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Con la cura di Musk, Twitter zittirebbe subito il "free speech" della Borsa

Giuseppe De Filippi

Il miliardario vorrebbe trasformare il social delle "chattering classes" in una società non quotata, cioè un ente all'italiana con la commissione di vigilanza. Non ha capito che gli azionisti fungono da spia per una libertà di espressione che non sia preconfezionata e calata dall'alto

Il primo atto del piano di Elon Musk per ravvivare e liberare Twitter consisterebbe nel portarlo via da Wall Street, trasformandolo, a suon di soldi, in una società non quotata. Il primo free speech che verrebbe azzittito in questo modo è quello espresso ogni minuto da chi compra o vende le azioni dell’unico social che è anche sociale all’italiana, inteso come luogo delle istanze sociali, tra un collettivo anni Settanta e un’assemblea di fabbrica, tra una seduta di analisi collettiva e uno sfogatoio delle frustrazioni o una rassegna di intelligenza, magari un po’ sprecata, o di buona volontà. La quotazione di Twitter, esposta alle valutazioni del mercato, era un modo, rozzissimo e discutibilissimo, ma funzionante, per stimare continuamente il tasso di interesse, cioè di curiosità, per il flusso di coscienza social (o sociale) che ne forma il prodotto centrale.

Per capirci: immaginate un’invasione di gattini e di tramonti da Facebook su Twitter. La felina tenerezza sbruffona e la tremenda ripetitività del sole sulla linea dell’orizzonte stroncherebbero la curiosità del pubblico e la Borsa ne prenderebbe subito atto. Buongiornissimo caffè, e via col crollo del titolo. Ma Musk vorrebbe spegnere il cruscotto spia della Borsa, quello che, per dirne una, fece segnare un meno 12 per cento al valore del titolo per l’esclusione perpetua di Donald Trump dal cinguettismo. Il blocco degli orridi e illegali tweet trumpiani venne deciso giustamente, per l’uso intimidatorio e contrario a diverse regole della convivenza politica (e anche a regole specifiche dei mercati finanziari), ma quella decisione, sfidando la banale accusa di censura (ma de che?), è stata utile per poter valutare il peso di un mattatore come Trump, dei suoi adepti e degli altri guardoni, grazie alla reazione degli investitori. 

Perché un Twitter fuori dalla Borsa diventerebbe, con la cura di Musk, una specie di ente all’italiana, una fondazione, un istituto. Vabbè, ci siamo capiti, diventerebbe una specie di quella roba lì, con la commissione di vigilanza, di nomina muskiana ma sempre commissione di vigilanza, e gli spazi contingentati, magari pure la par condicio. Sì, ci vorrebbe il solito board molto qualificato cui affidare le scelte sull’ammissibilità di temi, interpretazioni, immagini. E dopo una settimana starebbero a litigare, per tutto ciò che è indecidibile. Ci si andrebbe a impelagare nella realizzazione dall’alto, per volere della direzione generale, di cose orrende come le operazioni di cancel culture. O magari nel blocco di quelle operazioni. Ma qui non si tratta di fare il vuoto elogio della libertà di espressione o la solita tirata contro la censura: per combattere la cancel culture va capito perché e in che modo ha tratto vantaggio in modo preponderante da uno strumento come Twitter, per la sua velocità, perché facilitava l’identificazione dei bersagli (intellettuali, personaggi pubblici) e consentiva di colpirli con poche parole, ripetute goebbelsianamente. Ma la partita è meglio giocarla in campo aperto. 

L’ondata cancel, che ora dà segni di risacca, ha comunque portato pepe nel mondo twittarolo. Sull’indignazione permanente e sempre correttissima si è giocato, se ne è scritto, se ne è riso. Ha funzionato come nella tecnica, sì un po’ squallida, degli autori televisivi, ma ora che appunto l’onda si allunga e perde energia, è meglio continuare a lasciarla scorrere, fino a esaurimento. Il fatto è che i ricchi, e Musk è il più ricco che ci sia in giro, amano l’editoria e a essa servono, ma appena cominciano a prendere decisioni operative, la distruggono. Non perché non siano bravi, ma perché sono troppo bravi e vogliono fare troppe cose con un solo strumento. Musk ama il futuro e vuole risarcire i pensatori e sperimentatori coraggiosi, ma non sa (avrebbe bisogno di un paio di mesi in Italia) dove si va a finire quando si tenta di mettere le cose a posto a colpi di pluralismo predeterminato, di libertà preconfezionata, di ribellismo pronto da indossare. 

A lui forse piace quel piccolo equivoco gioco di parole degno dei primi gradi di apprendimento dell’inglese per noi italiani, sul free speech. Perché probabilmente è attratto più dalla gratuità che dalla libertà del discorso. Comprando Twitter diventerebbe, a gratis come si dice a Roma, editore di un esercito mondiale di battutisti, epigrammisti, compilatori, divulgatori, giornalisti tout court, cronisti rapidissimi, meticolosissimi correttori di bozze e confutatori di fake news. Diventerebbe il tenutario del bordello in cui si esibiscono le chattering classes per farsi guardare e ascoltare, gratuitamente, mentre conversano, a condizione che gli osservatori non si imbuchino, a pena di imbarazzo, nello scambio di battute. O dove presidenti e ministri si scambiano ossequi o minacce, come in questi giorni di guerra molto twittata. Il giochino ha funzionato, un po’ per caso (come si raccontava qualche giorno fa sul Foglio), prenderlo in mano per brandirlo come un’arma editoriale, mentre è qualcosa libero, gratuito e sottilissimo, sarebbe come fare il pieno di gasolio su una Tesla.

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