Più di Dickens, più di Dumas

D'Artagnan e il bimbetto de Roma dalla miseria al MoMa

Nicoletta Tiliacos

La storia del pittore vagabondo Ele D'Artagnan e del suo amico musicologo Pietro Gallina – e di come i disegni del primo, morto in miseria assoluta, siano poi finiti al MoMa di New York e abbiano fatto la fortuna del secondo – si apre come un romanzo di Carolina Invernizio, diventa puro neorealismo, approda alla dolce vita felliniana con sprazzi di commedia all'italiana, inventa colpi di scena alla Dumas, si trasforma in un romanzo di Dickens e finisce come un classico film di Frank Capra. E' una storia bellissima, a tratti inverosimile ma di certificata verità.

    La storia del pittore vagabondo Ele D'Artagnan e del suo amico musicologo Pietro Gallina – e di come i disegni del primo, morto in miseria assoluta, siano poi finiti al MoMa di New York e abbiano fatto la fortuna del secondo – si apre come un romanzo di Carolina Invernizio, diventa puro neorealismo, approda alla dolce vita felliniana con sprazzi di commedia all'italiana, inventa colpi di scena alla Dumas, si trasforma in un romanzo di Dickens e finisce come un classico film di Frank Capra.

    E' una storia bellissima, a tratti inverosimile ma di certificata verità. Una storia che ci porta dritti nella Roma degli anni Cinquanta, ad assistere all'incontro del destino tra Michele Stinelli, in arte Ele D'Artagnan – quarantenne, veneziano, comparsa in film e fotoromanzi, suonatore di tromba, muratore, tuttofare, in cerca di fortuna nella città del cinema – e il piccolo Pietro Gallina. Bimbetto non ancora in età scolare, nato in uno dei tanti villaggi di cui, all'epoca, era fatta la capitale. Il villaggio in questione era quello, nobilissimo e magnifico, tra Campidoglio, Foro romano, piazza della Consolazione e via di San Teodoro. Oggi inarrivabile, nei primi decenni dopo la fine della guerra era ancora popolato da gente umile, da artigiani e manovali, da osti e carrettieri. Tutti si conoscevano, i bambini crescevano in branco per strada, ci si aiutava, ci si chiamava con i soprannomi. Pietro viveva con i genitori e cinque fratelli proprio lì, a un passo dalla Rupe Tarpea, in via di San Giovanni Decollato. Alla porta della famiglia Gallina, il 31 dicembre del 1952, si presenta dunque Ele D'Artagnan (nome ereditato da una particina in una misconosciuta versione cinematografica spagnola dei “Tre moschettieri”) per chiedere e trovare accoglienza. La mamma di Pietro, che dopo poco rimarrà vedova, arrotondava infatti le scarse entrate affittando letti per poche lire a notte.

    Quell'uomo piccolo e segaligno, elegante nella sua stravaganza e nella visibile povertà, era quello che un tempo si chiamava “figlio di nessuno”. “Il mio carattere è nato da un mistero e modellato da un'ossessione. Il mistero è una culla abbandonata lassù a Venezia, il 13 novembre del 1911”, avrebbe scritto. Nato da “madre che non vuole essere nominata”, era stato registrato all'anagrafe come Michele Stinelli dall'ostetrica che aveva assistito alla sua nascita e da due testimoni, ed era stato poi affidato all'orfanotrofio veneziano di S. Maria della Pietà. Da ragazzino, passava tutte le estati presso varie famiglie contadine, tra Padova e Treviso. Dava una mano nei campi e sperimentava un surrogato di vita familiare, anche se erano troppe, quelle “dieci diverse madri” che si andavano aggiungendo alla madre superiora dell'istituto. Era però riuscito a studiare musica alla scuola serale, dove aveva imparato a suonare la tromba. Quattordicenne, aveva frequentato una scuola di recitazione al Teatro Garibaldi di Treviso. Dopo il servizio militare a Sondrio, nel 1934 si era fatto in bicicletta con un amico la strada da Treviso a Roma, dove per due anni aveva servito come trombettiere nella fanfara di Sua Maestà e del Duce. Era poi andato a Milano per lavorare come commesso viaggiatore, ma nelle grandi occasioni, come la visita di Hitler nel 1938, tornava a suonare nella fanfara del re.

    Dopo la guerra, per Ele D'Artagnan cominciano le partecipazioni a fotoromanzi, le serate come presentatore e intrattenitore in spettacoli di provincia e soprattutto le comparsate al cinema: nel 1948 c'è “Fabiola” di Blasetti, nel 1951 “Messalina” di Carmine Gallone e nel 1953 “La figlia del reggimento” di Goffredo Alessandrini. Piccoli successi che lo rafforzano nell'idea che la sua vera strada sia quella di “attore contadino”, come dice di sé. Si ritrova ad avere un ruolo nel lancio di Edy Campagnoli, futura valletta di “Lascia o raddoppia?”, che nel 1955 diventa la prima faccia femminile di successo della neonata televisione italiana. Sul biglietto da visita che Ele mostrava agli amici ancora negli anni Settanta, c'era scritto, sotto al nome, “Scopritore di Edy Campagnoli”. Era il blasone di cui più andava fiero, nonostante l'attrice fosse già sparita da molto tempo dall'orizzonte della sua vita. E nonostante lei, oggetto di un amore non si sa fino a che punto ricambiato e fino a che punto fantasticato, l'avesse profondamente deluso, per convolare a nozze con il calciatore Lorenzo Buffon subito dopo i primi successi televisivi.
    L'arrivo di Ele D'Artagnan a casa Gallina, la notte di capodanno del '53, fa nascere in tutti grandi speranze. Speranza di un po' di calore familiare per lui, randagio da quando è nato e già in movimento tra piazza del Popolo e via Veneto per farsi conoscere da registi e intellettuali, e realizzare così i suoi sogni artistici. Speranza di conseguente benessere per i suoi ospiti, orgogliosi di avere in casa un vero attore di Cinecittà.

    Non andrà proprio così. Tra un film e l'altro (i ruoli per cui viene ingaggiato sono quelli di “generico scelto”: un po' più di una comparsa e molto meno di un vero interprete, compensati con quel tanto che gli consente di vivere tranquillo per due-tre mesi), Ele D'Artagnan deve arrangiarsi con lavoretti di fortuna, e sceglie Pietro come assistente. Una foto dal sapore neorealista li ritrae insieme a metà degli anni Cinquanta, a San Giovanni: D'Artagnan sorridente, pennello da pittore edile in mano, coperto di schizzi di vernice e aria guascona, come da pseudonimo romanzesco. Pietro è in posa vicino a lui, monello bruno dallo sguardo sveglio e dalla faccetta tonda. Pietro ha poi scritto che fu scelto da Ele per accompagnarlo “nelle sue incursioni attraverso la città, al cospetto di parroci, gente di cinema, politici, commercianti, giornalisti… Si tratta di avere un piccolo scudiero, un allievo, un compagno che ascolti estasiato le sue favole, i suoi miti, le sue storie, che sia testimone delle sue gesta; che lo veda furioso come Orlando e Don Chisciotte nella sua travolgente energia positiva instancabile e solare o nelle sue cadute nel tenue pianto di disperazione; e anche che fosse un compare nell'impietosire i vari preti, politici, aristocratici e commercianti a dare un po' di denaro per una famiglia povera, o per la richiesta di un lavoro”.
    Gli eroi di questa vicenda si muovono nella Roma esagerata e ambiguamente materna in cui tutte le porte sembrano aperte, tutto appare possibile, tutti si mescolano: nobili e pezzenti (e nobili pezzenti), intellettuali e attori, cardinali e avventurieri, politici e perditempo, ladri e ambasciatori, poeti e registi. Come Anton Giulio Majano, che arruola Ele per “L'isola del tesoro”, lo sceneggiato che i bambini degli anni Cinquanta ricordano per la canzoncina: “Quindici uomini, quindici uomini, sulla cassa del morto…”. Ele è il pirata Henry. Tutto facce truci e nessuna battuta, perché era il suo destino, ma perfetto come gaglioffo della Tortuga.

    Arriva così fatalmente (doveva arrivare), per Ele, l'incontro con Federico Fellini. D'Artagnan sembra fatto apposta per entrare nella galleria dei “caratteri” del regista romagnolo, dal quale sarà chiamato in cinque occasioni. Dal “Bidone”, nel 1955, alla “Città delle donne”, nel 1979, passando per “Amarcord”, nel 1973, “Casanova”, nel 1976. Ma c'era stato anche “Toby Dammit”, l'episodio di “Tre passi nel delirio” diretto da Fellini nel 1967. Qui D'Artagnan interpreta nient'altro che se stesso. Lo vediamo avvicinarsi al protagonista, l'attore inglese Toby Dammit interpretato da Terence Stamp, per essergli presentato, per potergli parlare. Dammit, già ubriaco, non gli dà nemmeno retta, mentre una colossale e sbrigativa guardia del corpo solleva D'Artagnan come un pacco e lo spintona via.
    La scena è perfettamente riassuntiva del rapporto di Ele con il mondo. Il filo conduttore perenne della sua vita sono stati la smania di riconoscimento e il bisogno di essere risarcito dell'abbandono originario. Del quale mai, però, incolpò la sua “dolce madre”. Immaginata semmai disperata nel doversi separare dal proprio bambino, costretta certamente dalla vergogna, dalle convenzioni, da familiari crudeli. Per Ele corrono in parallelo la ricerca del successo come artista e la ricerca della verità sulla propria nascita, l'idea che l'invenzione del proprio destino dovesse passare per la restaurazione della verità e degli affetti mancati. Già dal 1950, a seguito di indagini frenetiche tra Venezia e Treviso, aveva ottenuto un documento da cui risultava il nome della donna che l'aveva partorito, prima arpista della Scala, all'epoca nubile. Per decenni Ele provò a farsi accogliere da quella che egli riteneva la sua famiglia, prima con le buone, poi con le cattive. Nel 1960 chiese cinquanta milioni di danni al fratello della madre – una cifra iperbolica e provocatoria – mentre elaborava congetture sul possibile padre: un uomo già sposato, è certo, e magari importante, un uomo famoso. Un uomo come Arturo Toscanini, che sua madre aveva conosciuto alla Scala, e nel quale riconosceva i propri tratti… E' l'esordio dell'ossessione che finirà per portare Ele D'Artagnan in galera, nel 1963, denunciato per calunnia e diffamazione dalla famiglia della madre. Passa quarantatré giorni a Regina Coeli, poi è costretto a trasferirsi a Milano, dove rimane fino a metà del '64 in domicilio coatto.
    Quando riesce a tornare a Roma, la dolce vita, per lui, sembra davvero finita. Il simpatico, estroso, divertente Ele D'Artagnan è sempre più convinto di essere inseguito da nemici mortali. La Cia, il Kgb, il Vaticano, la polizia, l'esercito, i vigili del fuoco: tutti sono al soldo della crudele famiglia d'origine, che lo vuole morto per non dividere con lui un'ingente eredità. Continua a essere elegante, con i suoi abiti di velluto di buona fattura sempre più lisi e la cravatta a fiocco, ma ormai si fida di pochissimi. Comincia il giro dei dormitori pubblici, vagabonda per le strade di Roma. C'è chi se lo ricorda nel bugigattolo di un ciabattino siciliano a via della Tribuna di Campitelli, all'inizio degli anni Settanta, prima che anche lì, come era già successo a San Giovanni Decollato e dintorni (da dove anche la famiglia Gallina era nel frattempo dovuta andar via) arrivassero gli sgomberi e la trasformazione delle vecchie case in abitazioni di lusso. Nella bottega del ciabattino, molto orgoglioso quando gli capitava di risuolare gli stivali dell'attore Renato Salvatori, Ele trascorreva, barricato, intere giornate. Accettava ogni tanto di andare a bere un bicchiere in una vineria di via dei Delfini, invitato da un giovanissimo amico (lo chiameremo “il barone” e lo è davvero) che abitava lì accanto ed era incuriosito da quel personaggio romanzesco, dai suoi racconti stralunati e dal bastone “animato” che portava con sé, per servirsene contro eventuali attentatori. “Era sempre dignitoso, non chiedeva mai nulla. Voleva solo che guardassi fuori dalla porta della vineria, prima di uscire, per controllare se c'era qualcuno in agguato”. 

    Tra i pochi amici su cui D'Artagnan continua a contare c'è naturalmente Pietro Gallina, che prova ad aiutarlo come può. Il bambino scudiero è cresciuto, e a metà dei Sessanta è ormai un ragazzo barbuto e intraprendente. Ha messo certamente a frutto gli insegnamenti, l'amore per la musica e per l'arte di Ele, che Pietro considera suo “maestro di vita e secondo padre” (lo ha scritto nel catalogo di presentazione della prima mostra di disegni di D'Artagnan, organizzata a New York nel 2003), e come ispiratore di giusta ambizione e di amore per le cose belle. E' naturale pensare che forse, se non ci fosse stato D'Artagnan, Pietro non avrebbe deciso di studiare Storia della musica con Fedele D'Amico, né si sarebbe laureato con una tesi su John Cage (molto apprezzata dal maestro Mario Bortolotto, che faceva parte della commissione di laurea), né avrebbe imparato a suonare l'oboe, e nemmeno avrebbe coltivato l'amore per la lirica e l'operetta, di cui è diventato raffinato conoscitore. Un amore pari solo a quello per le donne, come racconta il suo amico musicologo Guido Zaccagnini, conosciuto al Conservatorio di Santa Cecilia, nella classe di Didattica della composizione in cui insegna Boris Porena, e memore dell'incredibile capacità di seduzione di cui Pietro dava prova negli anni spensierati della gioventù. Zaccagnini – il quale ricorda “quella volta che Pietro convocò una quindicina di amici perché era arrivato un pullman di studentesse danesi e lui non sapeva come fare per intrattenerle tutte”: avevamo promesso un po' di commedia all'italiana – è uno degli entusiasti cultori di musica contemporanea che fonderanno “Spettro sonoro”. Gruppo al quale si deve, nel 1979, la prima esecuzione integrale, al Teatro Argentina di Roma, delle musiche di Friedrich Nietzsche. Con loro, Pietro stringe un sodalizio che porterà a mille iniziative, non solo musicali.

    Sono i sogni di attore di Ele, a questo punto, a essersi definitivamente ridimensionati, e con essi la sua carica vitale. L'attività principale dell'ormai anziano dropout, dalla fine degli anni Sessanta in poi, diventa il disegno, via di fuga e momentaneo sollievo dalle manie di persecuzione. D'Artagnan disegna ovunque, con materiali di fortuna, con colori rimediati o regalati, su tovaglie di trattoria, su carta di giornale e cartoni raccolti per strada, con il caffè e con lo smalto per unghie, quando non trova altro. Dai suoi disegni – grovigli di colori e di figure ricorrenti, dalle donne bistrate ai falli volanti, dalle case pendenti alle zucche, dalle note musicali alle spirali – che in altre epoche aveva anche provato a vendere, a volte riuscendoci, Ele D'Artagnan ora non vuole più separarsi. Li considera parte della propria forza, teme che i soliti nemici vogliano impadronirsene come di un codice segreto necessario per farlo fuori. Li accumula in grandi valigie sdrucite, protette come può dall'umidità delle sue sempre più precarie sistemazioni, e li firma con il nome della famiglia che lo respinge, “Lombardi”, al quale a volte aggiunge “Toscanini”, mentre ripudia definitivamente il cognome posticcio, Stinelli. Quando è costretto a usarlo, lo scrive tutto minuscolo, con amarezza e distacco. Un suo tentativo di registrarsi come “Michele Lombardi” all'anagrafe di Roma finisce con un'epica litigata con l'impiegato allo sportello.

    A metà degli anni Settanta, Ele D'Artagnan è finito a vivere in una baracca a Trastevere. Non ne è scontento, anche perché continua a dipingere e perché così ha una “casa” davvero sua. A rassicurarlo, c'è anche il fatto che Pietro, con il suo gruppo di amici musicofili, ha aperto a Testaccio la Trattoria degli studenti, che diventa ritrovo affollato e alla moda, nella Roma contestataria un po' all'amatriciana. Lì un piatto per Ele c'è sempre, così come, molto tempo prima, succedeva alla Trattoria del Campidoglio, vicino alla vecchia casa della famiglia Gallina. Ma D'Artagnan non vuole la carità. Aiuta ai tavoli, dove a volte si siedono Moravia e il poeta Dario Bellezza, partecipa alle feste con qualche gag e con i suoi vecchi numeri felliniani, si offre per le commissioni alla posta o al mercato.

    Troppo bello per durare. Nel 1980 la baraccopoli dove vive Ele viene smantellata. Rimane senza tetto sulla testa – solo le famiglie ottengono alloggi alternativi, lui è solo e finisce per strada – e senza mensa, perché anche la Trattoria degli studenti chiude. Quando Pietro Gallina torna da un lungo periodo di concerti, D'Artagnan è quasi allo stremo. E' allora che si decide di ospitarlo nella sede di “Spettro sonoro”, un umidissimo locale a via degli Zingari, nel rione Monti, a un passo dal Colosseo. Il patto è che, quando si prova e quando arrivano artisti ospiti, lui deve andar via, poche ore ogni volta. La sistemazione lo convince, anche perché c'è una porta blindata, a proteggere gli strumenti e a proteggere soprattutto lui, Ele, dalle incursioni dei nemici immaginari che si vanno ingigantendo nella sua testa. Ma l'ossessione riprende il sopravvento. D'Artagnan a volte non apre più nemmeno ai musicisti, ed è Pietro a doverlo convincere che non c'è nessun sicario fuori dalla porta. Lo studio è diventato ormai inservibile per le prove, e nel 1983 viene abbandonato. E' ancora Pietro Gallina, allora, che accompagna Ele D'Artagnan, con le sue valigie zeppe di disegni (“in una c'era sempre una camicia pulita, consumata all'inverosimile ma immacolata”, ricorda Guido Zaccagnini) verso quello che sarà il suo ultimo rifugio. E' una grotta che appartiene a Pietro Feliziani, artigiano “bottaro”, a Monte Testaccio. La grotta è soprattutto il nascondiglio delle preziose valigie, perché ormai Ele dorme in luoghi misteriosi. Dove, non lo dice più nemmeno a Pietro, perché i sicari di Richelieu hanno vinto, e il guascone D'Artagnan non riesce più a duellare con la realtà: tutti lo vogliono morto, nella sua testa. Quando verrà trovato denutrito e privo di sensi, il 13 ottobre del 1987, in una strada di Trastevere, il suo amico Pietro si trovava in viaggio per tre mesi in America. Al ritorno, saprà che Ele non era spirato subito. Portato all'ospedale, aveva rifiutato ostinatamente il cibo, convinto che contenesse veleno, ed era morto di inedia dieci giorni dopo, un mese prima di compiere settantasei anni. Restavano di lui le valigie con i disegni, e restava la lettera testamento con cui Ele D'Artagnan nominava Pietro suo erede universale e gli affidava il compito di organizzare una mostra con le sue opere. Non in Italia, paese che non aveva voluto riconoscere i suoi meriti: almeno la prima esposizione doveva essere ospitata in un'altra nazione.

    Adesso dobbiamo per un attimo immaginare la tristezza di Pietro Gallina, che va a recuperare le valigie del suo vecchio amico e, per puro affetto, le conserva per molti e lunghi anni. Durante i quali insegna musica in un liceo, fa il critico per quotidiani e riviste, scrive testi sull'amata operetta per la Rai, compone. Il lascito di Ele sta lì, a ricordargli un debito d'amicizia che, prima o poi, dovrà essere onorato… L'occasione arriva quando una vecchia amica di Pietro, Mary Norris, che scrive d'arte contemporanea sul New Yorker, vede le opere di D'Artagnan e le apprezza. Pietro parte per New York con qualche disegno di Ele, e comincia quello che i romani chiamano “il giro delle sette chiese” tra le gallerie della città. Alla fine viene premiato. Non solo uno dei galleristi si innamora dei disegni di D'Artagnan, ma dopo la prima mostra newyorchese, nel 2003 (che ottiene recensioni sul New York Times e naturalmente sul New Yorker) il Museum of Modern Art decide di acquistare cinque opere di Ele e di esporle, nel 2009, in una mostra dedicata a quattro artisti outsider del Novecento.
    L'incredibile era avvenuto. La rivincita postuma e il riconoscimento arridevano finalmente al figlio di nessuno, al bastardo partito “con pochi stracci, pochi soldi” e molti sogni, al vagabondo morto in miseria ma convinto – come affermava il conterraneo veneziano, a sua volta “figlio di nessuno”, Giacomo Casanova, – che “ognuno ha diritto di disporre a suo piacere delle lettere dell'alfabeto come del proprio destino”. Casanova rispondeva in questo modo a chi gli rimproverava il falso titolo di Cavaliere di Seingalt, che si era attribuito così come Michele Stinelli aveva deciso di essere Ele D'Artagnan.

    Pietro Gallina si ritrovava ora, con i disegni dell'amico, un piccolo tesoro tra le mani. Fatte le debite proporzioni, è un po' Edmond Dantès che diventa ricco seguendo le indicazioni dell'abate Faria, nel “Conte di Montecristo” di Dumas. E, come Dantès, anche per Pietro comincia una nuova vita. E' anche successo che, dopo quattordici anni di lavoro come docente di ora alternativa di religione (insegnava musica e allestiva opere e concerti al liceo “Socrate” di Roma, con studenti sempre più numerosi e entusiasti), a quelli come lui non era stata concessa la messa in ruolo, a differenza degli insegnanti di religione veri e propri. Nel frattempo, si era sposato con una donna brasiliana, Marlene Rosa de Souza, conosciuta a Roma. Con i soldi che cominciano ad arrivare grazie ai disegni di Ele D'Artagnan, Pietro compra e restaura un grande palazzo coloniale a Salvador de Bahia, in Brasile, nel quartiere di Ribeira. Quartiere poverissimo ma dallo splendido passato, proprio come un tempo il rione accanto al Campidoglio dove Pietro era nato. A Ribeira, con la moglie e l'amico mecenate Roy Zimmerman, Pietro Gallina fonda l'Icbie (Institute of culture Brazil Italy Europe) e avvia il “Progetto scuola internazionale di arte musica e lingue D'Artagnan”. Dal 2006, a studenti poveri che seguono corsi di musica, arte e lingue, e a chiunque abbia voglia di fermarsi un po' lì, Pietro restituisce quello che Ele D'Artagnan gli ha regalato e soprattutto insegnato. L'idea che la vita sia davvero meravigliosa.