Emanuele Severino. Foto tratta da youtube

Canetti, Severino, Sgarbi e la morte che non muore

Davide D'Alessandro

Da una risposta del critico d’arte, spunti per ragionare intorno alla fine. Ma c’è una fine? Che cosa finisce?

“Tacere sulla morte. Per quanto tempo resisti?”. Già, per quanto tempo? È incalzante, Elias Canetti. Chiede a sé stesso e a noi, a noi e a sé stesso: per quanto tempo possiamo resistere nel tacere sulla morte? E nel pensarvi? Forse quest’ultima sarebbe stata la domanda più appropriata. Tacerne spesso si può. Non pensarvi è impossibile. Alla domanda di Peter Gomez: “Pensa spesso alla morte?”, Vittorio Sgarbi ha risposto: “Penso soltanto alla morte. Sapere che gli anni rimasti sono inferiori a quelli vissuti, mi angoscia. Ma è inevitabile”. Emanuele Severino ha una visione ostinata e contraria. Per il maggior filosofo italiano contemporaneo, “la morte non è annientamento. Nell’eterno apparire del tutto, in cui l’uomo consiste, la morte è il passaggio da uno spettacolo dove gli eterni costituiscono ciò che chiamiamo ‘vita’ allo spettacolo degli eterni che oltrepassano l’alienazione del vivere”.

 

Eppure, si muore. La morte non muore. Sgarbi, arrivata l’ora, non avrà più Gomez a fargli domande, ma non sarà annientato. Continua Severino: “Non può essere l’annientamento di alcunché di ciò che un uomo è stato. Ecco lì il cadavere: si crede che esso sia la prova… ‘vivente’ dell’annientamento della vita. Ma – e qui siamo di fronte a uno dei nuclei concettuali più complessi – il cadavere non è l’apparire dell’annientamento del corpo vivente, non appare che il corpo vivente sia diventato niente. Ma dopo l’apparire del corpo vivente appare il cadavere. L’esperienza, di fronte alla quale tutti, più o meno consapevolmente, si tolgono il cappello, non mostra l’annientamento delle cose. Ho sempre usato per chiarire un poco queste affermazioni la metafora della legna e della cenere: la legna sta al vivente come la cenere sta al cadavere. La cenere è il cadavere della legna. Ma quando si esperisce la cenere, non si esperisce l’annientamento della legna. Quando si esperisce la cenere, questo esperire è il compimento di una serie di esperienze in cui appare la legna spenta, poi la legna accesa, poi la legna meno accesa, poi il suo cadavere, la cenere”.

 

Per Severino, avvicinarsi alla morte è avvicinarsi alla gioia: “Siamo re che si credono mendicanti. L’uomo è eterno, ma crede alla follia che lo dice mortale e quindi mendica la propria salvezza dal baratro del niente presso un Dio oppure, come accade ora, presso la scienza”. Si ostina, invece, Canetti, strappando e riscrivendo persino i comandamenti. “Non morire (il primo comandamento)”. Vietato morire. Ribellatevi al peccato della morte. Non cedete al desiderio della morte, alla pulsione di morte. Ma nel 1994 Canetti è morto davvero, lasciando a noi, a chi non smette di frequentare i suoi libri, l’incombenza di continuare la buona battaglia.

 

Utopia, si è detto e si è scritto. Non si è taciuto sull’utopia canettiana. Sulla sconfitta canettiana. Ma perde davvero chi muore, lasciando un’opera aperta, immortale? Perde davvero chi ha costruito un’opera, ha lanciato un guanto di sfida senza poterla condurre fino in fondo? È davvero utopico chi vuole annientare la morte? Che cos’è la vita se perde il gusto dell’utopia, il gusto di sfidare ciò che sembra inscalfibile, irremovibile, imbattibile? Se è vero che siamo ormai finiti, per dirla con Bauman, nella rete della retrotopia, incapaci di puntare davanti ma con lo sguardo perennemente rivolto indietro, quando si stava meglio anche quando si stava peggio, porsi l’obbiettivo temerario di sconfiggere la morte non solo diventa lecito, ma necessario, addirittura urgente. Ma quale morte? Quella biologica? I corpi, presto o tardi, scienza o non scienza, sono destinati a logorarsi. È possibile eliminare ogni altra forma di morte? È possibile sottrarre a ogni altra forma di morte la potenza energetica, il terreno quotidianamente coltivato per rinforzarla e sostenerla? Bisogna scegliere. C’è Karl Kraus e c’è il dottor Sonne. C’è l’attività strabordante, con l’innata matrice assassina e ingorda di sangue, e c’è l’attività-passiva, priva di ambizione e di potere. Priva di morte. Importante è non morire prima di morire, non consegnarsi alla morte, non farsi guidare dalla morte mentre si vive. Kraus è impregnato di morte, il dottor Sonne no. Ma chi è il dottor Sonne? Chi è quest’uomo che “parlava come Musil scriveva”? Bisogna leggere Il gioco degli occhi e subire il fascino della solare figura canettiana. Sonne, infatti, vuol dire sole. L’opposto del buio. L’opposto della morte.