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Le newsletter sono un bel rifugio ma non basta. Il caso Substack

Francesco Oggiano

Le firme che lasciano le redazioni per coltivare i propri contenuti e inviarli direttamente ai lettori via email sono tante e celebri. Ma per sopravvivere ci vuole un modello di business (un editore!)

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L’ultimo è stato Glenn Greenwald, Premio Pulitzer: s’è licenziato. Ha lasciato il suo Intercept e si è buttato sulla sua newsletter. Qualche settimana prima di lui, Casey Newton, il Leo Messi del giornalismo tech: ha lasciato dopo sette anni The Verge e si è creato la sua Platformer. Racconterà il mondo della Silicon Valley e costerà dieci dollari al mese. Prima ancora Luke O’Neil, dimessosi dal Boston Globe dopo essersi visto cancellato un editoriale. “Al Globe mi davano 400 dollari a settimana. Per recuperare quella cifra, mi è bastato raggranellare più abbonati alla mia newsletter”. Adesso ha 50 mila dollari l’anno e nessuno che gli cambia i pezzi.

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L’ultimo è stato Glenn Greenwald, Premio Pulitzer: s’è licenziato. Ha lasciato il suo Intercept e si è buttato sulla sua newsletter. Qualche settimana prima di lui, Casey Newton, il Leo Messi del giornalismo tech: ha lasciato dopo sette anni The Verge e si è creato la sua Platformer. Racconterà il mondo della Silicon Valley e costerà dieci dollari al mese. Prima ancora Luke O’Neil, dimessosi dal Boston Globe dopo essersi visto cancellato un editoriale. “Al Globe mi davano 400 dollari a settimana. Per recuperare quella cifra, mi è bastato raggranellare più abbonati alla mia newsletter”. Adesso ha 50 mila dollari l’anno e nessuno che gli cambia i pezzi.

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Nel club c’è Graydon Carter, l’ex leggendario direttore di Vanity Fair edizione americana, che anziché fare consulenze di comunicazione per multinazionali della moda ha scelto di costruirsi la sua newsletter a pagamento Airmail; c’è Andrew Sullivan, che ha detto addio al New York Magazine dopo alcune tensioni con l’editore e ha creato il suo prodotto, raccogliendo 60 mila lettori ancora prima di inviare la prima mail; e c’è pure Ann Friedman, ex Rolling Stone, che ha creato un impero con la sua Ann Friedman Weekly.

 

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La corsa alla newsletter è più che altro avvincente fuga, spinta da un mercato editoriale sempre più in crisi. Negli ultimi quindici anni, il numero dei giornalisti nelle redazioni americane si è dimezzato. E nei mesi della pandemia sarebbero 30 mila quelli che sono stati mandati a casa o hanno subìto riduzioni di stipendio. Quelli più ambiziosi, con una specializzazione tematica riconosciuta e soprattutto con un potenziale pubblico di lettori, hanno iniziato a cercare uno spazio per loro stessi, e contemporaneamente un modello di business indipendente dal dominio di Google e Facebook. La newsletter, con i suoi costi d’avviamento minimi e il rapporto intimo che instaura tra autore e lettore, è sembrato il mezzo perfetto.

 

Nell’ultimo anno quelle create su Substack – la principale piattaforma per quelle a pagamento – sono aumentate di oltre il 40 per cento e hanno raggiunto complessivamente 250 mila abbonati paganti. Il prodotto forse più di successo è The Dispatch. E’ stato creato nell’ottobre scorso da Stephen Hayes, ex direttore dello scomparso Weekly Standard, e Jonah Goldberg, ex editor della National Review. I due, un po’ stanchi di come i loro giornali trattavano acriticamente Donald Trump, hanno deciso di staccarsi e creare un loro prodotto che raccontasse in modo più maturo il mondo della destra americana. Il piano che avevano in mente era quello classico: una trentina di giornalisti e un sito web. Poi hanno deciso di capovolgere la strategia. Prima la newsletter, poi i podcast, infine il sito. Un anno dopo Stephen e Johan hanno sei newsletter, tre podcast, centomila iscritti, di cui 18 mila paganti, e un fatturato da due milioni di dollari. Il giro dei soldi è semplice: gli autori offrono una serie di mail gratuite a tutti i loro iscritti, più una serie di contenuti premium riservati solo ai paganti. I prezzi variano, da 1 a 10 dollari al mese. Substack si prende il 10 per cento. “Se ti fai pagare cinque dollari al mese, ti bastano mille abbonati per mantenerti”, ha gongolato il cofondatore, sottolineando come gli autori più ricchi della piattaforma guadagnino centinaia di migliaia di dollari l’anno. Non è così facile come la dice lui.

 

Fatta eccezione per le star, pochissimi riescono a mantenersi soltanto col loro prodotto. E molti autori, per quanto felici di non avere padroni, iniziano ad accusare gli svantaggi di non avere padroni. Lavorano giorno e notte per inviare le mail in tempo, non hanno alcuna assistenza sanitaria, nessuno spazio di confronto con i colleghi e nessuna tutela legale per quello che scrivono. Uno di loro, il reporter d’assalto Kelsey McKinney, l’ha detto: bella la mia newsletter, ma col cavolo che pubblico lì le mie inchieste. Per questo i due fondatori di Substack – società nata a San Francisco nel 2017, 15 milioni di dollari raccolti, 18 persone dipendenti, nessuna sede fisica – stanno correndo ai ripari. Hanno iniziato a offrire ai loro autori un aiuto nell’editing del testo, l’accesso all’archivio fotografico di Getty Images e qualche forma di tutela sanitaria e legale. Ad alcune firme che volevano imbarcare (il parametro che usano per sceglierli è l’engagement su Twitter) hanno dato anticipi da 25 mila euro e uno stipendio minimo per i primi mesi (3 mila dollari). Secondo la Columbia Journalism Review, negli ultimi mesi “hanno iniziato il processo di reverse engineering di una media company”. Tradotto: stanno diventando di mala voglia editori. Solo, con migliaia di testate che non possiedono. Ce la faranno a sostenere le loro firme e offrire loro infrastrutture che non siano solo un buon codice Cms? Difficile. Forse la cosa migliore sul loro futuro l’ha detta Nathan Schneider, docente di media all’Università del Colorado: “Substack non creerà un nuovo modello economicamente sostenibile del giornalismo, ma potrà aprirci le porte a cose che finora non avevano neanche le porte”.

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