggi non affascinerebbe neppure Tolkien, e un’altra brutta grana da pelare di intrighi, carrierismi e danari. In ogni caso, è evidente la decisione di neutralizzare senza creare troppe tensioni un professionista della curia che Bergoglio certamente stimava, ma del quale aveva probabilmente anche capito il livello di ingombro, o d’intralcio, dentro i meccanismo complicati della Curia romana. Che Francesco, come si sa, non ama.

 

E qui si torna al primo punto, l’idea non carrierista, non clericale, che Bergoglio ha del sacerdozio e tanto più dell’ordine episcopale. Qualche settimana fa ha mandato il suo celebre elemosiniere (creato da lui cardinale) Konrad Krajewski a celebrare in suffragio di don Roberto Malgesini, il prete “di strada” o “del sorriso”, a seconda delle narrative ecclesiali, che si occupava di senzatetto e immigrati a Como e che è stato ucciso, per la strada, da uno di loro. Ecco, può anche essere che trovandosi davanti alla scrivania non la copertina dell’Espresso, ma il pastore senza odore Giovanni Angelo Becciu, al Papa siano girati i cinque minuti. Anche senza capi di imputazione formale, e ovviamente il downgrade cardinalizio non è una sentenza giudiziaria. Ma del resto neppure Gesù, quando cacciò i mercati dal Tempio, aveva chiesto prima una relazione conoscitiva alla Consob.

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