Gli zombie di “The Walking Dead”, la fortunata serie televisiva americana che domani (il 24 in Italia) inizia la sua settima stagione

“The Walking Dead”, c'è del sacro nell'horror

In quei corpi rianimati ma non redenti si agita il tabù della morte. Torna in tv “The Walking Dead”. Col procedere degli episodi e delle avventure, gli zombie sono ridotti a inquietanti arredi paesaggistici, pericolosi ma non troppo. Il “morto vivente” è l’ossimoro che meglio rappresenta il Cristo non riuscito, il Lazzaro dimezzato.

“E’ solo quando l’anormale finisce per essere sentito come immagine del nostro essenziale spaesamento che raggiunge una certa profondità letteraria” (Flannery O’Connor, “Nel territorio del diavolo”)

 

“Che venga il mattino. La sua mente ripeté le parole di ogni notte. Buon Dio, fa’ che venga il mattino” (Richard Matheson, “Io sono leggenda”)

 

Il problema è che, dopo un po’, ci si abitua. Ci si abitua a vederli in giro pencolanti attorno ai protagonisti. Dopo un primo impatto di straniamento, è l’effetto che fanno gli zombie di “The Walking Dead”, la fortunata serie televisiva americana che domani (il 24 in Italia) inizia la sua settima stagione. Ambientata in un mondo post-apocalittico, narra le vicende di una piccola comunità che, tra mille peripezie, si ritrova a combattere una strenua lotta di sopravvivenza. Ma, appunto, ciò che fa veramente paura non sono i walkers, i vaganti mezzi morti, ma i vivi.

 



 

Appurato che i primi possono essere eliminati con un colpo in testa anche da un bambino, a terrorizzare il gruppo dei protagonisti è la ferocia dei secondi, che non hanno alcuno scrupolo morale che scarti dall’hobbesiana logica dell’homo homini lupus. Ideata dal regista Frank Darabont, lo stesso de “Le ali della libertà” e “Il miglio verde”, la serie è tratta dall’omonimo fumetto di Robert Kirkman, da cui si discosta in parte. Roba molto pop, insomma, coi suoi pregi e difetti, spesso rimarcati dai puristi dell’opera originale e dai fan dell’horror più sofisticato e meno commerciale. Non è un caso, infatti, che due maestri del genere, George Romero e John Carpenter, l’abbiano senza troppi complimenti liquidata come una “soap opera”.

 

Resta il fatto che, col procedere degli episodi e delle avventure, il telespettatore è portato a capire che sono le scelte degli uomini a imprimere le accelerazioni alla trama, mentre gli zombie sono ridotti a inquietanti arredi paesaggistici, strani abitanti di lande desolate, pericolosi sì, ma né più né meno di quanto lo fossero le bestie feroci, istintive ma vulnerabili, per gli uomini delle caverne. E qui sta appunto il primo paradosso della figura letteraria dello zombie che il suo inventore, Richard Matheson, metteva in bocca a Robert Neville, il protagonista di “I Am Legend” (1954), ultimo uomo sulla Terra asserragliato in una casa circondata da ululanti mostri vampireschi: “Di nuovo scosse la testa. Il mondo era impazzito, pensò. ’I morti camminano e io non me ne stupisco. La resurrezione della carne è diventata una banalità. Come si fa in fretta ad accettare l’incredibile, se lo si vede abbastanza’”.

 



 

Il quesito è dunque questo: ci si può abituare alla resurrezione? E di che cosa sono emblema gli zombie, queste inverosimili creature partorite da fantasia umana in tempi relativamente recenti? Il link tra sacro e profano non appaia bislacco. Come spiega con dovizia di particolari e citazioni Roberto Curti nel saggio “Demoni e dèi” (Lindau, 2009) “il cinema dell’orrore banchetta da sempre sull’eterno contrasto tra sacro e profano, in una rete di metafore, negazioni, deviazioni di significati”. Dall’arte alla letteratura, dal grande al piccolo schermo, la rappresentazione dell’orrore non può prescindere dalla religione, fosse anche solo per contrasto. “Il punto di partenza – scrive sempre Curti – è quello di una trascendenza, una deviazione dai sentieri della normalità che squarcia le apparenze dell’esperienza fenomenica”. Da questo punto di vista, come ha notato Kim Paffenroth nel suo saggio “Gospel of the Living Dead”, lo zombie è il miglior rappresentante del mostro “apocalittico” nel significato originario del termine: “Essi ’rivelano’ terribili verità sulla natura umana, sull’esistenza e sul peccato”.

 

Diciamola tutta: c’è pure in giro parecchia cianfrusaglia trash, trascurabile e mal fatta, superficiale e abborracciata, che non ha nemmeno la grandezza di un nichilismo portato fino alle sue estreme e tragiche conseguenze. E pur tuttavia, lo zombie, morto ma vivo, morto che si nutre di vivi per rimanere morto, è l’immagine più emblematica della “non” resurrezione. Il “morto vivente” è l’ossimoro che meglio rappresenta il Cristo non riuscito, il Lazzaro dimezzato. E’ il corpo rianimato ma non redento: ciò che torna in vita è carne putrefatta senza “Io”, “pneuma”, “coscienza”.

 

Questi manichini marcescenti sono la personificazione del tabù della morte, uno degli eventi più nascosti dalla civiltà moderna. Oggi nelle nostre chiese nessun parroco si sognerebbe mai di appendere ai muri quadri con raffigurazioni delle fiamme dell’inferno, di dannati mostrificati, di teschi ai piedi di santi, nemmeno per segnare la gloria della resurrezione o, come nella sostanza insegna la dottrina cattolica, della vittoria del Bene sul Male. I tristi spiriti dipinti ai piedi del Cristo del Giudizio universale michelangiolesco – che tanto paiono degli zombie – troverebbero oggi spazio in una delle nostre basiliche?

 

Il problema, però, è che senza morte non vi può essere resurrezione. Uscendo dalle chiese e guardando quello che accade nell’agorà civile, dobbiamo fare un’altra osservazione: il corpo martoriato dello zombie porta alla luce ciò che sta sottoterra, sbattendoci sul grugno ciò che saremo dopo il trapasso. Ed è cosa ben diversa dall’ultima immagine del defunto con cui abbiamo cercato di consolarci quando lo abbiamo lavato e ben vestito prima di depositarlo nella bara, quando lo abbiamo onorato coi riti funebri, quando lo abbiamo calato con le funi nelle viscere del campo. Lo zombie esce dall’ombra e dall’oblio e si riconsegna al nostro sguardo come un ammonimento terrificante: tu sarai questo, carne putrida e lacerata. Di più: questo “Io decomposto” ci insegue, ci rincorre, ci vuole morsicare. Egli è la personificazione del memento mori, memoria del più grande mistero, assieme alla nascita, di cui facciamo esperienza.

 

I verminosi cadaveri ambulanti che oggi vediamo in “The Walking Dead” sono cinematograficamente molto diversi dai loro antenati. I primi morti viventi appaiono al cinema nel 1932 con “L’isola degli zombies” (“White Zombie”) di Victor Halperin. Non sono antropofagi, appaiono come sonnambuli risvegliati dal letargo mortale da riti magici voodoo, secondo quella che è, per gli storici, la loro origine: fantasmi richiamati in vita dagli stregoni haitiani per renderli schiavi. Il morto vivente così come oggi lo conosciamo è frutto della reinterpretazione di George Romero a partire dai vampiri di Matheson. E’ il regista newyorkese che nel 1968 – anno significativo – porta sullo schermo “La notte dei morti viventi”, il primo film che ci consegna la fisionomia attuale dello zombie: impacciato, privo di coscienza, cannibale. Come disse una volta lo stesso regista, “tutto quello che ho fatto è stato tirarli fuori dall’esotico e trasformarli in vicini di casa. Non c’è niente di più spaventoso dei vicini di casa”.

 


 


 

Romero, cattolico tormentato, socialista, è anche l’autore dell’altra pietra miliare del genere, “Zombi” (“Dawn of the dead”, 1978), dall’evidente polemico intento anticonsumistico. Intento ribaltato dalla cultura pop negli anni successivi (si pensi ai balletti tra zombie di Michael Jackson in “Thriller”) e poi tornato alle sue origini con i prodotti degli ultimi decenni, dal remake di Zack Snyder del capolavoro romeriano (2004), a “28 giorni dopo” (2002) di Danny Boyle, al recente “World War Z” (2013) di Marc Forster.

 

A parte le ultime pellicole citate, che tentano di dare una spiegazione razionale alla loro presenza tra noi, sia nelle opere romeriane sia in “The Walking Dead” gli zombie ci sono e basta. A un certo punto iniziano a oscillare per le strade, ma non sappiamo perché. Anzi, il “perché” sembra non importare a nessuno dei protagonisti, preoccupati solo di salvare la pelle. E questa è un’altra potente metafora della condizione umana. Se si eccettua la celebre battuta (“quando l’inferno è pieno, i morti tornano sulla terra”), in “Zombi” di Romero non v’è alcun riferimento a un aldilà da cui i morti provengono. I veri zombie siamo noi, pare dirci Romero, mostrandoci come esseri in perenne shopping tra cose finite di cui, alla fine, non sappiamo che farcene: soprattutto, nessuna di quelle “cose” che troviamo sugli scaffali di un mondo rappresentato come un centro commerciale potrà salvarci. Lo zombie, come l’uomo moderno, vagabonda in un mall magari scintillante, ma in cui circola l’aria stantia di un locale senza finestre. Si ritrova sulla Terra senza saperne il motivo, non è stato lui a creare il mondo né a generare la catastrofe che l’ha sconvolto, non sa dove andare, non ha altro interesse se non rimediare del cibo per quietare i brontolii dello stomaco.

 



 

E’, su diversi piani, una desacralizzazione totale e senza spiragli del senso della morte. I riti funebri, ad esempio. La cura pro mortuis gerenda, la sollecitudine da riservare ai defunti, non ha più senso: i morti viventi ci ricordano la nostra ineluttabile condizione di vivi morenti. Se i culti antichi servivano a tenere separato il mondo del visibile da quello invisibile e se, nell’era cristiana, la morte era diventata il dies natalis, cioè il momento di rinascita a nuova vita, nel mondo zombiesco non vi è nulla di tutto ciò. Non c’è più pietas per i trapassati perché essi non diventeranno mai i nostri antenati, sono solo un pericolo e una minaccia. Fuor di metafora potremmo ripetere il celebre aforisma di Jean-Paul Sartre: “L’inferno sono gli altri”.

 

Non solo. Con gli zombie si fa largo anche un nuovo concetto di purgatorio non ultraterreno. Mentre il purgatorio cristiano è l’unico dei tre regni dell’aldilà a non essere eterno, ma ad avere una dimensione temporale in vista di un fine – la beatitudine del paradiso – quello degli zombie è un purgatorio terreno potenzialmente eterno. Lo zombie non ha alcun approdo cui trapassare: Caronte è inutile. E’ un ribaltamento evidente dell’interpretazione cristiana da cui è espunta ogni finalità di salvezza o dannazione. Siamo prigionieri in un terribile e tragico purgatorio dell’aldiquà, forse la più soffocante delle condizioni mai immaginate dalla letteratura di fantasia. Postulato che il Cielo è vuoto abbiamo scoperto che la Terra, così come il nostro corpo, è un inferno. Se nella tradizione cristiana, secondo la definizione tertulliana, “caro cardis salutis”, il corpo è il cardine della salvezza, destinato a risorgere sull’esempio di Cristo, nel caso degli zombie l’essere umano è solo uno stadio intermedio prima della putrefazione perché nessun logos è mai venuto a visitare la nostra carne.

 

E’ una differenza abissale, gravida di conseguenze. Nell’ottica cristiana il corpo può essere profanato, ma non sconsacrato. Si pensi all’episodio narrato da Dante in Purgatorio V, quando l’Alighieri chiede a Bonconte da Montefeltro che fine abbia fatto la sua salma “forata nella gola” e poi dispersa dopo la battaglia di Campaldino. Essa è stata dilaniata per ripicca dal diavolo, ma Bonconte non è precipitato negli inferi, perché un “angel” ne ha constatato il pentimento sul punto di morte grazie a una “lagrimetta”. Secondo la logica cristiana, dunque, essendo l’uomo creatura, egli non è proprietario del suo corpo: esso è sacro perché voluto da Dio e può essere dato o tolto a seconda della divina preferenza. Il diavolo vi si può accanire contro per ripicca, ma non può distruggerlo, esso è destinato a ricongiungersi con l’anima nel giorno del giudizio.

 


Coppo di Marcovaldo, particolare del Giudizio universale, 1260-1270. Firenze, Battistero


 

Il corpo dello zombie è il rovescio della medaglia: è profanato perché non è sacro. Esso diventa feticcio, involucro, carcassa deperibile come ogni cosa soggetta alla corruzione continua del tempo. Ma anche a proposito della filosofica idea che “tutto scorre”, lo zombie ci dice qualcosa in più, nel senso che egli ne è la sua sfocata fotografia: non lo vediamo invecchiare e deperire, egli è eternamente se stesso, sospeso tra vita e morte. E’ l’ennesimo paradosso: è corruzione che non si corrompe, è marcio che non marcisce, è l’errore di natura che non è soggetto alla tirannia del tempo che fa imbiancare i capelli, comparire le rughe sul volto, guastare la dentatura. Lo zombie è un’iperbole esistenziale che ci ricorda cosa saremo, a meno che un angelo non ci riscatti grazie alla nostra ultima “lagrimetta”.