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Il Medioevo a spasso per Roma, tra Papi infallibili che sbagliano

Non sono devoto di san Pio, padre Pio, ma della mia distanza psicologica dalla reliquia non meno vanto; la mia devozione in fondo c’è, ma si limita alle seguenti osservazioni.
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Non sono devoto di san Pio, padre Pio, ma della mia distanza psicologica dalla reliquia non meno vanto; la mia devozione in fondo c’è, ma si limita alle seguenti osservazioni. Chi si stupisce del folto corteo dei fedeli del santo, chi non capisce o affetta di non capire, chi li offende come creduloni, chi parla di turlupinatura o di truffa ai danni dell’ingenuità popolare, costui non conosce la data della propria morte, sa poco del mistero della nascita (Lucrezio poeta materialista faceva risalire a Venere, cui dedicò l’inno ispiratore del suo poema sulla natura delle cose, l’autorità in materia: “per te quoniam genus omne animantum concipitur”), e del mondo fisico sa un sacco di belle cosette che equivalgono a un quasi nulla dal momento che non conosce l’origine, il destino e dunque il senso del tutto. Da che cosa deriva tutta questa boria nell’aggredire e nel condannare, come farà mai la più soddisfatta e perfino orgogliosa miscredenza a cancellare la fede degli altri, il senso del soprannaturale che si esprime nella storia di santità codificata nell’immagine e nella vita di un frate del secolo scorso?
 
La religione ha questo di interessante e fervido, anche in chi non la abbraccia e non ne è conquistato attraverso la fede, che insegna una certa modestia. Il clero magari esagera con la lettura d’umiltà del vangelo cristiano. Ma certo abbassare il capo o mettersi in ginocchio, alzare le mani disgiunte in segno di preghiera, raccogliersi, appellarsi, affidarsi, credere insomma e praticare la propria fede anche nelle immagini e nei resti di una storia di santità secondo un canone bimillenario, non è una scuola di pregiudizio o di superstizione. Non quanto credere secondo un paradigma scientifico in ciò che non si conosce, predicare il “sapere aude” e lasciare al suo intatto anonimato la cosa in sé, das Ding an sich, come voleva il grande epistemologo di Koenigsberg. Padre Pio era a suo modo un eccelso filosofo, e non solo un filosofo morale, quando diceva che l’origine di tutto il male è in quella strana domanda: perché? Era severo, anche brusco, pretendeva ubbidienza e predicava su ispirazione da stigmatizzato: bè, nessuno è perfetto, ma chi affetta di conoscere il mondo e la vita senza dartene la ragione generale è forse perfetto?
 
L’altro fattore che fa di me un amico naturale del santo e di chi ne venera le spoglie è la stupenda contraddittorietà della chiesa, il suo paradosso inafferrabile. Giovanni XXIII detestava il frate, lo giudicava con lo stesso metro vessatorio del positivista padre Agostino Gemelli, e non fu il solo Papa del Novecento a esercitare la sua autorità contro quel carisma e quella devozione (altri pontefici gli proibirono di dire messa in pubblico, misero condizioni umilianti alla sua pratica indefessa e ossessiva della confessione: i papi sono infallibili, ma sbagliano anche loro). Francesco offre di sé un’immagine vicina a quella del Papa del Concilio, sembra aver chiuso con la chiesa giudicante e militante, il lungo ciclo in cui la ragione umana fu sposata con la fede di grazia da Giovanni Paolo II e da Benedetto XVI, e come Giovanni si pone davanti al mondo secolare in segno assoluto di misericordia. Ma appresso a quelle reliquie e a quel popolo orante e credente, qualunque cosa questo significhi, alla fine quei papi, chi lo canonizzò e chi voleva scacciarlo come un isterico e un concupiscente, si sono tutti messi in ideale fila giubilare, in uno sfolgorante revival del medioevo prossimo venturo. Che capolavoro.
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