Foto LaPresse

Il male dell'università italiana, le facoltà ridotte a esamifici

Giuseppe Bedeschi

“Sono vissuto per quasi mezzo secolo nella scuola; e ho imparato che quei pezzi di carta che si chiamano diplomi di laurea, certificati di licenza, valgono meno della carta su cui sono scritti". Una lezione di Einaudi da riscoprire

Molti sono stati i commenti, sui giornali, a proposito dei recenti scandali nei concorsi universitari. Tutti i commentatori hanno manifestato, giustamente, il loro sdegno e la loro meraviglia. Eppure (ahimé) quello che è accaduto non costituisce affatto qualcosa di nuovo, e anzi ha dietro di sé una lunga tradizione. Questa volta un candidato a un concorso universitario è stato diffidato dal presentarsi, perché il vincitore doveva essere un altro (così avevano deciso i suoi padrini), in barba al confronto e alla comparazione fra candidati diversi, al fine di scegliere il migliore. Ma sarebbe interessante fare un censimento nelle varie facoltà delle università italiane, e accertare quanti parenti stretti (dico parenti: mogli, figli, ecc.) sono presenti nel corpo docente. Credo che questo censimento darebbe risultati sconcertanti. Del resto, chi non ricorda che, in tempi recenti, nella facoltà di Medicina dell’Università La Sapienza di Roma, il preside (che poi diventò, nientemeno, rettore) aveva fatto diventare suoi colleghi (cioè cattedratici), nella sua stessa facoltà, la propria moglie e un proprio figlio?

 

Si sbaglierebbe di gran lunga se si ritenesse che si possa porre rimedio a questo bubbone dei concorsi universitari truccati e truffaldini, introducendo nelle commissioni giudicatrici degli studiosi stranieri, o dei magistrati, o dei generali dei Carabinieri. In realtà, il bubbone può essere rimosso in un solo modo: abolendo il valore legale delle lauree. Oggi le università in Italia sono moltissime, e c’è un solo mezzo per ottenere che esse migliorino sempre più il loro livello qualitativo (sia nella ricerca che nella didattica): metterle in concorrenza fra loro. Siano le facoltà a scegliere e a chiamare i propri docenti. Le facoltà migliori (con i docenti migliori) produrranno i laureati migliori, i più preparati, i più bravi. Le aziende assumeranno i laureati usciti da una facoltà che dà tutte le garanzie. Si creerà così un circolo virtuoso: i giovani accorreranno in quelle facoltà che assicurano loro uno sbocco sul mercato del lavoro; le università mediocri (con docenti mediocri, reclutati sulla base delle clientele, o addirittura delle parentele) vedranno calare sempre più i propri iscritti e dovranno trarne la dovuta lezione.

 

Purtroppo, ora non è così: tutte le lauree sono uguali, tutte hanno, legalmente, lo stesso valore. Ciò fa sì che non ci sia la preoccupazione, nelle autorità accademiche e nel corpo docente, di migliorare continuamente, di rivolgersi ai giovani docenti più valorosi, perché quello che conta è “il pezzo di carta”, la laurea con il timbro rettorale e ministeriale, e nient’altro.

 

Contro l’ideologia del “pezzo di carta” (si tratta infatti di una ideologia: statalistica e livellatrice) svolse una polemica acerba e sferzante un grande italiano, di pura fede liberale: Luigi Einaudi. Il quale scriveva nel 1947 (dunque agli inizi della nostra Repubblica): “Sono vissuto per quasi mezzo secolo nella scuola; e ho imparato che quei pezzi di carta che si chiamano diplomi di laurea, certificati di licenza, valgono meno della carta su cui sono scritti. (…) A qual fine dunque lo stato si affanna a mettere sui diplomi un timbro ufficiale privo di qualsiasi effettivo valore? Il più ovvio e primo effetto è quello di trarre in inganno i diplomati medesimi; inducendoli a credere che, grazie a quel pezzo di carta, essi hanno acquistato il diritto o una ragionevole aspettativa ad ottenere un posto che li elevi al di sopra degli addetti alle fatiche manuali dei campi o delle officine”.

 

Credo che dovremmo recuperare interamente la lezione di Einaudi. Una scuola seria, una università rinnovata (basata sulla effettiva preparazione che essa è in grado di dare, grazie alla qualità del suo corpo docente), porrebbe termine anche alla indecente situazione attuale di molte facoltà umanistiche, divenute (da lunghi anni) puri “esamifici”. Senza obbligo, per gli studenti, di frequentare lezioni e seminari, tali facoltà sono divenute, durante le sessioni di esami, assai simili alle stazioni ferroviarie: folle di studenti si accalcano nei corridoi, o sono sedute sui gradini delle scale o per terra. Da chi è costituita la maggioranza di queste folle di studenti? Si tratta di giovani che si sono iscritti nelle università non per veri interessi culturali e scientifici (e infatti non frequentano mai lezioni e seminari, ai quali partecipano poche decine di discenti), ma solo per conseguire la laurea, quel “pezzo di carta” al quale essi attribuiscono la virtù magica di procurare loro un “posto” nelle burocrazie statali e parastatali.

 

E’ naturale che a una università spesso dequalificata corrisponda una folla di studenti culturalmente demotivata. Ecco perché le nostre università figurano, nelle classifiche internazionali, più o meno al 200° posto. Naturalmente, abbiamo anche (soprattutto nelle facoltà scientifiche) isole di eccellenza, grazie alla dedizione di docenti di alto livello. Ma, come tutti sanno, una rondine non fa primavera.

Di più su questi argomenti: