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Un libro per l'America

Michele Masneri

L’editore Simon & Schuster in vendita. E la catena Barnes & Noble cerca di evitare il fallimento con un manager che si ispira alle boutique di lusso

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Mentre l’America fa riti e novene per de-cialtronizzarsi e ripristinare “l’anima della nazione”, come da claim del maggior candidato democratico, l’anima culturale, cioè i libri, quei manufatti cartacei un tempo in voga, soffrono anche qui. Una delle grandi case editrici, Simon & Schuster, è in vendita; mentre la maggior catena di librerie, Barnes & Noble, cerca di salvarsi dal fallimento con un nuovo manager addirittura inglese.

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Mentre l’America fa riti e novene per de-cialtronizzarsi e ripristinare “l’anima della nazione”, come da claim del maggior candidato democratico, l’anima culturale, cioè i libri, quei manufatti cartacei un tempo in voga, soffrono anche qui. Una delle grandi case editrici, Simon & Schuster, è in vendita; mentre la maggior catena di librerie, Barnes & Noble, cerca di salvarsi dal fallimento con un nuovo manager addirittura inglese.

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“Non hanno a che fare con il video streaming, dunque non sono strategici”, ha detto dei suddetti libri il ceo di Viacom-Cbs, la nuova conglomerata dell’intrattenimento che aveva in pancia appunto Simon & Schuster, l’editore che nei decenni ha fatto la storia delle lettere americane (da Hemingway a Stephen King) e ora finisce sul mercato in cerca di compratori coraggiosi. Il suo fatturato è sceso da 1,3 a 0,8 miliardi l’anno: non è come la crisi dei giornali, ormai polverizzati tranne il New York Times, ma anche i libri non si sentono tanto bene. A dare qualche speranza è l’avventura americana di James Daunt, il libraio che dovrà salvare la decotta catena Barnes & Noble.

 

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Qualche mese fa è passata di mano a quello che normalmente viene considerato il male assoluto, cioè un hedge fund. Il fondo Elliott, lo stesso che sta cercando di spodestare il fondatore di Twitter, insomma uno di quei fondi da Wall Street (il film) con tutto il corollario di avidità da maschilismo tossico. Imprevedibilmente però l’efferato fondo non ha messo a guidare le sue librerie un aguzzino texano bensì un raffinato gentiluomo considerato il salvatore delle librerie britanniche. Achilles James Daunt, figlio di diplomatici, ex banchiere a J.P. Morgan, convertito sulla via editoriale, ha aperto la sua prima Daunt Books nel 1990, creando una piccola catena di squisite librerie indipendenti, e dieci anni dopo si è trovato a che fare non solo col successo della sua catena, ma anche col fiasco dei concorrenti, che si è trovato a dover salvare. In particolare la catena inglese Waterstones, che stava fallendo. Grazie alle doti diplomatiche ha individuato un lettore forte russo, forte anche di liquidità, cui ha fatto comprare la moribonda suddetta catena per 66 milioni, e ne è stato messo a capo. Il russo ne è uscito con un guadagno di 200 milioni, Waterstones è stata risanata, e venduta al fondo Elliot, il quale forse per perversione o senso di colpa per guadagni mal accumulati ora si è comprato anche Barnes & Noble, la più grande libreria americana, un classico delle città statunitensi.

 

Fondata 134 anni fa, “iconica” in film come “C’è posta per te”, ma che adesso sta per fare la fine di Blockbuster: coventrizzata da Amazon, dissanguata con l’idea di far concorrenza al gruppo di Bezos non solo nei libri cartacei ma anche negli ebook, con la creazione di un proprio sistema costato 1 miliardo di dollari (!). Due anni fa ha licenziato un decimo dei suoi dipendenti, e ha record non positivi come il 25 per cento delle rese. Daunt però, che è libraio ma è stato banchiere, soprattutto non è fesso, non si è misurato con una delle forme d’arte più in voga al momento, il lamento della vecchia libreria (maledetta Amazon, cosa ne sarà delle botteghe storiche ecc.). In America peraltro la battaglia è ancora più dura perché Amazon ha una quota di mercato ancora più alta, e ha pure punti vendita fisici, una ventina finora. Le librerie Amazon non spaventano Daunt, tuttavia, perché “non sono vere librerie”, ha detto al Times. “Ci sono pochissimi libri, nessuna idea di selezione, e alla fine il loro obiettivo è farti vivere l’esperienza tecnologica Amazon, farti iscrivere ad Amazon Prime e comprare Alexa, e quest’esperienza tecnologica è decorata con qualche libro. E’ banale”. Inoltre la vera libreria ha un vantaggio, dice Daunt: l’algoritmo attivo, cioè l’acquisto consigliato da un vero libraio, e non in base a ciò che già è stato letto. “Perché l’algoritmo di Amazon è passivo, mentre io esco sempre da una libreria con un libro che non prevedevo. Questo mi fa sentire fortunato, come se avessi fatto qualcosa di virtuoso”.

 

Daunt inoltre depreca i punti vendita di catena classici, mal arredati, polverosi, tutti uguali, tristi ricettacoli di paccottiglia – bottiglie d’acqua, peluche, occhiali da sole e magneti – e la sua ricetta è creare catene che non sembrino catene. Soprattutto che non sembrino supermercati, come quasi tutte oggi. Devono piuttosto sembrare boutique di lusso. E’ infatti un maniaco del dettaglio: si racconta di una lunga sfida con gli architetti aziendali, per decidere l’inclinazione ideale degli scaffali; quattro gradi secondo gli architetti, tre secondo lui, che alla fine l’ha spuntata; perché tre gradi sono “abbastanza perché il libro prenda luce, ma non perché si ribalti”. Detesta il verde “così scuro, così noioso”, e la suddivisione in ordine alfabetico nel reparto di storia, “terribile, perché in questo modo non c’è modo di trovare niente di nuovo”. Nelle sue librerie-boutique vuole vasi con fiori freschi “ma non basta andar giù al negozio all’angolo, devono essere fiori belli”. In alcune c’è anche il bar, dove studenti consumano più elettricità che libri, ma “un giorno diventeranno ricchi e ci ricompenseranno di tutta questa elettricità”, ha detto al New York Times, e a parte le bollette la ricetta ha funzionato, con un fatturato di 500 milioni di dollari e margini del 10 per cento.

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Chissà se a forza di mazzi di fiori ce la farà anche con Barnes & Noble, la più gigantica catena americana, che è più morta che viva, ridotta a 600 punti vendita, mentre 400 sono stati chiusi. Applicherà le sue ricette, tra cui c’è l’abolizione del sistema degli “spazi dedicati”, (cioè l’affitto dei vari punti strategici – vetrine, retrocassa, “novità”, ecc. - per cui le case editrici pagano una specie di pizzo per mettere i loro libri in evidenza). Questo sistema – spiega un agente letterario al Foglio – era mutuato proprio dalla grande distribuzione (i prodotti ad altezza-viso pagano per essere lì), e dava una boccata d’ossigeno alle librerie, nello specifico quasi 40 milioni di dollari l’anno al gruppone inglese da lui risanato. “Fate decidere a noi che libri vendere, e risparmierete”, ha detto alle case editrici scettiche, e in effetti il 20 per cento dei libri che finiva poi nelle rese, con costi bestiali di trasporto per gli editori, è crollato al 4. Abolendo il sistema degli spazi dedicati, il personale poi è più produttivo e contento (vendono libri, danno consigli, e non si limitano a fare i magazzinieri). Certo, non è tutto meraviglioso, i dipendenti protestano perché le paghe continuano a essere basse (anche Sally Rooney ha firmato una petizione), ma lui promette che, se le cose funzioneranno, in America investirà più di 100 milioni su nuove librerie. Magari ricominciando dalla capitale Washington, attualmente sfornita (gli ultimi punti vendita erano stati chiusi cinque anni fa per crisi).

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