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non chiamatela nostalgia

La vocazione ritrovata. Il ritorno del demiurgo Minoli e del suo Mixer

Ginevra Leganza

Per guardare al futuro bisogna tener d'occhio il passato, è il pensiero del volto storico della tv italiana che ritorna in Rai con il suo storico programma: una rielaborazione editoriale in quaranta puntate, per un viaggio negli anni Ottanta e i Novanta

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Metti un pranzo saltato in Rai. Ed ecco: delle due l’una. Può essere l'effetto di una remota congiuntura astrale. Oppure è una commovente, resistente vocazione. Lo sa bene Giovanni Minoli, il demiurgo che ha plasmato la televisione italiana. O se preferite, il genio astuto che ha mixato un’epoca e che perciò dice subito grazie. Prima ancora che ai presenti, ai suoi fidati invisibili collaboratori. A quei tecnici che nei mesi estivi rinunciavano alle colazioni per chiudere in tempo riprese e montaggi.

È successo anche questo mentre si lavorava a “Mixer - vent’anni di televisione”, il viaggio fra gli Ottanta e i Novanta in onda in seconda serata dal 12 gennaio su Rai 3 e dal 18 su Rai Storia.

Incordando tutti quei fili lunghi vent’anni, Giovanni Minoli s’è finanche commosso nel ritrovare una parola che dal servizio pubblico credeva distante: vocazione. Lo racconta in conferenza stampa nella Sala A Rai Radio di Via Asiago. E c’è sì da stupirsi per chi salta il pranzo in quello stesso posto dove i membri del Cda lamentano mense poco ortodosse, giusto lì dove qualcuno denunciava rozzi tacchini insultanti la lobby veg.

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Mentre la tivù di Stato si trasforma in elefantesca Maria Antonietta, in bambinona capricciosa persino in tema di pappe, Minoli coglie cenni di vita. Barlumi di speranza in un piccolo impero alla fine della decadenza. E pensa che per guardare al futuro si debba guardare al passato.

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È questo il senso della rielaborazione editoriale in quaranta puntate. A cominciare dalla prima, in onda giovedì prossimo, dove ci sono i Faccia a faccia del 1980 coi campioni alla sbarra per lo scandalo del calcio scommesse, Paolo Rossi e Bruno Giordano, quelli con Craxi e Pannella, i sondaggi (i primissimi sondaggi, ben prima che la tivù s’ammalasse di noia e sondaggite)… E ancora i racconti del cinema e della musica, da Monica Vitti a Lucio Dalla.

In questa sua operazione da Angelus novus, Minoli sottolinea spesso: non è banale sentire di nuovo “l’anima della Rai”. Ovvero l’anima d’un lavoratore che è “dalla parte del cittadino prima che del consumatore”. E cioè dalla parte di quel paese reale che in centinaia di puntate, dal 1980 al 1998, si sentiva influenzato da politici, letterati, cantautori, attori, cineasti. Tutti pizzicati nell’estremità come guanti e come guanti rivoltati in ogni sentimento, confessati in ogni risentimento. Erano quelli gli influencer che Minoli stesso creava nel corso del racconto-verità. Tantissimi pezzi di storia di una “televisione da conservare”, sua massima e perfettamente riuscita aspirazione. Erano gli Avvocati o le pantere alla Vanoni. O – perché no – i Borges e i Garcìa Marquez per quel pubblico più high-brow.

E chi intervisterebbe, oggi, Minoli? Non lo sa, risponde. E forse neppure gli interessa. Oltretutto l’influencer c’è già, non ha bisogno di lui. E ogni Fedez – più a suo agio con Fazio che accarezza e non pizzica – è piazzista per definizione (altro che “cittadino e non consumatore”). E poi intervistare un mercante di mascara con culo ballerino sarà certo più ostico che parlare a Henry Kissinger: come cavare un ragno dal buco.

Non è un’operazione nostalgia, questa. Eppure – Minoli ammette – oggi quella meraviglia di Mixer sarebbe impossibile. Vuoi perché son cambiati pubblico e conduttori. Vuoi perché son cambiati gli strumenti del comunicare. Quando Minoli scoccava frecce al cuore del presente, arrivavano insieme telecomando e tivù commerciale. E il genio di quel demiurgo fu nel ricordare Voltaire, facendo suo il famoso segreto per annoiare: dire tutto. Minoli comprese di dover essere egli stesso un telecomando: di dover cambiare canale prima che alla tentazione cedesse il telespettatore. E dunque capì che non bisognava dire tutto, ma piuttosto di tutto un po’. (Spiegalo ai piano-sequenzisti d’Instagram che a tratti filmano deiezioni mentre parlano di figli, corna, malattie).

Non è un’operazione nostalgia, questa, ma una bellissima preghiera al cosmo affinché tutto torni. Perché questa cosa qui – dice Minoli alla fine, in disparte, sfiorando le tempie di chi glielo chiede – ha sempre bisogno di pensare. E il pensiero, come il mixer, non lo puoi bloccare, non lo puoi recintare.

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