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X Factor sta vicino all'Europa e fa nuove proposte

Simonetta Sciandivasci

Cominciano i live, i concorrenti portano già i loro inediti, tutti ascoltabili tranne uno, quello di Naip, rispetto al quale preferiamo tre ore di dibattito parlamentare su Radio Radicale

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Vedete, è come per la mozzarella, specie se di bufala, come per il cannolo, o il panzerotto, o il culatello: puoi mangiarne di buonissimi, talvolta persino eccezionali, più o meno dappertutto nel mondo, meno che in Siberia e in qualche altro luogo splendidamente ostile all’essere umano, ma da nessuna parte avranno il gusto che hanno a casa loro. Il venerato panzerotto di Luini, a Milano, non vale un tredicesimo di un qualsiasi panzerotto di Bari Vecchia. Sarà l’aria, sarà l’acqua, saranno i batteri. Per X Factor è la stessa cosa: ieri sera è tornato a Milano, perché sono cominciati i live, e tutte le puntate precedenti a Roma dove Roma s’era sentita e aveva allentato e abbracciato Milano, sono svanite, evaporate, Bye Bye Bombay. Il format, almeno quello italiano, è nato e cresciuto a Milano e quindi ieri è rientrato a casa dopo un campeggio a Cinecittà, lavato via con una doccia veloce. È stato chiaro sin dalla sigla iniziale, una specie di cerimonia di apertura delle Olimpiadi in Cina, dove tutto era perfetto e serio e scintillante e internazionale, e naturalmente un tantino esagerato, con i samurai (erano samurai?) e Cattelan 50 percento crooner e 50 percento Justin Timberlake nel 2003, e i concorrenti smaglianti e fichi come i Five o una qualsiasi boy band non italiana quando c’erano le boy band. A Roma non ce l’avrebbero fatta: non così, almeno. A Roma avrebbero avuto problemi a trovare un palco adatto, figurarsi il resto. Comunque. C’era il pubblico in carne e ossa, non di cartone, ed era gente di Milano, che significa gente di tutta Italia, e questo è stato bello, capiamo l’emozione, e chissà se tra due settimane sarà ancora così, se potranno ancora essere ammessi esseri umani sugli spalti (e voi che vi lamentate di non poter programmare un matrimonio: ricordatevi che c’è chi non può programmare un programma tv, che è un casino e sembra una barzelletta già solamente a scriverlo). 

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Vedete, è come per la mozzarella, specie se di bufala, come per il cannolo, o il panzerotto, o il culatello: puoi mangiarne di buonissimi, talvolta persino eccezionali, più o meno dappertutto nel mondo, meno che in Siberia e in qualche altro luogo splendidamente ostile all’essere umano, ma da nessuna parte avranno il gusto che hanno a casa loro. Il venerato panzerotto di Luini, a Milano, non vale un tredicesimo di un qualsiasi panzerotto di Bari Vecchia. Sarà l’aria, sarà l’acqua, saranno i batteri. Per X Factor è la stessa cosa: ieri sera è tornato a Milano, perché sono cominciati i live, e tutte le puntate precedenti a Roma dove Roma s’era sentita e aveva allentato e abbracciato Milano, sono svanite, evaporate, Bye Bye Bombay. Il format, almeno quello italiano, è nato e cresciuto a Milano e quindi ieri è rientrato a casa dopo un campeggio a Cinecittà, lavato via con una doccia veloce. È stato chiaro sin dalla sigla iniziale, una specie di cerimonia di apertura delle Olimpiadi in Cina, dove tutto era perfetto e serio e scintillante e internazionale, e naturalmente un tantino esagerato, con i samurai (erano samurai?) e Cattelan 50 percento crooner e 50 percento Justin Timberlake nel 2003, e i concorrenti smaglianti e fichi come i Five o una qualsiasi boy band non italiana quando c’erano le boy band. A Roma non ce l’avrebbero fatta: non così, almeno. A Roma avrebbero avuto problemi a trovare un palco adatto, figurarsi il resto. Comunque. C’era il pubblico in carne e ossa, non di cartone, ed era gente di Milano, che significa gente di tutta Italia, e questo è stato bello, capiamo l’emozione, e chissà se tra due settimane sarà ancora così, se potranno ancora essere ammessi esseri umani sugli spalti (e voi che vi lamentate di non poter programmare un matrimonio: ricordatevi che c’è chi non può programmare un programma tv, che è un casino e sembra una barzelletta già solamente a scriverlo). 

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Diamo una griglia per chi si fosse perso le puntate precedenti: ci sono quattro giudici, tre maschi e una signora, Emma Marrone, che guida i giovani maschi; Mika guida i maturi; Manuel Agnelli guida le band; Hell Raton guida le giovani femmine. I concorrenti sono tutti bravi, guai a dir loro che non lo sono o che sbagliano qualcosa o che potrebbero far meglio: c’è sempre qualcuno che controbatte in loro difesa e, quando non c’è, ci pensano loro a rispondere che forse sei tu che non hai capito bene, che comunque sono disposti a non dormire e mangiare solamente scorpioni per i prossimi due mesi pur di imparare, e lo dicono con l’aria di chi sta per fare ricorso al Tar. I concorrenti sono tutti bravi, qualcuno è persino eccezionale, ma di inediti altrettanto eccezionali, ieri sera, non se n’è sentito nessuno, almeno a modesto parere di questa rubrichina. La bella novità di quest’anno, unitamente al fatto che il programma è diventato più godibile e finalmente si sentono gli autori, e la novecentesca arte della scrittura televisiva abbatte il reality show, è che i concorrenti cominciano i live con i loro inediti. È una bella sfida, un bel rischio, e così avrebbe dovuto essere sempre, ma pare che sia stato così soltanto quest’anno perché tutti avevano già inediti molto buoni, quasi pronti. Vero, sono tutti inediti ben confezionati, pensati, eccetera eccetera, come i racconti di fine anno della Scuola Holden, scritti con maestria. Però qua noi vogliamo il talento (l’X Factor), vogliamo il volo sopra al burrone e la caduta nell’abisso, vogliamo il fremito, e invece non ce n’è. Però ci sono alcune validissime promesse. Casa di Lego, piccina, coi capelli turchese e gli occhi chiari e la pelle da neonata, e la voce incredibile, e soprattutto molta intelligenza in tutto quello che dice: ha scritto un pezzo niente male, e ha l’età in cui deve ancora giocarsi tutto. Ieri sera ha detto che le dà fastidio quando le dicono che la musica è il suo hobby perché “la musica è anche il resto del mio tempo” (che frase!) e che “la musica va servita, e io voglio essere musica”. Cambiatele il nome (Casa di Lego, dai, nemmeno un horror su Italia Uno negli anni Novanta arrivava a chiamarsi così male). 

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Il nostro meno amato è il temibile Naip, acronimo di Nessun artista in particolare, e dal momento che ha deciso di chiamarsi così non è chiaro perché non se ne sia rimasto a casa, a fare una vita come tante altre, a dire cose da bar al bar, a vestire anonime giacche di nessuna marca in particolare. Ma il signore, che è guidato da Mika, che è il più intenzionato a fare il giudice e non il coach di autostima, si sente tutt’altro che uno qualunque e, con l’acribia dei liceali all’ultimo anno di classico, scrive canzoni con il preciso intento di farsi dire la più abusata delle parole del vocabolario, ovverosia “geniale!”. E ci riesce. Dopodiché siamo qui curiosi di sapere chi sarebbe in grado di ascoltare, per dieci minuti di fila, il signor Naip che suona. Sarà che siamo di bocca buona, e vecchi d’orgoglio, ci commuove il tuo seno e ci piacciono i Beatles. 

 

Naip è una truffa, e il paese che ha creduto a Wanna Marchi lo ha premiato al televoto, non avendo forse capito che ciò significherà che la sua orrida canzone, dove lui strippa e canta con la voce all’elio che c’è “un sacco di gente seguita da un sacco di gente seguita da un sacco di gente seguita da un sacco di gente”, dovremo sorbircela in radio, e così noi da domani per non correre questo rischio non ci muoveremo dalle frequenze di Radio Radicale – meglio tre ore di dibattito parlamentare che cinque minuti di Naip, che secondo Manuel Agnelli è “dadaismo e Bertold Brecht” (sì, certo, e pure Ionesco, e Van Gogh, e Demetrio Stratos, e Bach, e levategli il vino ad Agnelli, dai). 

 

Bravino il Francesco di Emma, che però è bene canti e non parli, visto che quando parla dice cose come “che noia sarebbe se fossimo tutti uguali, la diversità è bella”.  Se la sono quasi rischiata i Manitoba, la coppia che sta insieme da età prescolare, con lei che sembra Irene Grandi e lui che sembra un Kraftwerk lavato con la candeggina – riportiamo, trovandoci pienamente d’accordo, il giudizio di Tito Faraci, che iersera ha twittato, durante la di loro esibizione: “Se mi legano a una sedia e mi fanno sentire questi qui, io dico i nomi di tutti i miei complici”. 

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Manuel Agnelli quest’anno parla con enfasi e dice che X Factor sta facendo la rivoluzione e presenta i magnifici Little Piece of Marmelade, che picchiano e urlano e sono bellissimi ma hanno un pezzo che non è granché e poi i Melancholia, che hanno una cantante magnetica che sussume Tom Yorke e Sinéad O’ Connor e un inedito bello, bellissimo, ma tiepido.  Menzione sex symbol per il diciottenne bolognese con un nome da siciliano, che canta “Bonsai”, e fa rimare “non lo sai” con “patatine Pai” e anche se dice scempiaggini che lo invecchiano come “io sono un regaz”, ieri sera è stato bravissimo. 

 

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Il pezzo di Vergo, “Bomba”, è il solo che ascolteremo per tutto il weekend. Poi basta. Ospite della serata è stato Ghali, che aveva qualcosa di spaventosamente identico al Marylin Manson di “Mechanical Animals” (era il 1998!) e ha annunciato che la settimana prossima arriverà il suo nuovo lavoro, i cui proventi saranno interamente devoluti ai lavoratori dello spettacolo – dove non arriva il ministro Franceschini, arriva Ghali. A giovedì prossimo, fate i bravi e siate mostri da casa, questa sera. 

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