Economia libanese: si è rotto l'incantesimo di Salameh?

Eugenio Dacrema

Sempre più indicatori fanno pensare a una seria crisi del sistema economico libanese che dalla fine della guerra civile si regge su credito facile e un settore immobiliare in costante espansione. Un crollo dell'economia avrebbe serie conseguenze sulla delicata stabilità del paese. Ma Riad Salameh, governatore della Banca Centrale dal 1993 e arbitro ultimo dell'economia potrebbe ancora avere carte da giocare. 

Sulle coste del Mediterraneo orientale esiste un paese che ha un rapporto debito/pil del 144 percento (l'Italia è al 133 percento), un deficit di bilancio superiore al 9 percento del pil, un deficit di partita corrente oltre il 17 percento,  una legge di bilancio che non viene approvata da 12 anni, circondato da paesi in guerra e con un parlamento congelato dal 2014 a causa dell'incapacità dei partiti che lo compongono di raggiungere un accordo sulla legge elettorale. Questo paese si chiama Libano e, stando almeno ai dati ufficiali, l'anno scorso è cresciuto dell'1 percento e quest'anno potrebbe addirittura arrivare oltre il 2.

Per spiegare questa apparentemente inspiegabile performance molti osservatori non rinunciano a usare il termine "magia" o, più frequentemente, la parola "fede". L'unica fede che accomunerebbe tutte le 18 sette che compongono la società libanese: la fede nell'invincibilità della loro economia.

Gran sacerdote, o grande stregone, dell'unica fede veramente universale del Libano è Riad Salameh, governatore della banca centrale (la Banque du Liban - BdS) ininterrottamente dal 1993. Dagli anni Novanta a oggi ha imposto una stabilità economica quasi prodigiosa a un paese che dopo una guerra civile durata quindici anni è passato attraverso una decade e mezza di occupazione militare siriana,  l'assassinio del primo ministro Rafiq Hariri nel 2005, il conflitto con Israele nel 2006 e, più recentemente, il conflitto civile nella vicina Siria che ha causato, tra le altre cose, l'afflusso di quasi due milioni di profughi in un paese che conta un totale di sei milioni di abitanti.

Ma la fede, come la magia, soprattutto in economia sono concetti assai effimeri. Spesso più fragili ed eterei della loro apparenza. È questo il caso dell'economia libanese il cui fulcro dalla fine della guerra civile in poi si compone di tre pilastri: un sistema bancario sofisticato e competitivo, un mercato immobiliare in continua espansione e una domanda sostenuta sia dal mercato interno sia da acquirenti esteri, soprattutto gli esponenti della diaspora libanese nel mondo (circa 10 milioni di persone) e ricchi investitori del Golfo. Sono tre pilastri che si autoalimentano: il sistema bancario offre alti tassi di interesse e una moneta da vent'anni stabilmente ancorata al dollaro agli investitori stranieri che portano in libano i loro capitali per investirli soprattutto in progetti immobiliari la cui vendita è garantita da una domanda mantenuta in costante crescita sia da acquirenti stranieri sia da politiche di credito ad hoc promosse dalla banca centrale per sostenere la domanda interna. L'afflusso di capitali esteri generato da questo sistema permette così di pareggiare la bilancia dei pagamenti sulla quale pesa un deficit di bilancia commerciale sul pil stabilmente a due cifre. In breve, i capitali esterni finanziano le banche che investono in immobili che salgono costantemente di prezzo, i quali vengono comprati grazie al credito facile dalle famiglie libanesi o da abbienti stranieri (o da libanesi residenti all'estero).  Fondamentale perché il meccanismo regga è la crescita costante dei prezzi. Se i prezzi salgono i ritorni delle banche salgono e possono così offrire ricavi più competitivi ai loro investitori e crediti più facili agli aspiranti acquirenti.

E se i prezzi calano? Questo è il vero quesito tabu della fede economica libanese. Mai, dalla fine del conflitto civile nel 1990 a oggi, è accaduto che i prezzi calassero. Possono rimanere stabili durante i cicli più negativi; ma poi riprendono inesorabilmente a salire. Questa previsione, rivelatasi corretta in sempre più occasioni, è diventata simile a una profezia che si autoavvera a cui da tempo hanno iniziato a contribuire anche compagnie immobiliari, proprietari ed affittuari i quali spesso decidono di mantenere case e negozi sfitti per mesi, o anche per anni, piuttosto che venderli o affittarli sottocosto. Perché alla fine il tempo ha sempre dato loro ragione.

Ma per quanto ancora? In effetti i prezzi degli immobili in Libano sono fermi ormai da almeno un anno. A eroderne le capacità di crescita sono almeno due fattori determinanti: la crisi delle relazioni con i paesi del Golfo - a cui si è accompagnata anche una diminuita liquidità a loro disposizione causata dai bassi prezzi petroliferi - e il conflitto siriano. La prima è dovuta al crescente ruolo del "partito armato" sciita Hezbollah (e quindi del suo patron iraniano) nella politica libanese. Ciò ha causato il crescere delle tensioni con le monarchie del Golfo - storici avversari regionali dell'Iran - alcune delle quali hanno iniziato a "sconsigliare" ufficialmente ai propri cittadini di visitare il Libano. Il conflitto siriano si è invece riverberato fortemente sulla già precaria stabilità politica del paese congelando di fatto ogni meccanismo politico. Dopo oltre due anni di trattative solo a fine ottobre 2016 il parlamento è riuscito a eleggere il nuovo presidente della repubblica - il leader cristiano vicino a Hezbollah Michel Aoun - e ancora non si intravede alcun accordo sulla legge elettorale e sulla data delle nuove elezioni. Gli oltre due milioni di profughi sono andati invece a gravare sulle già insufficienti risorse del welfare pubblico, facendo aumentare notevolmente i costi dei servizi e dei beni di consumo. Instabilità, rapporti tesi con i principali paesi investitori e una congiuntura economica internazionale negativa hanno così iniziato a erodere il meccanismo che mantiene in vita la grande magia dell'economia libanese, tanto che alcuni hanno cominciato a suggerire apertamente che questa volta l’incantesimo possa veramente rompersi e trasformarsi in un incubo. L'allineamento perfetto potrebbe avverarsi se, dopo un vistoso calo nell'afflusso di capitali esteri l'anno scorso, quest'anno la Fed dovesse alzare ulteriormente i tassi di interesse come sembra nelle previsioni, drenando ulteriormente quei capitali stranieri di cui il Libano ha disperatamente bisogno. Il vero rischio è che la spirale negativa generata da un crollo dei prezzi immobiliari possa portare alla fine dell'ancoramento della lira libanese al dollaro e una svalutazione che avrebbe conseguenze molto gravi per il potere d'acquisto della popolazione con effetti imprevedibili su quella delicata pentola a pressione pronta a esplodere che è la società libanese.

Nell'eventualità di questo scenario catastrofico, più pericoloso di qualunque attacco terroristico e tensione militare, il grande stregone Salameh è però già sceso in campo da tempo. Con un vantaggioso swap di titoli sovrani (denominati in euro al posto di quelli denominati in lira libanese) offerto alle banche del paese è riuscito a rimpinguare le riserve di valuta introducendo nel frattempo strumenti di sostegno al credito ancora più semplici e che stanno facendo diventare l'accesso facile a prestiti e ad alti tassi di interesse sempre più parte degli espedienti usati dalla classe media libanese per mantenere il proprio stile di vita di fronte al crescente costo della vita. Ma, nonostante tutto, i prezzi ancora non salgono.

Insomma, sembra che stavolta la magia di Salameh sia davvero messa alla prova, facendo parlare apertamente commentatori come Rosalie Berthier di possobile bancarotta. Ma come in ogni saga di magia e stregoni che si rispetti fino alla fine non è detta l'ultima parola. All'orizzonte cominciano a scorgersi infatti alcuni fattori che potrebbero finalmente venire in soccorso dell'economia libanese. Le tensioni con le monarchie del Golfo stanno calando tanto che turisti (e investitori) sauditi ed emiratini potrebbero tornare ad affacciarsi sul lungomare di Beirut già quest'estate. Ma c'è soprattutto un possibile ridimensionamento del conflitto siriano che potrebbe riaprire almeno in parte le rotte commerciali con la Siria occidentale e sollevare un po' l'export libanese. Infine, gli umori imprevedibili della nuova amministrazione statunitense e nuovi dati sull'economia americana potrebbero spingere la Fed a rinviare il rialzo dei tassi.

Insomma, la profezia si potrebbe auto-avverare ancora una volta, aiutata dalle astuzie della banca centrale e da una migliore congiuntura regionale e internazionale. Ma neanche la più grande magia può cancellare e guarire i mali profondi di una economia libanese basata su settori e ricchezze effimeri, con un tasso di povertà e disoccupazione giovanile in costante crescita , disuguaglianze sempre più incolmabili, un sistema politico in balia degli umori dei propri patron esteri e una strutturale incapacità a portare a termine qualunque riforma verso un modello più sostenibile. L'appuntamento con la fine dell'incantesimo di Salameh rischia così di essere solo posticipato. 

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