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La marcia globale del vino tra protezionismo e concorrenza

Redazione

La 51esima edizione del Vinitaly comincia tra numeri lusinghieri e l'esigenza di trovare una strategia di espansione duratura

Verona. Giusto l’altro ieri, a pochi giorni dal Vinitaly, è uscito un dato che ai più è sembrato l’ennesima conferma della marcia trionfale del vino italiano negli Stati Uniti. Il primo bimestre 2017 ha registrato infatti un ulteriore incremento in valore (del 5,2 per cento), dopo il record dello scorso anno chiuso a 1,62 miliardi di euro.

 

Ma il diavolo, si sa, si nasconde nei dettagli. E in attesa delle ventate neoprotezionistiche – per ora solo mediatiche – c’è infatti da dire che è – in generale – il senso degli States per il vino a crescere, non noi. La Francia non ci sta a essere il secondo fornitore nel primo paese importatore al mondo e infatti prova la rimonta, con un incremento di quattro volte superiore a quello italiano.

 

Complessivamente, inoltre, la crescita media della domanda americana in questo bimestre è stata doppia rispetto alla nostra. E’ presto per suonare l’allarme, ma un po’ di orticaria ad alcuni analisti è venuta. Anche perché stiamo parlando di quasi il 30 per cento dell’intero mercato export del vino made in Italy, e di un paese che acquista le bottiglie a un prezzo quasi doppio rispetto a quanto ce lo paga l’Unione europea. E perché la Germania è un mercato sempre più aggressivo e lascia pochi margini; e anche sulla Gran Bretagna un po’ di Brexit si farà comunque sentire.

 

E con questi tre paesi stiamo già parlando del 60 per cento delle vendite italiane di vino in giro per il mondo, mentre la Francia imperversa sulla domanda emergente, Asia in primis.

 

Per questo Giovanni Mantovani, il direttore generale di Veronafiere che da vent’anni osserva le dinamiche dei mercati, in questi giorni va oltre le frasi di rito e insiste nel dire che “lo scacchiere della domanda mondiale sta cambiando in modo più significativo rispetto al passato”, e che anche se siamo cresciuti del 50 per cento nell’extra-Ue negli ultimi sei anni “non basta, serve lavorare sul brand e quindi sul prezzo medio – ancora troppo basso – e recuperare terreno su alcuni mercati emergenti come la Cina, che vedrà aumentare i consumi di vino del 79 per cento da qui al 2020”.

 

E per questo anche il presidente di Veronafiere, Maurizio Danese, parla di “imponente impegno diretto della Fiera in favore dell’incoming del trade”, perché Vinitaly “si sente di dover sostenere l’export del vigneto Italia in un momento cruciale e nel contesto di una congiuntura internazionale che sta ridisegnando la geografia del mercato”.

 

La funzione traino di Vinitaly serve ora come non mai, in un settore che ha scavato un “solco della tradizione” che è importante per l’identità delle produzioni ma forse un po’ troppo profondo per uscire allo scoperto con le tecniche moderne del marketing e del commercio.

 

Ciò che è sempre stato il comparto agricolo anticiclico per eccellenza oggi sente il peso della solitudine, di una regia-guida. I francesi in Cina cambiano le etichette, cambiano pure i nomi dei propri vini per renderli più musicali, fascinosi.

 

Qui è considerato nella stragrande maggioranza dei casi ancora come una “lesa Maestà”. Poi c’è Vinitaly, con 50 mila operatori stranieri (su 130 mila totali nell’ultima edizione da 140 paesi), 30 mila buyer registrati e in parte selezionati assieme a Ice (che sul vino è molto presente). Di questi buyer, lo scorso anno i cinesi sono stati il 130 per cento in più rispetto al 2015, e quest’anno aumenteranno ancora. Per ripercorrere una Via della seta che anche i cinesi, proprio attraverso Vinitaly, stanno ritrovando.

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