Lo skyline di Milano (Ansa)

Terrazzo

Sindrome verticale. Milano come Dubai, ma senza deserto sotto

Giulio Silvano

È finita la sbornia per i grattacieli status symbol? Intanto la Cina fa marcia indietro

È impossibile non notare con sorpresa, ogni volta che si torna a Milano, l’apparizione improvvisa di nuovi grattacieli all’orizzonte, che sia in prospettiva in fondo a un viale o da lontano dalla tangenziale. Gru, impalcature, ruspe, cantieri. Da lontano spuntano nuovi gruppetti di torri che riflettono i raggi del sole, o avvolte in un alone di nebbia-smog, come una downtown di una qualsiasi città americana quando ci si eleva momentaneamente sul cavalcavia della superstrada e si cerca di fare una foto in corsa dal taxi. Sembra uno sguardo passatista alla Marcovaldo, ma Milano è l’unica città italiana dove questo accade con questa rapidità sorprendente. Siamo disabituati.
 

Il nostro è un paese – spesso fortunatamente – sotto la morsa del regime del vincolo architettonico-paesaggistico, nazione dove lo skyline non cambia mai. Basta vedere un qualsiasi film girato a Roma nel secondo dopoguerra: a parte l’Eur, non ci sono novità da tetti e terrazze. Carlo Calenda ha già detto che se vincerà butterà giù la vela di Calatrava, unica sagoma architettonica recente finita su qualche cheap souvenir vicino al Colosseo, acquistabile nei negozi intorno a Termini. Guardando invece una pellicola milanese ci rendiamo conto del tempo che passa. Il film del 1988 I giorni del commissario Ambrosio, con Ugo Tognazzi, si apre con una panoramica sulla città in un’alba bluastra. A parte qualche parallelepipedo scuro isolato, abbiamo il castello Sforzesco, la torre Branca, il Duomo. Oggi a girare quella stessa scena vedremmo un’altra città.
 

Il grattacielo Unicredit a Porta Nuova, Milano (Ansa)

 

City Life, piazza Gae Aulenti, Fondazione Prada, Bosco Verticale, Palazzo “Formigoni Vanity Project” Lombardia, edifici residenziali smart. Negli ultimi dieci anni l’urbanizzazione verticale ha modificato quasi ogni possibile immagine fotografica. Milano è l’eccezione nazionale. È stata la grande sacrificata, la prescelta, identificata come luogo che accogliesse la modernità (pratica ed estetica) di tutta la penisola. Anche qui c’erano mosaici romani, casette medievali, mura spagnole, pezzetti intoccabili della “civiltà” del passato. Dei Navigli non è rimasta che qualche traccia instagrammabile, luogo di mercatini e street food pugliese, il resto è stato coperto come in un sogno marinettiano – i Futuristi volevano asfaltare i canali di Venezia e farci corse in automobile – l’ingegno di Leonardo nascosto da strade, precludendo un futuro turistico stile Amsterdam. Si vede già nel film del ’61 di Ermanno Olmi, Il posto, con i massicci cantieri di San Babila: la città si prendeva la corona di capitale del lavoro, protagonista degli affari, regina del futuro globalizzato, lasciando al resto del paese quell’allure da provincia-paese con piazzetta rinascimentale.

 

Dopo le torri del ventennio (Branca, Snia Viscosa e Rasini – due su tre di Gio Ponti) c’è stato il bel periodo anni 50 in cui Milano si è guadagnata nuovi simboli che oggi sembrano già d’epoca, già storicizzati. Torre Velasca, il Pirellone, la torre di Magistretti a Sempione. Nelle altre città il Novecento ha ancora un effetto contemporaneo, penso all’annesso del ’40 dell’Hotel Bauer o al Palazzo Nervi-Scattolin del ’72 a Venezia, o alla chiesa del Sacro Cuore di Firenze finita nel‘‘62. A Milano questi grattacieli sono invece già antichi, anche alla luce del boom verticale degli ultimi dieci anni, in cui anche i metri sono aumentati. La torre post-razionalista a fungo dei Bbpr arriva solo a 106, il grattacielo Pirelli – che ci accoglie quando usciamo da Centrale – raggiunge i 127, superando di quasi venti metri la Madonnina. Quando fu costruito, nel ’60, mantenne il primato di edificio più alto del paese fino al 1995.

 

Oggi i luccicanti protagonisti vetro-acciaio del nuovo skyline superano i duecento metri, come la Torre Unicredit e la Torre Isozaki. Qui c’è anche il primato dell’edificio residenziale più alto d’Italia, la Torre Solaria, del peruviano Fort-Brescia. Per avere più chiaro il profilo urbano della città qualche giorno fa la Fondazione dell’Ordine degli architetti della provincia ha fatto uscire, nella sua collana Itinerari, un’utile guida agli skyscraper meneghini, con efficaci fotografie di Giovanna Silva (che tra le altre cose è anche architetto), Milano verticale, anche in inglese, curato da Simona Galateo. Il libro si chiude con un dialogo tra Carles Muro e Jacques Herzog – sue le piramidi di Feltrinelli – dove quest’ultimo dice: “Penso che a Milano gli edifici alti siano una specie di equivoco: sono costruiti su una sorta di piattaforma artificiale e sembra non riescano a essere veramente radicati al suolo”. Parlando dei tanto amati cortili interni dei palazzi – molto fotografati, vanto dei milanesi – dice: hanno “una qualità di vita così incredibile che è molto difficile per un grattacielo competere con loro”. Ci si chiede perché, dopo una pausa di quarant’anni, sia tornata la febbre della verticalità.

 

Certo Milano è diventata l’interlocutrice principale delle banche e delle grandi aziende e in parallelo parco divertimenti delle archistar. Ma in epoca di smartworking e ritorno alla campagna il grattacielo è ancora un flex? Si finiranno per vendere portachiavi con le Tre Torri? È una gara tra Allianz e UniCredit per chi svetta sulla città? Dubai e gli Emirati hanno usato il grattacielo come status symbol massimo, un branding turistico-nazionale basato sull’erezione verticale di alberghi lussuosissimi, megastrutture dove “prima qui era tutto deserto…” (lasciamo perdere facili paralleli freudiani stile corsa dei miliardari nello spazio). Il primato a livello quantitativo di grattacieli è cinese. Parliamo di edifici che superano il mezzo chilometro. Ci vogliono sei Pirelloni per fare una Shanghai Tower. Dopo il misterioso ondeggiamento della Seg Tower di Shenzen – città dell’Huawei – la commissione per lo sviluppo della Repubblica popolare ha messo lo stop agli edifici che superano i 500 metri (in generale si invita a limitare la costruzione di grattacieli, e di cercare di ricreare uno stile “cinese”). Per una persona che soffre di vertigini e ha paura della ubris il rimando è sempre al mito eziologico della torre di Babele e a domande sul perché delle cose. Ci piace guardare la città dall’alto? O gli altri dall’alto? O ci piace vedere lontano?

 

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