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Il "Taccuino" di Pavese: una vita vera che contraddice i "santini" del ’900

Giampiero Mughini

Nell'estate del 1990 Lorenzo Mondo, brillante giornalista culturale, pubblicò gli appunti che la sorella dello scrittore piemontese gli aveva dato. Pagine che cancellano in buona parte la figura del "compagno" costruita a partire dai romanzi e dai racconti

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Un intellettuale cui erano perfettamente note le latitudini europee degli anni Trenta e Quaranta, gli anni in cui covò il suo destino. Un “uomo-libro” che si autodefiniva così: “Letterato sarebbe colui che non vive che tra i libri, stampati a lettere a caratteri mobili e non vede che i libri, non sa più vivere che per e con i libri, ragiona con i libri, sente coi libri, ama coi libri, dorme mangia sempre coi libri”. E difatti tra le pagine stampate a caratteri mobili si muove a meraviglia, quando legge, quando traduce, quando scrive in poesia e in prosa, quando si tratta di scegliere libri altrui da editare. Con le persone reali e con le loro arruffate vicende era per lui un tutt’altro ingombro, tutto un altro esitare, tutto un contraddirsi, non ne parliamo poi se si trattava di donne: con quelle non fu in pace un solo istante della sua vita. 

 

Sto parlando di Cesare Pavese (nato nel 1908, morto nel 1950), e ne sto parlando perché ho appena recuperato un libro che avevo acciuffato al suo apparire, “Il taccuino segreto” di Pavese pubblicato poco più di un anno fa da Aragno, salvo poi dimenticarlo in una pila di libri non letti. Altro che se non era un libro da acciuffare al volo. L’avevo letta sui quotidiani del 1990 – a quarant’anni dal suicidio di Pavese – l’epopea/odissea di quel testo. Era successo che nel 1961 un futuro e brillante giornalista culturale italiano, Lorenzo Mondo, avesse fatto all’Università di Torino una tesi di laurea su Pavese e per l’occasione fosse andato a visitarne la sorella, Maria Sini, la quale abitava ancora nella casa dove Pavese era restato fino alla sua morte. La signora gli aveva imprestato numerosi inediti, lettere, appunti. Tra i tanti c’era un quadernetto, trenta pagine quadrettate di centimetri 12 x 15 tutte segnate a matita o a penna. Gli appunti che Pavese aveva steso in forma abbreviatissima tra l’inizio del 1942 e il dicembre del 1943, nel pieno della guerra e della guerra civile italiana; appunti come stenografati, eruttati alla svelta da uno che si sentiva sconfortato dallo stare a “correggere bozze” mentre i suoi “compagni di scuola” morivano per ogni dove. Mondo prese a leggerli e ne ebbe un soprassalto. Quel che c’era scritto faceva a pugni con l’ortodossia einaudiana da cui era stato marchiato per sempre il Pavese ufficiale, cancellava in buona parte la figura del “compagno” da come l’avevano identificata i tanti di noi che si erano abbeverati ai romanzi e ai racconti dello scrittore piemontese.

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Non era soltanto che l’autore di quel “Taccuino” scansasse di brutto i valori della cultura engagée a sinistra che per mezzo secolo l’ha fatta da padrona in Italia. Ben più che questo, nel suo slabbrato quadernetto Pavese mostrava di essere affascinato dall’“efficacia” politica e militare della Germania nazista, si mostrava attendista quanto agli esiti politici di Salò e tanto più che dava un giudizio spietato di Badoglio e della sua politica, gli sembrava che gli antifascisti sapessero soltanto “litigare” tra loro e peggio ancora che fosse pregnante il detto “stupido come un antifascista”, giudicava che le “atrocità” dei nazi facessero il paro con quelle della Rivoluzione francese e nient’altro che questo. Mondo diede il quadernetto all’Italo Calvino che presiedeva allora la redazione Einaudi, salvo conservarne una copia per sé. Calvino morì nel settembre 1985 e senza che di quel testo sacrilego gliene avesse fatto più cenno. Dopo averne chiesto l’autorizzazione a due nipoti di Pavese, nell’estate del 1990 Mondo decise di pubblicarlo per intero sulle pagine del quotidiano per cui lavorava, la Stampa. Scandalo scandalo scandalo. Fernanda Pivano disse che per lei quelle righe erano state come ricevere una pugnalata alle spalle. Il più feroce di tutti fu Giancarlo Pajetta, uno che a diciotto anni aveva scelto la sua parte, le aveva sacrificato dieci anni della sua giovinezza passati in una cella fascista, e che per tutta la sua vita aveva diviso il mondo in una metà nera e in una metà bianca. Uno che più remoto di lui da Pavese era impossibile. 

 

Non ricordo se quelle pagine del quotidiano torinese che ospitarono il “Taccuino” le avessi ritagliate a suo tempo e messe da parte. Se ne rimasi sconcertato? Nemmeno per idea. Mai nella mia vita ho preso per buoni “i santini” dell’uno o dell’altro colore. E quanto al suo non essere “un santino”, Pavese era stato quello che nel 1932 si era iscritto al Partito nazionale fascista pur di tranquillizzare la sua famiglia che gli raccomandava di non opporsi al mondo com’era, e che il 25 ottobre 1945 era andato a ubriacarsi subito dopo essersi iscritto al Pci e questo da quanto gli era estranea l’idea stessa di una militanza politica a tutto tondo. Lì dove c’è la vita vera di qualcuno, lì c’è sempre contraddizione, ambiguità, pericolanti oscillazioni tra versanti che fanno a pugni tra di loro. Più c’è di tutto questo, più io ci sguazzo in quelle vite vere. Di certo nella vita vera di Pavese non c’era la divisione del mondo tra quelli che hanno sempre ragione e quelli che hanno sempre torto, un orrore ideologico proprio del Novecento che non gli appartenne mai. Di certo le scelte politico/ideologiche fatte una volta per tutte non furono le più dirimenti nella sua traiettoria intellettuale. E poi il “Taccuino” non era un’opera compiuta, da consegnare tale e quale a un pubblico a esserne responsabile di ciascuna mezza frase in esso contenuta. Era solo un termometro che segnalava giorno per giorno le sue angosce, il suo incessante e dolorosissimo rimuginare con se stesso e su se stesso, eventualmente il lievito da cui a forza di rimestare sarebbero poi scaturite le sue pagine creative. Ad esempio “La casa in collina”, quel lungo racconto memorabile nel ritrarre il tempo della guerra civile italiana.

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