Nei bar è tornata la gazzosa

Andrea Ballarini

Forse sarà l’estate più calda della storia, ma almeno c’è un buon motivo per vivere

La situazione internazionale è quel che è, il pianeta sta sempre peggio e si prevede l’estate più siccitosa del secolo. Tuttavia alcuni segnali incoraggianti continuano a darci una ragione per alzarci dal letto tutte le mattine. Per esempio, nei bar è tornata la gazzosa. È tornata in una versione al passo con i tempi, con belle etichette eleganti, in austere bottigliette dalla foggia retrò, ma è sempre lei. Una storia gloriosa quella della bibita al limone addizionata di anidride carbonica. Pare che la prima gazzosa prodotta industrialmente di cui si ha traccia risalga al 1840: ne hanno trovato una cassa nel relitto di un vascello naufragato al largo delle coste dello Sri Lanka. Ma per venire a tempi più recenti, fino ai primi anni Sessanta in area padana era nota come “champagne de la balèta”, a causa della sferetta di vetro che fungeva da tappo. La pressione assicurava la chiusura ermetica, ma premendo fortemente col pollice si faceva uscire il gas e la biglia cadeva sul fondo della bottiglietta, che veniva poi regolarmente frantumata dai ragazzini per recuperare quel giocattolo minimale. Poi, sono arrivati gli anni Ottanta e la gazzosa ha avuto la sua Beresina. Si adattava poco al paese colto da improvviso benessere che proprio allora scopriva le bellurie della televisione commerciale. Le suggestioni d’oltreoceano calavano in massa sull’ingenuo mercato nostrano attraverso un’invasione di spot rutilanti, e quel suo aspetto paesano – non a caso si accompagnava spesso a quelle versioni autarchiche delle bibite gassate che erano le spume (bionda, nera e rossa) – male si accordava alla dilagante voglia di internazionalità. E così, quasi da un giorno all’altro, la rurale gazzosa si è vista soppiantare da succedanei anglosassoni dai nomi più in linea con lo zeitgeist: Seven Up e Sprite su tutti. Furono anni bui. Quante lingue furono anestetizzate da bolle ipertrofiche? Quanti palati traumatizzati da effervescenze smodate? Quante “birra e gazzosa” brutalizzate da gassosità forestiere?

 

Lunga è stata la traversata del deserto: per tre decenni la gazzosa è sopravvissuta stentatamente in sgarrupati bar di paese, in bocciofile dove il tempo si era fermato o in sparuti oratori di provincia. E quasi sempre era dal bottiglione che il barista, coevo allo champagne de la balèta, la versava in bicchieri pubblicitari che invitavano ancora ad aprire l’occhio e a bere Giommi. I più accaniti gazzosofili erano costretti a sconfinare in Francia, dove sono meno sensibili alle suggestioni d’oltreoceano e la limonade non ha mai smesso di essere considerata un classico. Un temporaneo oblio, anche se con decorsi differenti, è toccato ad altre bibite nostrane, come il chinotto, che ha rischiato di essere travolto dal furore esterofilo degli anni Ottanta, ma che per fortuna è stato rivalutato dopo un breve appannamento dal rilancio in grande stile a opera di una nota industria. E che dire del Lemonsoda? La sua eclisse non è stata così totale come quella della gazzosa, ma oggi nella maggior parte dei bar alla richiesta di un Lemonsoda la replica è automatica: “Una Schweppes Lemon?”. Come se fossero la stessa cosa! Come spiegare che non solo la mancanza delle fibre di limone cambia radicalmente la natura del prodotto, ma che anche il sapore non è lo stesso? La Schweppes Lemon è perfetta per i cocktail – pensate quanto poco cool sarebbe un Vodka lemon con il Lemonsoda – purché ciascuno resti nel proprio specifico. È però assai difficile trovare baristi disposti a discutere l’epistemologia delle bevande gassate. Peraltro, è maschile o femminile? È il Lemonsoda o la Lemonsoda? Mah!

In ogni caso, per fortuna, oggi la gazzosa sta riguadagnando rapidamente il prestigio d’un tempo. Nei bar più fighetti la si trova di nuovo senza particolari difficoltà in bottigliette che riportano in etichetta l’orgogliosa dicitura: “Con il vero limone sfusato di Amalfi”. Très chic. Per il mondo c’è ancora speranza.

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