Emmanuel Macron (foto LaPresse)

No, la Francia non è un miracolo

Claudio Cerasa

Niente problemi di stabilità o di leadership. Partiti rinnovati, sistema che funziona e un soft power da sballo: Eba, Unesco, Olimpiadi, Mondiali, forse la Commissione. Il modello De Gaulle-Macron funziona: cosa aspettiamo a esportarlo in Europa?

L’Europa, si sa, va come un treno e tutti noi lo vediamo ogni giorno, sbirciando tra i dati sulla crescita, i numeri sull’occupazione, le statistiche sulla produzione industriale e mille altri indicatori che ci dicono che il nostro continente, almeno dal punto di vista economico, non è mai stato così in salute (a fine anno i trimestri di crescita consecutivi saranno diciotto, dicasi di-ciot-to). Ma quando l’inquadratura della nostra telecamera si allontana dal contesto generale (e dal contesto economico) e si avvicina al contesto particolare (e al contesto politico) l’immagine dell’Europa cambia radicalmente e si presenta come un insieme di tessere di un mosaico che qualche problema ce l’ha. In Germania, lo abbiamo visto, il politico più forte d’Europa, a due mesi dalle elezioni, non riesce ancora a formare un governo. In Spagna, lo abbiamo visto, uno dei paesi più in salute d’Europa, che ha però un governo che si regge con una graffetta, non riesce a tenere a bada uno sbandato che ha dichiarato illegalmente l’indipendenza di una regione. In Olanda, paese che cresce al ritmo di un tre per cento annuo, il doppio dell’Italia, un governo è nato solo dopo 281 giorni di consultazioni. In Europa c’è tutto questo (e chissà cosa ancora ci sarà) e poi c’è un’oasi felice di nome Francia. Dove non solo i populisti non vincono (non vincono da nessuna parte) ma dove gli astri si sono magicamente allineati, a favore di un paese che non ha problemi di stabilità, che non ha problemi di governabilità, che non ha problemi di leadership e che grazie a un sistema che riesce a fare massa anche a favore di qualcosa e non solo contro qualcuno sta iniziando a raccogliere i frutti del suo formidabile soft power. Due giorni fa la conquista dell’Eba, la sede dell’Autorità bancaria europea in fuga dal Regno Unito, strappata alla Germania. E prima ancora, la conquista della guida dell’Unesco (con l’ex ministro Audrey Azoulay), la conquista delle Olimpiadi del 2024 (a Parigi, con tanti saluti a Virginia Raggi), la conquista dei Mondiali di Rugby del 2023 (anno importante, anno del bicentenario dell’invenzione del rugby) e un domani chissà come finirà la partita a scacchi per la successione di Jean-Claude Juncker alla guida della Commissione europea (Macron scommette forte su Margrethe Vestager). In Europa negli ultimi anni abbiamo imparato a capire cosa funziona e cosa non funziona, cosa porta risultati e cosa non porta risultati, cosa minaccia il continente e cosa lo salvaguarda, cosa stimola la crescita e cosa la ostacola. Ma molti osservatori (non solo in Italia) hanno spesso dimenticato di ricordare che accanto a una direzione da evitare (no sovranismo, no populismo, no nazionalismo) ce n’è una che andrebbe seguita che oggi è indiscutibilmente quella della Francia. La Francia oggi è un piccolo miracolo non perché gli astri si sono allineati in modo miracoloso ma perché chi oggi guida la Francia raccoglie i frutti di un sistema che non poteva che trovare in Emmanuel Macron (39 anni) un giusto erede di Charles de Gaulle. Il modello francese funziona perché dal 1958 la Francia – da quando cioè il Generale De Gaulle riuscì a far approvare la settima Costituzione repubblicana del suo paese – ha scelto di scommettere su un sistema che permette di governare la frammentazione e che impedisce alla frammentazione di governare un paese (“Come si può governare un paese che ha 246 varietà differenti di formaggio?”) e i frutti di quel modello forse non sono mai stati così gustosi come in questo momento. Come dimostra il caso tedesco, anche i sistemi più robusti del mondo, senza muscolose correzioni che semplificano il quadro politico stimolando la competizione, non trovano un modo per evitare che sia la frammentazione a governare un paese. Ma oltre al dato tecnico c’è anche un dato politico importante da considerare, che chiunque osservi senza paraocchi il fenomeno Macron non può non riconoscere. 

 

La Francia di Macron non funziona solo grazie a De Gaulle ma funziona perché il sistema architettato da De Gaulle (doppio turno con elezione diretta del presidente della Repubblica) ha permesso la maturazione di leadership toste capaci di sintetizzare al meglio lo spirito del tempo e soprattutto di reggere nel tempo. I nemici di De Gaulle, nel 1958, erano convinti che la riforma costituzionale francese fosse il primo passo verso una deriva autoritaria (lo pensavano i suoi avversari in Francia e lo pensavano i comunisti in tutta Europa, a partire dal segretario del Pci Palmiro Togliatti). Ma in realtà come ci dimostra il formidabile percorso di Macron (un Macron c’era anche in Italia, e ieri il nostro Macron, Renzi, era in visita proprio da Macron, ma la linea Togliatti nel nostro paese è più resistente della linea Maginot) quel sistema ha creato un processo virtuoso, all’interno del quale le grandi coalizioni si costruiscono nelle urne prima ancora che in Parlamento e all’interno del quale le classi dirigenti di un paese non possono permettersi di essere neutrali ma devono in qualche modo impegnarsi per il bene del paese (il paragone tra la classe dirigente francese e quella italiana è purtroppo impietoso ma su questo torneremo). Per chi non ama la Francia (ma chi è che oggi non ama la Francia?) è dura da ammettere ma in una fase storica in cui i partiti che non si rinnovano muoiono (e la Francia ci dice molto sul futuro dei partiti socialisti) e in cui i sistemi istituzionali non reggono alle molte varietà di formaggio che dopo ogni elezione finiscono in Parlamento i massimi leader dell’Europa dovrebbero trovare un modo per discutere di un’armonizzazione istituzionale di cui si parla poco e che forse nel nostro dibattito pubblico meriterebbe più spazio rispetto alle stupidaggini sulla democrazia diretta: cosa aspettiamo a esportare in tutta Europa il modello francese?

 

Joseph Nye, professore della Harvard Kennedy School of Government, primo teorico del soft power, sostiene che l’affermazione di uno stato è simile alla chimica che si instaura in una relazione sentimentale e lo spiega con una espressione efficace: “In una relazione sentimentale il potere non risiede necessariamente nel partner più forte, ma nella misteriosa chimica dell’attrazione. Il soft power non è una forma di idealismo o di liberalismo. E’ semplicemente una forma di potere, un modo di ottenere gli scopi desiderati”. Se il soft power della Francia funziona – e oggi tutte le classifiche sul soft power ci dicono che quello francese funziona persino meglio di quello americano, mais oui – non è un caso ma è perché la Francia ha trovato un modo efficace per governare le sue 246 differenti varietà di formaggio. E chissà se durante la prossima campagna elettorale, nel nostro paese, ci sarà qualcuno che avrà il coraggio di spiegare che prima di pensare a come europeizzare l’Italia occorre capire come si fa a francesizzare l’Europa.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.