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Lezioni di democrazia nell’era della complessità

Ci saranno nuovi algoritmi capaci di trovare soluzioni ai vecchi problemi in modo più efficace?

Antonio Pascale

Lo stato è più che mai presente, ma occorre ripensarlo ora che l’innovazione tecnologica avanza, a volte meravigliosa, a volte inquietante. La necessità di riprendere il controllo sui big data e di una nuova alfabetizzazione. Il libro di Lorenzo Casini

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Il giurista Lorenzo Casini (è professore ordinario di Diritto amministrativo e capo di gabinetto al ministero per i Beni e le Attività culturali e per il Turismo), ha scritto un libro chiaro e interessante: Lo Stato nell’era di Google. Chiaro per quelli come me, curiosi ma ignoranti in materia e non particolarmente dotati per capacità mnemoniche, quindi incapaci di incamerare codici su codici. Meno male che Casini non si concentra sul contenuto delle norme ma spiega perché una determinata norma è stata scritta (se si comprende il perché si ricorderà più facilmente il contenuto di quella norma): quindi, appunto, la trattazione risulta chiara. Nonché interessante, perché oltre a riassumere (scusate il bisticcio) cosa è stato lo stato nei secoli, si pone il problema di cosa sarà (lo stato) ora che la globalizzazione un po’ avanza e un po’ arretra, e l’apporto tecnologico è fenomenale, e a volte meraviglioso e a volte inquietante.

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Il giurista Lorenzo Casini (è professore ordinario di Diritto amministrativo e capo di gabinetto al ministero per i Beni e le Attività culturali e per il Turismo), ha scritto un libro chiaro e interessante: Lo Stato nell’era di Google. Chiaro per quelli come me, curiosi ma ignoranti in materia e non particolarmente dotati per capacità mnemoniche, quindi incapaci di incamerare codici su codici. Meno male che Casini non si concentra sul contenuto delle norme ma spiega perché una determinata norma è stata scritta (se si comprende il perché si ricorderà più facilmente il contenuto di quella norma): quindi, appunto, la trattazione risulta chiara. Nonché interessante, perché oltre a riassumere (scusate il bisticcio) cosa è stato lo stato nei secoli, si pone il problema di cosa sarà (lo stato) ora che la globalizzazione un po’ avanza e un po’ arretra, e l’apporto tecnologico è fenomenale, e a volte meraviglioso e a volte inquietante.

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Poi, fateci caso, la questione “stato” ora è più sentita che mai, e si è a favore o contro. Certo, anche per causa della pandemia. Da un lato, guardiamo allo stato con più attenzione. Stiamo o non stiamo (almeno a suon di buone intenzioni) difendendo il Sistema sanitario nazionale (e dunque noi stessi come potenziali e si spera temporanei ospiti del suddetto) e chiedendo al welfare statale di darci una mano? Però dall’altro la pandemia attiva ossessioni antistataliste (o antisocialiste perlomeno nella destra repubblicana americana). Alcuni proprio non ce la fanno a difendere la sanità pubblica e il welfare state. E’ pretenziosa, dicono, vuole tutelare il maggior numero di vite possibili, e per farlo mette in piede una complessa e costosa organizzazione burocratico-scientifico-tecnica che drena risorse dei contribuenti (sarebbe meglio dire dei contribuenti ricchi). Altri sostengono uno stato sovranista, quasi autosufficiente, salvo poi lamentarsi che altri stati devono provvedere alle nostre esigenze (vedi immigrazione). Ma, tutto considerato, lo stato è più che mai presente e Casini lo spiega molto bene.

  

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Ma l’aspetto più interessante del libro è il ragionamento intorno al futuro dello stato. Ora che l’innovazione tecnologia è forte, ora, come si dice in apertura del libro, che Facebook definisce chi siamo, Amazon definisce cosa vogliamo e Google definisce cosa pensiamo, insomma, ora che l’importanza e l’influsso dei nuovi media (nonché la pervasività di palesi fake) è sotto gli occhi di tutti, ci si chiede: quale sarà il futuro della democrazia? Il modello democratico, lo sappiamo, presuppone l’esistenza di cittadini razionali e informati, motivati a fare buone scelte (ne va del proprio benessere o in casi, particolarmente ambiziosi, nonché ansiogeni, della propria felicità) e messi (dalle istituzioni preposte) nella condizioni di esprimere le suddette scelte. Tuttavia, la democrazia è un sistema di governo molto giovane (tranne alcune prove tecniche ad Atene nel IV secolo, è nato l’altro ieri) e noi cittadini, dal un punto di vista evolutivo, siamo troppo vecchi: portiamo il carico del passato, ovvero un sistema decisionale (e morale) formatosi millenni orsono (prima della rivoluzione agricola).

 

Dunque, siamo capaci di legiferare su noi stessi (a fatica) solo in particolari semplici situazioni. Mentre, al contrario, subiamo blocchi nel processo decisionale (con varie fallacie e imperdonabili errori), quando siamo esposti alla complessità. Ora, appunto, gli stati e la democrazia si accompagnano al capitalismo e quest’ultimo (come in un circolo che si autoalimenta) ha trasformato stato e democrazia: gli indici di complessità sono crescenti, in ogni settore. Io stesso che sto scrivendo grazie a un pc e mangiando un biscotto nella speranza di sostenere lo sforzo, non mi rendo conto del numero incredibile di persone che in questo momento mi stanno aiutando (costruendo il pc e portandomi il biscotto). Se dovessi decostruire e scomporre gli oggetti suddetti (solo un microchip del mio pc, cioè un circuito elettronico di un centimetro quadrato stampato nel silicio, è disegnato da più ditte informatiche, dislocate in più parti del globo), contando il numero di persone che li hanno realizzati, probabilmente non ci riuscirei: sono milioni, ognuno fa una parte, ognuno ha un desiderio che non conosco, un’ambizione di cui non mi importa e che difficilmente potrei immaginare.

 

Vedete, sempre la stessa cogente questione: visto il sistema decisionale vecchio (si è formato nel paleolitico e con poche scosse è arrivato fin qui), considerata anche l’età media della popolazione mondiale che irreversibilmente va verso l’invecchiamento (fra solo 10 anni gli italiani avranno un’età media di 50 anni, Russi e Cinesi 43, nel 2050 resterà giovane solo l’Africa del sud e qualche paese asiatico: democrazia è anche demografia) come sarà possibile affrontare la complessità crescente? Detta brutalmente, se io stesso ignoro chi ha prodotto il biscotto nonché le complesse ramificazioni di interessi, desideri, investimenti che costituiscono il mercato di quel biscotto, come posso deliberare in proposito? Il fatto è che fino all’altro ieri ci eravamo basati sul ciclo degli imperi, piccoli gruppi che si credono speciali in ragione di qualche credenza religiosa e fondati sugli schiavi e sulla predazione. Con qualche distinguo (e qualche momento brillante) le caratteristiche degli imperi si assomigliano, una specie di ciclo, c’è un imperatore vicino a Dio o agli dei, (teoricamente) depositario di saggezza che gode del principio di autorità e quindi, come il banco, prende tutto. Il ciclo si basava, fondamentalmente, su un altro ciclo, l’economia della scarsità: scarso credito, crescita lenta, scarsa fiducia nel futuro e di conseguenza, consegna della mia vita, qui e ora, nelle mani di qualcuno (che fosse Dio o l’imperatore).

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L’economia moderna che invece ha portato alla democrazia si fonda sul credito, sulla crescita rapida e sulla fiducia nel futuro, e dunque su alcuni valori come prosperità, benessere, autonomia. La rivoluzione scientifica ha dato una mano: scienza e democrazia vanno insieme, l’una ha fortificato l’altra. E’ la tesi di Timothy Ferris, The Science of Liberty: Democracy, Reason, and the Laws of Nature (In Italia Gilberto Corbellini ha pubblicato molti libri con una tesi simile): la scienza è stata all’origine della rivoluzione democratica, non per niente una buona parte degli scienziati che parteciparono alla rivoluzione illuminista e scientifica hanno anche contribuito all’invenzione dei diritti umani. La scienza poi è antiautoritaria, si autocorregge. Anche con l’aiuto delle discipline umanistiche, ha prodotto individui e comunità umane con una seconda natura, capaci di usare il ragionamento astratto, ipotetico e controfattuale, sia per spiegare e controllare le cause dei processi naturali, sia per progettare delle società via via più lontane dallo stato di natura.

 

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Nel nuovo percorso il nostro modo di ragionare e deliberare è cambiato. Perché la scienza ha addestrato gli uomini a usare pensiero innaturale (è innaturale pensare che giriamo attorno al sole, è innaturale pensare che discendiamo da un’unica cellula ancestrale e così via) e contemporaneamente questo pensiero innaturale ha favorito gli scambi economici e sì, il libero mercato, anche esso innaturale: gli scambi commerciali abituano al confronto razionale tra individui non appartenenti allo stesso gruppo, comunque una novità, prima, in assenza di fiducia, vigevano infatti le leggi emotive del gruppo: dunque si era abituati ad agire con la forza sugli altri, oppure a instaurare scambi a somma zero. Il mercato certo. Ma non lo capiamo ancora, è cosa recente: è un coacervo di interessi, molti nemmeno li vedi, difficile da regolare, comunque impone uno schema mentale diverso. Difatti ha cominciato a svilupparsi quando la scienza ha diffuso valori come l’autodeterminazione e le libere scelte, che sono sufficienti a creare società ordinate: allo stato divino si sostituisce quello di diritto.

 

Comunque, metti la complessità crescente, aggiungi il monopolio dell’informazione da parte di alcune piattaforme – monopolio che significa tante cose, a parte la proprietà dei dati: pensate anche solo al fatto che eventuali contenuti pericolosi possono essere rimossi soltanto dalle suddette piattaforme (Casini fa un test in classe: quanti di voi prima di accedere alle piattaforme hanno letto il contratto di accettazione? Io, per esempio, no). Considera che la tecnologia cambia le modalità di legiferare (i giudici e le amministrazioni poggiano sempre più le proprie decisioni su modelli algoritmici). Che la complessità crescente muta il concetto stesso di frontiera, quindi – sottolinea Casini – i tre elementi tradizionalmente identificati come costitutivi dello stato, ossia popolo, territorio e sovranità, sono condizionati e influenzati dalle tecnologie. Considera tutto questo ed ecco ancora la domanda: come la mettiamo con la democrazia? Cosa può fare lo stato? Casini indaga alcune linee guida e le argomenta. Una su tutte: riprendere il controllo sui big data delle persone, quanto meno in termini di regole globali e di garanzie dei singoli e delle collettività (poi sono gli stessi operatori a domandarlo, perché hanno compreso la complessità e la rilevanza dei problemi con cui sono oramai costretti a misurarsi). L’altra linea guida invece riguarda la nuova alfabetizzazione, fondamentale per barcamenarci nella complessità. Ecco, però, è qui che il mio pessimismo viene fuori: non ce la possiamo fare.

 

Quello che abbiamo capito, grazie a nuovi strumenti, psicologia cognitiva, neuroetica, è che, pur dopo i suddetti passi in avanti, non siamo diventati così razionali come alcuni filosofi hanno sperato. Ma poi molti studi mostrano che le persone più istruite non solo hanno credenze sbagliate, ma sono meno disposte a cambiare punto di vista: ci sono scienziati creazionisti, negazionisti dei cambiamenti climatici, filo omeopatia. Sui temi che polarizzano, poi, ci sono prove che gli scienziati manipolano più di chi non sa di scienza i dati pur di proteggere una tesi alla quale vogliono credere. Difficile dunque far passare la logica: meno ignoranza più democrazia. Certo, serve capire come funziona il nostro cervello: la democrazia è tutta lì. In fondo come ogni altra cosa, anche il nostro cervello è frutto della selezione naturale. Si è formato in un ambiente molto diverso, nel Pleistocene. Allora usavamo schemi di ragionamento che servivano a sopravvivere e a navigare in gruppi sociali dediti a caccia e raccolta. Certo abbiamo inventato l’agricoltura, il credito, i mercati, il diritto privato, lo stato, le megalopoli, ma gli schemi di base sono ancora quelli, del resto non siamo programmati di certo per cercare di capire come stanno i fatti: ce la siamo cavata per millenni senza sapere che non è il Sole a girare intorno alla Terra, come i nostri sensi dicono. Inoltre, era vantaggioso per i nostri antenati fidarsi di quelli del proprio gruppo, formare bande, usare le credenze per rafforzare l’identità del gruppo, ritenersi portatori di purezza o di qualche specialità, indicare l’impurità negli altri, essere xenofobi. In ragione di tutto questo, nemmeno siamo interessati alla verità ma solo a prendere decisioni o esprimere giudizi che ci soddisfano.

 

Capite bene che di fronte a questi colpi (e quella sensazioni si solitudine che proviamo) e alla complessità crescente, e alle spinte tecnologiche, ci rendiamo conto che abbiamo poco tempo per analizzare e deliberare. Spesso usiamo euristiche per prendere decisioni. Costano meno: in un mondo meno incerto e meno complesso le euristiche (che hanno una loro razionalità, diciamo così, antica) possono essere efficaci, ma via via che aumentano incertezza e complessità, le euristiche si trasformano in bias, fallacie.

 

Difficile ora capire quali sono questi percorsi educativi che dovrebbero aiutarci. Certo la logica aiuterebbe, così come la statistica: di sicuro serve introdurre un’altra formazione culturale, meno ottocentesca, ma la sensazione pessimistica resta: quanti possono farlo? E hanno voglia? Quanti sono troppo vecchi (perché l’età anagrafica conta per imparare cose nuove) o troppo poveri? Poi forse è ingiusto lanciarsi in previsioni spericolate, ma c’è da segnalare un altro scenario (credo che Casini, e non solo lui, non approverebbe): l’intelligenza artificiale.

 

Ci sono un sacco di pregiudizi e paure, ma se l’Ai diventerà, grazie all’ingegno umano, capace di fare ragionamenti controfattuali (oggi si trova a un livello cognitivo molto basso) probabilmente sarei per affidarle il governo delle mie scelte, una specie di aiuto, una integrazione. Potrebbe essere la terza natura di cui abbiamo bisogno per affrontare la sfida? L’AI non ha emozioni? Meglio! Se non ha corpo ed emozioni e desideri, perlomeno non desidera conquistare il mondo. L’etica o la capacità di distinguere quello che è giusto da quello che è sbagliato si basa su algoritmi? Ma anche noi siamo algoritmi, cioè processiamo informazioni (lo dice la biologia), dunque la domanda sacrilega che dobbiamo porci, per risolvere il conflitto di cui sopra (tra stato, democrazia e vecchi cittadini) è: ci saranno giovani e nuovi algoritmi capaci di trovare soluzioni ai vecchi problemi in modo più efficace? Di modo che noi liberati dalle scelte (e dai fastidiosi bias che queste scelte comportano e da quello apparato cognitivo vecchio stampo un po’ canaglia ed egoista che va avanti per semplificazioni basta che soddisfino rapidamente) ci possiamo dedicare a moltiplicare la nostra empatia e dunque il gusto per gli altri? Ci possiamo dedicare, allora e finalmente, alla democrazia?

 

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