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Due cardinali cattolici contro la Cina e il “genocidio degli uiguri”

Matteo Matzuzzi

 Bo e Hardjoatmodjo firmano l’appello contro Pechino. Problemi per il rinnovo dell’accordo con il Vaticano

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Roma. Può creare un certo imbarazzo, se non altro a livello diplomatico, la firma apposta da due cardinali di santa romana chiesa all’appello internazionale che chiede la fine di “una delle più gravi tragedie umane dall’Olocausto: il potenziale genocidio degli uiguri e di altri musulmani in Cina”. A siglare la petizione sono i cardinali Charles Maung Bo, arcivescovo birmano di Yangon e presidente della Federazione delle conferenze episcopali asiatiche, e Ignatius Suharyo Hardjoatmodjo, arcivescovo indonesiano di Giacarta. Non proprio due parvenu.

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Roma. Può creare un certo imbarazzo, se non altro a livello diplomatico, la firma apposta da due cardinali di santa romana chiesa all’appello internazionale che chiede la fine di “una delle più gravi tragedie umane dall’Olocausto: il potenziale genocidio degli uiguri e di altri musulmani in Cina”. A siglare la petizione sono i cardinali Charles Maung Bo, arcivescovo birmano di Yangon e presidente della Federazione delle conferenze episcopali asiatiche, e Ignatius Suharyo Hardjoatmodjo, arcivescovo indonesiano di Giacarta. Non proprio due parvenu.

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Ignatius Suharyo Hardjoatmodjo con Papa Francesco (foto Ansa)


 

Insieme a loro hanno aderito tra gli altri l’arcivescovo emerito di Canterbury, Rowan Williams, diversi esponenti della comunità ebraica britannica e altri leader musulmani e buddisti. Ma è la firma dei due prelati a rappresentare un insidia sulla strada della riconciliazione di Roma con Pechino. Perché non si tratta, stavolta, della solita presa di posizione del cardinale Joseph Zen, da sempre fieramente avverso a ogni patto con Pechino, ma di due vescovi che hanno ricevuto la porpora da Papa Francesco, esponenti di quella chiesa delle periferie che rappresenta la punta di diamante nella narrazione dominante – se non altro a livello mediatico – di questo pontificato.

 

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La questione è delicata anche perché a settembre scadrà l’Accordo tra la Santa Sede e la Cina relativo alla nomina dei vescovi, firmato nel settembre del 2018. Da mesi si rincorrono le voci di riunioni riservate tra esponenti delle due delegazioni per rinnovarne i contenuti – che permangono tuttora segreti – almeno per uno o due anni, rimandando ogni valutazione più approfondita una volta cessata l’emergenza sanitaria in corso. Pechino, che non ama interferenze “straniere” né gradisce il rumore di certe proteste ecclesiastiche, di certo non mancherà di chiedere conto dell’accusa di genocidio mossa da due cardinali elettori che guidano due importanti diocesi d’Asia.

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Il testo dell’appello, dopotutto, è durissimo: “Abbiamo visto molte persecuzioni e atrocità di massa. Queste richiedono la nostra attenzione. Ma ce n’è una che, se le viene concesso di continuare impunemente, mette in discussione seriamente la volontà della comunità internazionale di difendere i diritti umani universali”. E questa persecuzione è quella degli uiguri: “Dopo l’Olocausto il mondo ha detto ‘mai più’. Oggi ripetiamo quelle parole, ‘mai più’. Ci appelliamo alla giustizia affinché indaghi su questi crimini, prendere i responsabili e stabilire un percorso che porti al ripristino della dignità umana”. Quindi, le accuse esplicite: “Almeno un milione di uiguri e di altri musulmani in Cina sono incarcerati in campi di prigionia affrontando la fame, la tortura, l’omicidio, la violenza sessuale, il lavoro da schiavi e l’estrazione forzata di organi. All’esterno dei campi la libertà religiosa è negata. Le moschee vengono distrutte, i bambini sono separati dalle rispettive famiglie e atti come il semplice possesso di un Corano, il pregare o il digiunare, possono condurre all’arresto”. E poi la grande piaga, “la campagna di sterilizzazione forzata e prevenzione delle nascite rivolta ad almeno l’ottanta per cento delle donne uigure in età fertile”. Tutti elementi che, sulla base delle convenzioni internazionali, potrebbero elevare questa azione al grado di “genocidio”. Già lo scorso aprile il cardinale Bo – il cui paese con la Cina condivide migliaia di chilometri di confine e ne subisce l’inevitabile influenza – aveva attaccato Pechino per la gestione della pandemia da coronavirus, definendola “disumana e irresponsabile”. Di più, scriveva il porporato in un articolo pubblicato lo scorso 2 aprile su Uca News (Union of Catholic Asian News): “Il Partito ha dimostrato ciò che molti pensavano già prima, e cioè che rappresenta una minaccia per il mondo”. Un partito, quello comunista cinese, “responsabile, con la negligenza criminale e la repressione che esercita, del rapido diffondersi della pandemia in atto oggi nelle nostre strade. Xi Jinping e il Partito (non il popolo cinese) devono a tutti scuse e risarcimento per la distruzione provocata. Come cristiani – aggiungeva – non dobbiamo temere di richiamare questo regime alle proprie responsabilità”.

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