Ritorno a Roma

Stefano Cingolani

I soldi che arrivano dal piano di ripresa saranno gestiti dalla capitale. Che potrebbe essere presto la nuova Milano. E’ arrivato pure Mourinho

Alme Sol, curru nitido diem qui / promis et celas aliusque et idem / nasceris, possis nihil urbe Roma / visere maius.
Quintus Horatius Flaccus 

 “Carmen Saeculare”


Sole fecondo che dischiudi e celi / il giorno col tuo fulgido carro e nasci / usuale sempre e sempre nuovo, nulla mai / tu possa vedere più grande di Roma.
Orazio, “Il carme secolare” (traduzione di Luca Canali)


Ancora una volta nella sua bimillenaria storia, un sole nutriente torna a illuminare l’urbe eterna. Sarà per il mezzo miliardo di euro destinato a lucidare le bellezze antiche della città? No, sono quattrini importanti, ma tutto sommato si tratta di bruscolini. Allora sarà per José Mourinho, lo Special One per una Special Roma AC? Quisquilie, pinzillacchere anche se gli americani spendono milioni e milioni di dollaroni e i tifosi cantano di nuovo “daje lupi so’ finiti i tempi cupi”. Palla al centro, siamo solo ai prolegomeni di una futura storia, manifestazioni effimere che nascondono una ben più corposa realtà. Prima che un nuovo Orazio torni a intonare un altro carme secolare, bisogna aspettare che si metta in moto la gigantesca macchina scenica del Piano nazionale di Ripresa e resilienza. Perché quelle 272 pagine contengono l’alfa e l’omega di uno spostamento del potere economico e non solo politico in direzione della capitale; tanto che l’acronimo Pnrr potrebbe essere declinato Piano nazionale di Rinascita romana. Che cosa vuol dire?

I settori e le risorse da spendere sembrano altrettanti inviti a nozze per le imprese nelle quali lo stato, nelle fattezze del Tesoro, è l’azionista di riferimento direttamente o indirettamente attraverso la Cassa depositi e prestiti. Cominciamo dall’energia, chiave di volta dell’intera transizione ecologica per la quale sono previsti 68 miliardi di euro. Sono in pole position Eni ed Enel con Terna che fa da supporto; anche l’enfasi dedicata al futuribile idrogeno rispecchia le strategie delle imprese pubbliche. Chissà se il quartier generale del cane a sei zampe, spostato alla periferia milanese nella landa grigia di San Donato, tornerà nel palazzo di vetro dell’Eur, uno dei capolavori architettonici del miracolo economico, inaugurato nel 1962, emblema dei bei tempi perduti o nel nuovo complesso in costruzione oltre il palazzo dello Sport. 

La transizione digitale, dotata di 50 miliardi di euro, vede al centro la Tim, da tempo immemore romanizzata, insieme alla Cdp che è diventata azionista rilevante dell’ex monopolista telefonico e controlla Open Fiber, la società nata per portare la fibra ottica là dove non arriva nemmeno quella di rame. La rete unica, questo tormentone decennale, continua: si farà o non si farà? Oggi prevale il no, domani è un altro giorno. In ogni caso la Cdp tiene i piedi in entrambe le staffe. Un ruolo rilevante avranno anche le Poste, una conglomerata che dalla logistica si espande alla finanza e alla telefonia. Dal risparmio postale, d’altra parte, arrivano le risorse principali della Cdp, ben 250 miliardi di euro. 

Le infrastrutture danno un enorme potere alle Ferrovie dello Stato: si tratta di circa 31 miliardi di euro tra alta velocità (25 miliardi), migliorie alle reti regionali e nodi nelle aree urbane. I fondi destinati alle infrastrutture fanno capo al ministro Enrico Giovannini. Da questa fonte attingeranno anche i costruttori, in primo luogo il “campione nazionale” Webuild (del quale la Cdp è azionista insieme a Salini) seguito dal gruppo Caltagirone, che tra l’altro fornirà anche il cemento. Due colossi, almeno per la dimensione italiana, entrambi romani, anzi romanissimi, come la stessa società Autostrade, ancor più se finirà sotto il controllo della onnipresente Cassa depositi e prestiti.

Dunque, i bocconi prelibati saranno destinati d’imperio a imprese nazionali, soprattutto quelle che di riffe e di raffe fanno capo allo stato? L’Unione europea non dirà niente? E il mercato, le gare, i bandi? Non è certo Draghi l’uomo adatto a praticare il sovranismo degli affari, tuttavia la capitale diventerà lo si voglia o no, il cuore pulsante dell’economia ancor più che ai tempi delle Partecipazioni statali, perché allora l’Iri e l’Eni bilanciavano la Fiat e i grandi gruppi privati del nord (come Pirelli, Olivetti, Pesenti) che non ci sono più. Viene in mente l’epopea dell’Autostrada del Sole costruita in otto anni da società dell’Iri, e per la quale si batté in particolare la Fiat di Vittorio Valletta. Oggi non c’è nessun grande capitalista in grado di assumersi un simile ruolo sposando gli interessi privati e quelli pubblici. 

Ha ragione, allora, Giulio Tremonti? Intervistato dal Sole 24 Ore l’ex ministro dell’Economia ha acceso una luce giallo-rossa: “Indipendentemente dalla localizzazione materiale degli investimenti e dalla naturale centralità del governo, l’asse del potere economico si concentrerà su Roma dove hanno sede le grandi imprese pubbliche che saranno le principali o prioritarie destinatarie dei nuovi finanziamenti. Questo significa che su Roma graviteranno industria, servizi professionali, finanza”. Sì anche la finanza. Per una serie di circostanze le due più grandi banche italiane che gettano le loro radici al nord sono guidate da due manager romani come Carlo Messina in Intesa Sanpaolo e Andrea Orcel in Unicredit, alla cui presidenza c’è un ex ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, anch’egli nato a Roma. Il timore di Tremonti è che “sui territori ci saranno solo e per derivazione appalti”. Per la verità 87 miliardi di euro saranno gestiti a livello locale e questo suscita già incubi ad aria condizionata. Ma anche in questo caso, il governo intende mettere in campo una task force di ben mille tecnici che saranno i terminali del ministero dell’Economia, al quale vengono affidate “funzioni di monitoraggio, controllo e rendicontazione, e i contatti con la Commissione europea”, ha spiegato Mario Draghi.

La gestione del piano sarà centralista e il governo andrà ben oltre la sua funzione “naturale”. L’intera struttura ha un impianto francese con Draghi nella parte di Jean-Baptiste Colbert, il “Contrôleur général des finances”. Ma chi c’è sotto il Controllore? Non sappiamo ancora come sarà composta la plancia di comando, è chiaro però che il ministro dell’economia Daniele Franco sarà il pivot dell’intera squadra e il ministero dell’economia primo motore immobile. Il fortilizio fatto costruire da Quintino Sella in via XX Settembre, diventa lo snodo di questo potere che risponde direttamente al capo del governo. A Palazzo Chigi saranno importanti i consiglieri economici, a cominciare da Francesco Giavazzi, l’economista legato a Draghi da un’amicizia che risale agli anni di Boston, e da Marco Leonardi, docente alla Statale, con una esperienza pluriennale nelle stanze governative, che guiderà il Dipe (Dipartimento per la programmazione e il coordinamento della politica economica). Un ruolo chiave spetta, naturalmente, a Roberto Garofoli, sottosegretario alla presidenza del Consiglio. I tecnici che passeranno al vaglio denari e progetti avranno una responsabilità enorme. L’ambizione, per proseguire nella nostra ardita analogia tra l’Italia di oggi e la Francia del re Sole, è creare un nuovo tipo di stato contro le caste aristocratiche e inefficienti che s’impadroniscono delle finanze pubbliche e le consumano a uso privato. La riforma della Pubblica amministrazione, come si capisce dalle prime mosse del ministro Renato Brunetta, fa entrare forze ed energie nuove, taglia le unghie ai mandarini, vuol privilegiare la meritocrazia. E allora guai a sbagliare la scelta degli uomini che gestiranno le imprese partecipate dal governo.

Sono in ballo i vertici di 90 società, in tutto 518 poltrone, alcune delle quali strategiche per usare un attributo à la page. Dalla prossima settimana, secondo il tam tam del Palazzo, Draghi si occuperà della Cdp. I cacciatori di teste sono al lavoro, ma inutile negare che le difficoltà saranno politiche e il capo del governo le troverà soprattutto tra i grillini, i quali hanno sostenuto l’amministratore delegato della Cdp Fabrizio Palermo, la guida delle ferrovie oggi nelle mani di Gianfranco Battisti, il capo dell’Anas Massimo Simonini, l’amministratore delegato della Rai Fabrizio Salini. Draghi intende cambiare metodo, riservandosi la scelta autonoma del presidente e dell’ad e lasciando che i partiti mettano becco solo sui consiglieri di amministrazione. Il precedente è la scelta di Franco Bernabè alla presidenza dell’Ilva. Molti sperano che alla Rai si vada più in là e s’aspettano che la baruffa scatenata dall’uscita di Fedez sulla legge Zan diventi un assist per liberarsi della spartizione partitocratica. Sarà un sogno nel cassetto, ma come dicevano i classici hic Rhodus hic salta. Sono affari interni, le cancellerie europee non ci mettono bocca, eppure tutti aspettano l’Italia al varco delle riforme. Giustizia, Pubblica amministrazione, fisco e concorrenza sono le quattro priorità indicate da Draghi, ma la riforma delle riforme è la fine della spartizione e del partitismo perfetto. Come saranno gestiti e da chi i 200 miliardi che provengono dall’estero: ecco la prova del nove per la credibilità dell’Italia.

Tutte le strade portano a Roma, insomma, anche le autostrade che partono da Bruxelles. Roma ladrona? I tempi son cambiati per una Lega che vuol diventare nazionale. La Grande Meretrice? Le invettive giustizialiste sono ricadute come un boomerang sulla testa dei grillini. D’altra parte, che cosa è successo alle altre città con vocazione e ambizione da capitale? Milano non è più nemmeno il campione dell’efficienza dopo che Tangentopoli aveva lacerato il velo dell’innocenza gettando nel fango la “capitale morale”. La Torino priva del quartier generale della Fiat, con la grillina Chiara Appendino ha perso anche l’allure post-moderna conquistata negli anni di Sergio Chiamparino e Piero Fassino. Napoli, finita la lunga parentesi neomelodica del sindaco bello e masaniello, se non cambia musica non intercetterà nemmeno le briciole della gran torta destinata al Mezzogiorno, pari al 40 per cento  del totale. Roma, dunque, dovrebbe prepararsi a una ripartenza come quella che ebbe Milano vent’anni fa. Ma chi ha un progetto per l’Urbe del Ventunesimo  secolo e chi può condurla fuori dalla palude evitando che nel pantano finisca l’intero impianto romano-centrico del Pnrr? Oggi viene celebrata la figura di Ernesto Nathan e i giornali ne ricordano gli sforzi per mettere in ordine le finanze e portare Roma nella modernità (fu sindaco dal 1907 al 1913). Nella capitale si usa dire “nun c’è trippa pe’ gatti” da quando, secondo un aneddoto popolare, il sindaco cancellò dal bilancio del comune le spese per alimentare con le “frattaglie”, la folta colonia di gatti randagi. Economie fino all’osso, anzi fino ai felini i quali, a questo punto, avrebbero dovuto alimentarsi solo cacciando i topi. Più liberismo di così. Eppure Nathan aprì 150 asili nido, istituì il mattatoio, i mercati generali, la centrale del latte, presidi medici pubblici, case cantoniere. Nessun nuovo Nathan è all’orizzonte per le prossime elezioni. 

“Roma è una città di giganti abitata da nani” secondo Giacomo Leopardi che non l’amava. Il suo pessimismo era forse troppo cosmico, ma per rovesciarlo non basta un ottimismo volontaristico. “La capitale deve solo uscire dal suo passato innovando i servizi di città metropolitana, offrendo soluzioni avanzate ai problemi dei suoi cittadini, sanando le condizioni di disagio e disuguaglianza civile, rendendo più vicino il centro alle periferie, curando le ferite dell’urbe, ma ricomponendo anche l’unità perduta della civitas”, hanno scritto lo storico Piero Bevilacqua e l’urbanista Enzo Scandurra, che hanno curato il libro “Roma: un progetto per la capitale”, appena pubblicato da Castelvecchi. A loro avviso, non c’è bisogno di grandi opere e architetture acchiappa-turisti; “occorre che i suoi residenti tornino a sentirsi cittadini, portatori di una dignità riconosciuta e rispettata, abitanti di un luogo bello e a suo modo sacro, di cui essere orgogliosi al punto da ritrovare il desiderio di impegnarsi a difenderlo, a renderlo migliore, fruibile a tutti, accogliente con lo straniero, secondo l’antica cultura urbana d’Europa”. Il Cresme, che ha condotto la ricerca Roma 2040, ha individuato quattro cardini: il primo consiste nel collegare la metropoli al territorio, il secondo è l’anello ferroviario concepito vent’anni fa dall’amministrazione Rutelli e mai realizzato, il terzo è un sistema di acque (compresi i suoi due fiumi e il mare) da inserire in una rete idrogeologica di ispirazione leonardesca, infine c’è il “rinascimento urbano”, una rigenerazione del tessuto cittadino, dalle abitazioni ai servizi. Vasto progetto, persino troppo per un sindaco e per un solo mandato; in ogni caso non mancano le idee, mancano gli uomini per realizzarle. Dopo l’arrogante pressappochismo di Virginia Raggi, scelta da Beppe Grillo perché viene bene in tv, chiunque può sembrare uno scienziato spaziale, eppure nessuno ha voglia di mettersi in gioco proprio ora che la città andrà ad assumere un ruolo così fondamentale. Mentre Nicola Zingaretti sfoglia la margherita, di candidati certi ce n’è solo uno, Carlo Calenda il quale però è un cavaliere solitario. Ci vuole coraggio per salire sul “fulgido carro del sole”, come cantava Orazio, e il coraggio se uno non ce l’ha non se lo può dare.

Di più su questi argomenti: