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Family Food Fight ci riporta in lockdown, quando l'unica gioia era fare la pizza in casa

Il programma Sky è la celebrazione di tradizioni comuni, il trionfo della famiglia. Perché mai dovremmo interessarci ancora a quel che succede tra quattro mura?

Claudia Casiraghi

Benché precedente la pandemia, il format si regge su un copione tristemente simile a quello che ciascun italiano ha cercato di scrivere la scorsa primavera, quando l’unica meta possibile era il supermercato, l’unico desiderio proibito il lievito fresco

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Il ricambio è veloce. X Factor, poi MasterChef, e adesso Family Food Fight: musica e cucina, in un alternarsi isterico, che dovrebbe produrre evasione, ma crea tormento. Perché alla velocità di riproduzione dell’intrattenimento televisivo, è stata fatta corrispondere un’immagine meticolosamente fedele della realtà. E, così, dove non è arrivata la pandemia, è arrivato lo spettacolo.

  

X Factor ha fatto riecheggiare le urla dei cantanti in un teatro vuoto, dove i pochi applausi fanno eco tra i sedili vuoti. MasterChef ha rinunciato alle esterne, ai viaggi. I casting, i primi, si sono svolti su Zoom. Pochi concorrenti sono stati ammessi alle selezioni in presenza, i minuscoli piatti sezionati così da cavarne tre assaggini, uno per giudice, e arginare i rischi di un’eccessiva promiscuità. Nessuno, allora, ha nominato il Coronavirus, ma il suo fantasma ha aleggiato su cucine e teatri, presenza eterna – dove "presenza" è un eufemismo e il termine adatto è "incubo". Lo zelo, cioè la testarda volontà di portare avanti il palinsesto come se nulla fosse, non è bastato ad alleggerire gli animi, cui Family Food Fight potrebbe dare un ultimo e più pesante colpo di grazia.

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Lo show, che Sky ha deciso dover sostituire MasterChef nella serata del giovedì, con un debutto fissato alle 21.15 dell’11 marzo, sulla carta non avrebbe niente che non va. Ma in un momento storico in cui ogni più basilare certezza è stata sovvertita, il condizionale è d’obbligo. Specie, per un programma che, nei fatti, costringe lo spettatore a vivere delle stesse restrizioni asfittiche che gli sono imposte dalla pandemia. Family Food Fight, gara di cucina e tradizione, prevede che sei famiglie si sfidino l’una con l’altra, ciascuna stretta nel micromondo delimitato da fornelli e bancone, dove, fatta eccezione per la variabile giudici, un vento già-visto spira lento e inesorabile. Il format, benché precedente la pandemia, si regge, infatti, su un copione tristemente simile a quello che ciascuna famiglia italiana ha cercato di scrivere durante il primo lockdown, quando l’unica meta possibile era il supermercato, l’unico desiderio proibito il lievito fresco.

     

   

Family Food Fight è la celebrazione di tradizioni comuni, di una cucina intesa come unione. È il trionfo della famiglia, in un’era in cui la famiglia, però, è tutto ciò che ci è permesso avere, farmaco palliativo che l’uso e l’abuso ha privato di ogni potere. Perché mai, dunque, dovremmo interessarci ancora a quel che succede tra mariti e mogli, alle conversazioni ormai piatte che si consumano tra quattro mura, le stesse da un anno? Perché mai dovremmo aver voglia di cucinare, quando la cucina è stato il cardine di una retorica che il tempo ha rivelato posticcia? "Ne usciremo migliori", si diceva, "tutti pasticceri e pizzaioli". Ma il Coronavirus e il protrarsi delle misure restrittive, ha svelato il nostro peccato di ingenuità. Non ne siamo usciti migliori. Non siamo diventati chef. Semplicemente, non ne siamo ancora usciti.

 

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Family Food Fight, nel quadro di un’Italia – un mondo – prigioniera delle proprie case, ha un che di perverso. Ma, forse, è solo un equivoco. Non ci si è capiti. E non solo su Sky. Real Time, che a dicembre ha mandato in onda lo spin-off familiare di Bake Off, Dolci sotto un tetto, ha deciso di rincarare la dose: un altro spin-off familiare. Cortesie per gli ospiti, questa volta. Il programma, in onda dal 26 aprile prossimo, è la storia di tavole apparecchiate con cura, di cene e pranzi e regalini, di preparazioni in famiglia. In famiglia, ancora, davanti ad un focolare domestico che è tutto quel che ci è dato vedere. E c’è gratitudine nella possibilità di stringersi ai propri cari, c’è davvero. Ma di contro c’è la richiesta - salvifica, umana, assolutamente fisiologica - di poter vedere altro, vivere altro. Almeno in televisione, l’unico luogo in cui l’evasione può ancora (e perciò deve) essere un diritto inalienabile.

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