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Giletti alza il sipario sulla vera natura dei talk-show

Andrea Minuz

Macché intossicare il dibattito: questi programmi sono tv a basso costo con l'unico star system che abbiamo in Italia. E almeno il conduttore di "Non è l'Arena" mette in chiaro che il braccio di silicone o Fabrizio Corona non sono concessioni allo show per alleggerire i ragionamenti. Sono "lo show"

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Con la guerra i talk-show sono tornati sulla cresta dell’onda. Non per gli ascolti, che restano sempre bassi, ma per le vivissime polemiche innescate da ospitate sgangherate e personaggi discutibili, dalle posizioni irricevibili, dalla spettacolarizzazione del dolore e, da ultimo, dai duemila euro a puntata al professor Orsini per partecipare a “#Cartabianca”, sperando almeno la metà siano sul libro paga di Lavrov. Prima che la Rai decidesse di rescindere il contratto. 

Non da ieri, Massimo Giletti è il personaggio che incarna, simboleggia e riassume al meglio un po’ tutte le critiche possibili. Era così in piena pandemia. E’ così con l’Ucraina. “Non è l’Arena” è del resto un po’ il “Domenica Live” dei talk-show, e Giletti una Barbara D’Urso dei maschi. Se una ospita “l’uomo elfo”, il “Ken umano” e la donna con le tette più grandi del mondo, a “Non è l’Arena” sfilano Povia, l’uomo col braccio di silicone, la poliziotta contro il green pass, il guru di “Life 120”, Adriano Panzironi, Cicciolina sui vitalizi, Michelle Ferrari sui benefici del frustino, Red Ronnie sui vaccini, e complottisti, freaks, stregoni, ex brigatisti, avanzi della cronaca di ogni ordine e grado. 

A differenza di molti suoi colleghi, Giletti però ha sempre avuto dei grandi cavalli di battaglia. Delle manie che sfociano nell’ossessione compulsiva. I vitalizi, per esempio, cui ha dedicato un numero incalcolabile di puntate trasformandoli in una saga fantasy; le mafie, rigorosamente al plurale, che ciclicamente tornano in scaletta, soprattutto quando “non se ne parla più”, come dice Giletti; oppure l’epica di Fabrizio Corona, caso umano, cattivo maestro, personaggio scomodo, con cui forse, sotto sotto, Giletti si identifica parecchio. Il trasferimento armi e bagagli a Odessa sembra una mossa un po’ disperata, il tentativo di farsi prendere sul serio, di dimostrare a tutti che l’inchiesta, il giornalismo, la guerra, per lui “non sono scene viste in tv” (copyright Tozzi-Morandi-Ruggeri). Viene fuori una puntata davvero surreale, con gli ospiti in studio e lui sul monitor, a Odessa, tra i sacchi di sabbia, ma davanti a un albergo. Più simile a Carlo Conti col Covid che conduceva “Tale e quale show” da casa che a un reportage di guerra. 

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Tutti a dargli addosso a Giletti. E invece è l’unico, bisogna dirlo, che alza il sipario sul gran spettacolo e sul sistema dei talk-show. Sistema in cui Giletti ha scelto di recitare il ruolo del “personaggio scomodo” (di nuovo, Corona), così come Floris fa il professorino, Bianca Berlinguer la maestrina e Mario Giordano una specie di predicatore americano matto. Le sparate supersoniche di Dibba a “DiMartedì”, i siparietti di Mauro Corona a “#Cartabianca”, le fughe in monopattino di Giordano e tutto il resto, non sono concessioni allo show messe lì per alleggerire il dibattito, l’analisi, il ragionamento. Sono “lo show” (e le uniche punte di share del programma). 

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Ecco perché i talk-show andrebbero presi per quello che sono: televisione a basso costo fatta con l’unico star-system che abbiamo, la politica e i politici italiani, seguiti poi dal caravanserraglio di opinionisti da battaglia pronti a tutto. Accusarli di intossicare il dibattito italiano è un po’ come incolpare “Gomorra” o “Suburra” di promuovere la cultura della criminalità. E dovremmo semmai ringraziarli, “Non è l’Arena” in testa, per la facilità con cui ci fanno sentire intelligenti.

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