Nostalgia di Henry Miller, che crede nella vita più del Joyce dell'“Ulisse”

Alfonso Berardinelli

Quando sento applausi scroscianti per l’“Ulisse” di Joyce, mi viene subito nostalgia di Henry Miller. Questo giornale ha recentemente festeggiato, se non celebrato, la nuova traduzione, leggendaria prima di essere uscita, che Gianni Celati ha fatto dell’“Ulisse”. Lunghi anni di duro, appassionante lavoro. Una specie di impresa eroica, insomma, un atto di devozione alla letteratura e a uno dei quattro o cinque autori che nel Novecento hanno rappresentato in prima persona che cos’è e deve essere la letteratura.

    Quando sento applausi scroscianti per l’“Ulisse” di Joyce, mi viene subito nostalgia di Henry Miller. Questo giornale ha recentemente festeggiato, se non celebrato, la nuova traduzione, leggendaria prima di essere uscita, che Gianni Celati ha fatto dell’“Ulisse”. Lunghi anni di duro, appassionante lavoro. Una specie di impresa eroica, insomma, un atto di devozione alla letteratura e a uno dei quattro o cinque autori che nel Novecento hanno rappresentato in prima persona che cos’è e deve essere la letteratura. Joyce è al centro del canone novecentesco, soprattutto da quando le letterature di lingua inglese sono al centro della produzione letteraria mondiale. Proust e Kafka possono anche essere (lo sono) più grandi e significativi. Ma fanno troppo “vecchia Europa”, non sono epici, né autori da “opera-mondo”, parlare di loro è più difficile, la bibliografia in inglese che li riguarda è molto meno estesa di quella dedicata a Joyce, anche se spesso di qualità superiore.

    Ma che c’entra Henry Miller? C’entra, perché Henry Miller è sincero e sfacciato, non ha peli professorali sulla lingua, dice quello che pensa quasi prima di averlo pensato, per istinto e perché crede alla Vita più che alla Letteratura. Nel suo “Max e i fagociti bianchi”, pubblicato nel 1938, a quattro anni dall’uscita di “Tropico del Cancro”, Miller riprese un discorso che non era riuscito a concludere in un libro mancato su D. H. Lawrence in quanto autore da contrapporre a Proust e Joyce. La cosa che voleva dire era molto semplice: “Lawrence rappresenta la vita e gli altri due la morte”.
    Detta così, è un po’ forte. Ma Miller è Miller e crede che la vita sia quella che piace a lui. I suoi istinti sono elementari, indomiti e non tollerano gradazioni o mezze misure. Anche lui, come Joyce, ha i suoi amici e ammiratori fanatici, tra i quali c’è quel Lawrence Durrell che proprio a Joyce deve molto, se non altro per l’uso magistrale del cosiddetto monologo interiore.

    La tecnica letteraria di Miller è più diretta e sempre uguale a  se stessa: è un ininterrotto “monologo esteriore”, variato da continue digressioni sui più diversi argomenti, nelle più varie occasioni, ma sempre su base autobiografica. Tutta l’opera di Miller è un’autobiografia fluviale a puntate, sul cui flusso sembra inconcepibile applicare tecniche letterarie speciali. Nelle sue pagine entra di tutto. Non c’è molta differenza tra i suoi romanzi e i suoi libri saggistici come “L’incubo ad aria condizionata” (violenta critica della civiltà americana) o “I libri della mia vita”.
    E’ in quest’ultimo (1950) che Miller scrive: “Quanto a Joyce, certo, sono in debito nei suoi confronti. Certo, sono stato influenzato da lui. Ma la mia affinità è maggiore con Lawrence, ovviamente. I miei antecedenti sono gli scrittori romantici, demoniaci, autobiografici, soggettivi. Ciò che mi attrae in Joyce è il suo genio per la lingua, ma come ho già messo in rilievo nel saggio intitolato ‘The Universe of the Death’, preferisco la lingua di Rabelais a quella di Joyce. Comunque, detto questo, Joyce rimane il gigante in questo campo. Non ha eguali, è praticamente un mostro”.

    In questo bilancio tardo, Miller decide di mostrarsi equanime, ma siamo nell’ovvio. Trovo più interessante l’infuocata faziosità con cui molti anni prima, nel 1938, formulò la sua spietata diagnosi. Ecco una serie di affermazioni che possono sembrare inaccettabili, dettate da semplice ripugnanza, ma che ritengo degne di nota, anche perché considerazioni dello stesso tipo sono venute in mente anche ad altri. Per esempio: “Come quadro naturalistico l’‘Ulisse’ fa appello soltanto al senso dell’olfatto: diffonde un sublime odore mortuario”. “Joyce discende dalla figura dell’uomo di studio medievale, ha in sé il sangue di un prete, è consumato dalla propria incapacità di partecipare alla vita comune, quotidiana degli esseri umani”. “E’ in Joyce che si osserva quel particolare difetto dell’artista moderno: l’incapacità di comunicare con il lettore”. “Leggendo l’‘Ulisse’, abbiamo la sensazione che la mente sia diventata un registratore”. “Joyce non è un realista, non è neanche uno psicologo, non c’è un tentativo di costruire personaggi: ci sono solo caricature di umanità (…) in fondo, c’è un profondo odio per l’umanità, l’odio dello studioso”.

    E’ vero che con questi argomenti (che non valgono per i racconti dublinesi) si potrebbe inchiodare gran parte della letteratura europea del Novecento, la migliore. Ma non va dimenticato che Henry Miller, benché odiatore dell’America e in fuga dall’America, è un grande moralista americano che accetta l’arte solo se l’arte accetta e incoraggia la vita, la vita comune. E’ questo un punto su cui fra americani ed europei sono sempre esistite differenze da non dimenticare.