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Terrace House è il reality ammazza trash

Giulia Pompili

È cominciato Temptation Island, l'ultimo stadio dello sbrago in tv. Ma su Netflix la serie più vista è giapponese. Non succede mai nulla, se non che sei ragazzi rendono appassionante il quotidiano

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“Che fai, Oronzo, nella vita?”, chiede lei. “La bella vita, accaventiquattro al mare”, risponde lui. Oronzo è uno dei protagonisti dell’ultima stagione di “Temptation Island”, il programma simbolo del trash italiano che è cominciato lunedì scorso su Canale 5 con il 20 per cento di share. Un successone. Il gioco ruota tutto intorno alla gelosia, alle provocazioni subìte dalle coppie, alle corna, ma soprattutto è una vetrina che mette in mostra l’ambizione dei concorrenti di rifarsi una vita da personaggi pubblici. “Sono tutti pieni di convinzioni assurde”, ha scritto giorni fa Manuel Peruzzo sul foglio.it, “che la loro storia sia interessante, che il loro amore sia da mettere alla prova quando basterebbe un filo di auto riflessività, e di essere i più belli del reame”. Le coppie sono tutte sopra le righe, senza nemmeno uno straccio di copione – miracoli del casting: “Oronzo s’è presentato in modo crudelmente preciso”, continua Peruzzo, “Ciao sono Oronzo ho 29 anni e vivo felice in questa casa coi miei genitori. Dopo dieci anni di fidanzamento non vuole sposarla perché sta bene lì dov’è. Valentina ci dice che lui in passato ‘ha sbagliato’, cioè l’ha tradita, e lei ha perdonato sentendosi Hillary Clinton che non abbandona il suo uomo. Oronzo the Mentalist che quando dice ‘io mi infilo subito nel cervello dell’altra” quella pensa ‘ma chi è ‘sto pirla?’”. La vera tentazione è quella di essere ammirati, famosi, cercati, cliccati su internet, quando il Grande Fratello, sin dalla sua prima edizione, ci ha insegnato che difficilmente qualcuno si immedesima, il pubblico quasi sempre pensa di essere migliore, e gode per questo. Ma c’è una via d’uscita. C’è un manipolo di valorosi che sta combattendo una guerra contro quel venti per cento di share della tv generalista, l’unico hangover possibile dopo la sbronza collettiva da trash.

   

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La produzione mette a disposizione soltanto una casa e un’automobile: non ci sono copioni, non ci sono regole

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Immaginate sei persone, tre ragazze e tre ragazzi, che si ritrovano a vivere nella stessa casa per un determinato periodo di tempo. Lo spettatore li guarda interagire. La produzione mette a disposizione soltanto una casa (una casa enorme, a dire il vero) e un’automobile: non ci sono copioni, non ci sono regole. Insomma, le premesse di “Terrace House” sono piuttosto semplici. Ricordano quelle del “Grande Fratello”, ma con il format olandese ispirato al personaggio di “1984” di Orwell, in realtà, questo programma non c’entra niente. I media anglofoni internazionali hanno speso decine di migliaia di caratteri per tentare una definizione azzeccata di “Terrace House”, senza trovarne una. Perché qui non c’è spettacolo, non ci sono prove da superare, non c’è un montepremi né un vincitore finale. Non ci sono delle nomination da fare, delle scelte da prendere. Niente di tutto quell’agonismo, di quella morbosità delle telecamere tipica dei reality show contemporanei, dove l’individuo rappresenta sé stesso in versione estremizzata, ridicola. Qui ci sono solo sei giovani coinquilini che non si erano mai visti prima, costretti dalle circostanze a condividere una cucina, la sala della televisione, e i propri racconti serali. Possono uscire, incontrare gli amici, usare il cellulare e i social network. Fanno la vita di sempre, ma insieme.

   

Qui tutti parlano a bassa voce. La parola che sentirete dire più spesso è “sugoi”, che vuol dire “bello”, “fico”. Mai sgarbato né volgare

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L’altra caratteristica fondamentale di “Terrace House” è che è una serie tv giapponese. La prima era stata prodotta dalla Fuji Television nel 2012, per otto stagioni. Poi, nel 2015, è arrivato Netflix e tutto è cambiato: il colosso dello streaming ha perfezionato la location – che adesso varia di stagione in stagione, da Tokyo a Nagano alle Hawaii – e poi ha messo i sottotitoli al programma, rendendolo accessibile anche a chi non parla la lingua nipponica. Il risultato è stato sorprendente. Niente di così tanto giapponese, ovvero legato alla società e alla cultura giapponese, poteva avere un tale successo. Lo spettatore occidentale, privo di una conoscenza anche superficiale dei rapporti tra giovani del Sol levante, si troverà un po’ appeso in un universo parallelo e incomprensibile. Perché qui tutti parlano a bassa voce – nonostante la parola che sentirete dire più spesso è “sugoi”, che vuol dire “bello”, “fico”, ma non è sgarbato e mai volgare.

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A “Terrace House” le litigate sono delle serie discussioni fatte al tavolino, come in una famiglia perbene, e prima o poi c’è qualcuno che chiude la conversazione dicendo “wakarimashita”, “ho capito”, con un tono solenne e quasi di pentimento. Qui non ci sono wannabe tronisti o aspiranti conduttori televisivi: ci sono uomini che si fanno domande, che vogliono migliorare, che si struggono prima di chiedere scusa a una donna, e poi lo fanno in “dogeza”, cioè in ginocchio e portando la fronte a toccare il pavimento. Uomini che si preoccupano di essere concreti, autosufficienti, responsabili, donne che sorridono con la mano davanti alla bocca prima di entrare in confidenza con gli altri coinquilini e poi condividono sogni sportivi, professionali, familiari. “Terrace House”, proprio come “Temptation Island”, crea dipendenza. Ma è la dipendenza dalla normalità, dopo tanta anormalità a cui la televisione ci ha abituati, tra liti nei talk show e populismo da reality show, mentre qualcuno ci sussurrava all’orecchio che essere ignoranti era un valore da rivendicare.

    

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“Terrace House” crea dipendenza. Una dipendenza dalla normalità, dopo tanta anormalità a cui la televisione ci ha abituati

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“Terrace House” è stato definito “il futuro di Netflix”, altre volte la “risposta educata a Love Island” – altro genere di reality, questa volta inglese, in cui i partecipanti per restare sull’isola devono accoppiarsi, letteralmente. Troy Patterson sul New Yorker a marzo ha scritto del “geniale voyeurismo di Terrace House”. La chiave per capire la differenza tra noi e loro è forse il karaoke. Se c’è un libro che oggi chi volesse conoscere il Giappone dovrebbe leggere è “Iro Iro” (DeA Planeta, 252 pp., 16 euro), l’ultimo di Giorgio Amitrano, tra i più importanti orientalisti in Italia. Più che un saggio sulla cultura giapponese è un lungo flusso di coscienza dal passo divulgativo, in cui Amitrano consegna al lettore gli strumenti necessari per decifrare la realtà nipponica. Uno dei capitoli più interessanti è senza dubbio quello dedicato al karaoke: “Chi si accosta per la prima volta al Giappone attraverso lo studio e le letture, quando ha l’opportunità di viverci sente la necessità di attraversare quel muro invisibile che separa la teoria dalla pratica e di immergersi nella vita vera. Ciò può accadere in molti modi. Uno di questi è il karaoke”.

   

C’è tutta un’etichetta legata al karaoke, è un rito sociale con le sue regole, che vanno rispettate anche se si è ubriachi. Amitrano spiega: “Non è gradito che ci si unisca all’esibizione di un altro, se non su espresso invito […] Altra regola implicita è che nessuno deve prevaricare sugli altri […]. Per non annoiare, nessuno canta canzoni già eseguite. Ognuno ascolta gli altri e applaude comunque. Si incoraggiano gli incerti, si tollerano gli stonati”, eccetera. “Karaoke” è una parola giapponese, ma ormai è compresa ovunque, soprattutto in Asia dove è una forma di intrattenimento incredibilmente diffusa. “In Italia tuttavia, per ragioni che non mi sono del tutto chiare, ha attecchito meno che altrove. Lanciato da una trasmissione televisiva agli inizi degli anni Novanta e presentato da un Fiorello ancora esordiente, il karaoke all’italiana aveva in comune con il prototipo il fatto che i cantanti (anche in questo caso dilettanti) si esibivano su una base registrata, ma qui lo facevano nelle piazze di varie città, quindi davanti a una folla di persone. Il successo del programma portò all’apertura di locali di karaoke, e alcuni club e ristoranti si dotarono delle apparecchiature per far cantare i clienti, ma in Italia questo genere non è mai davvero decollato. Una delle ragioni potrebbe essere che lo spirito giapponese che ne è alla base, e che si fonda sul rispetto delle dinamiche di gruppo più che sui desideri del singolo, qui non è mai arrivato”. L’individualismo supera ogni aspettativa, in occidente. Ognuno vuole essere protagonista – che sia la serata karaoke o il reality show. In “Terrace House” no, si gioca, si vive insieme.

    

Netflix carica sulla piattaforma una nuova puntata ogni settimana, in contemporanea con Fuji Tv. Un’ora di programma, intervallato almeno un paio di volte, all’inizio e alla fine, dall’intervento dei commentatori in studio: sei garbati presentatori adulti che non fanno spettacolo, ma tentano di spiegare ogni mossa e ogni decisione dei ragazzi, come si farebbe di una serie tv che si sta guardando o di un libro che si sta leggendo. Da dicembre scorso sta andando in onda “Terrace House: Opening New Doors”, girato nei dintorni della città di Karuizawa, nella prefettura di Nagano, in mezzo alle meravigliose Alpi giapponesi. Molta natura, impianti sciistici e onsen, le terme tradizionali, una location completamente diversa da quella dello scorso anno, quando la produzione aveva puntato sul sole, le spiagge e la vita notturna delle Hawaii. Eppure, anche quando l’ambientazione sembra più vicina all’ultimo “Mtv Super Shore” girato a Rimini, la regia, la fotografia e il suono di “Terrace House” – curati fino all’estremo dettaglio, con dei colori vividi, senza mai un indugio sulle lacrime o sull’erotico, con tantissimi silenzi per dare spazio alle immagini, senza mai un riempitivo fuori posto – fanno sembrare la serie un documentario sull’evoluzionismo piuttosto che un reality show.

  

   

La prima puntata di ogni stagione è sempre la più interessante: immaginate sei sconosciuti in una sala d’attesa: “Posso sedermi qui? Mi fa molto piacere conoscervi”, dice Ami Komuro, ventuno anni, ai suoi neo-coinquilini. Nessuna risatina, nessun urletto, Ami resta seduta composta sul sofà con le mani sulle ginocchia. Solo dopo un po’ si accorge dell’enorme piscina di cui è dotata la casa. Diventerà una delle protagoniste di questa stagione. L’altro personaggio si chiama Yuudai Arai, vent’anni. Lui pure, come l’Oronzo di cui sopra, si definisce un fannullone buono a nulla, ma non lo dice con aria celebrativa, anzi: “Ero a Tokyo, da solo, senza un lavoro, era normale che prima o poi finissi i soldi. Ho perfino usato la carta di credito di mio padre senza permesso”. “Nooo, sul serio?”, reagiscono gli altri.

 

Gli argomenti di conversazione nella casa di “Terrace House” sono lo specchio della società giapponese, dove l’individuo è caricato di responsabilità sin da piccolo e chi deraglia è considerato un buono a nulla. Più che di soldi parlano di lavoro, lavoro che contribuisce alla realizzazione personale. E poi c’è l’amore, naturalmente, e la difficoltà dei rapporti umani in una società rigida e piena di regole come quella giapponese. Secondo i dati pubblicati nel 2016 dall’Istituto per la Popolazione e la sicurezza sociale, su un campione di oltre ottomila persone, il 70 per cento degli uomini e il 60 per cento delle donne giapponesi non ha un partner sessuale. Il 42 per cento degli uomini e il 44,2 per cento delle donne intervistate non ha mai avuto un rapporto sessuale. Il 30 per cento degli uomini e il 26 per cento delle donne non pensa nemmeno di volerlo nel breve periodo.

 

La relazione più commentata è quella tra Yuudai e Ami. “E’ stato cresciuto dal padre, per questo forse non capisce le donne”, dice You

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Negli anni tutte queste percentuali, nel paese con il più basso tasso di natalità, stanno aumentando, e secondo vari esperti il problema non è soltanto che fare i figli costa, è complicato e difficile, ma pure che i giovani giapponesi faticano a realizzarsi all’interno di una relazione. Il governo si è posto il problema, e le autorità locali organizzano giornate di dating per single, dove si promuove la socializzazione. In questo senso, “Terrace House” è un esempio perfetto, un modello da seguire. “E’ stato cresciuto dal padre, per questo forse non capisce le donne”, dice You, attrice e conduttrice, da studio. E l’altra, Reina Triendl, interviene: “Gli uomini che hanno sorelle infatti sono diversi”.

 

La relazione più commentata finora è stata quella tra Yuudai e Ami, due ventenni incapaci di incontrarsi perché lui è un “fannullone buono a nulla”, che tutti criticano perché arrogante: “Nella vita vorresti fare il cuoco, ma allora perché non stai tutto il giorno ai fornelli?”. “Ma io studio sui libri”, dice lui, prima di fare il giro dei ristoranti con curriculum in mano e trovarsi un lavoro alla trattoria italiana “Riposo” di Karuizawa (ad averceli, fannulloni così). La storia della carta di credito del padre, in particolare, è oggetto di ore di discussioni. Perfino fuori dalla casa, online, la gente ha condannato il comportamento del giovane Yuudai: “Non dovresti usare la carta di credito di tuo padre, dovresti comprare delle cose che puoi permetterti”, gli dice Mizuki Haruta, ventisei anni, scrittrice freelance, subito prima di mettersi a piangere. Lacrime perfino con Nakamura Takayuki, snowboarder di trentadue anni che sin dalla prima puntata ha adottato Yuudai come il suo “kohai”, che in giapponese è una specie di compagno più giovane e prediletto. Lacrime quando Yuudai capisce che deve lavorare per essere una persona migliore: “E’ positivo che tu l’abbia capito a questa età. Anche io mi impegnerò. Coraggio”. “E’ un tema nuovo, la ricerca d’indipendenza, qui a Terrace House”, dicono da studio. Tutti, anche i vecchi concorrenti, oggi fanno una vita normale, lavorano, nessuno ha pensato di mollare tutto per diventare un “influencer”.

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