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Vaccini contro la tecnofobia

Annalisa Chirico

“Solo la stupidità naturale può temere l’intelligenza artificiale”. Virus e futuro: parla Cingolani, responsabile innovazione tecnologica di Leonardo

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Non è lo Steve Jobs italiano né un Elon Musk in versione professorale: Roberto Cingolani è Roberto Cingolani. “Una bestia, essenzialmente sono una bestia, come ciascuno di noi, soltanto che spesso ce lo scordiamo, ci scordiamo di essere animali, biochimica pura, un complesso di ormoni che ci rendono soddisfatti, scontenti, tristi, esaltati eccetera eccetera”, mai una pausa nello scilinguagnolo sciolto dello scienziato italianissimo che a 58 anni ha una voce biografica sulla Treccani ma finge di non saperlo. A settembre dello scorso anno l’ad di Leonardo Alessandro Profumo ha voluto lui nel ruolo di responsabile Innovazione e Tecnologia dell’azienda leader nei settori dell’aerospazio, difesa e sicurezza. “Partiamo dai dati – ci dice il prof. in questa conversazione in esclusiva con il Foglio – Puoi pure raccoglierne una mole imponente ma se poi non sei in grado di analizzarli finiscono nel data lake. E’ come se tu occupassi la memoria dello smartphone con migliaia di foto che non utilizzi: se invece applichi un algoritmo, puoi ricostruire, che so io, il periodo in cui eri più magra o più stronza, a seconda dei casi”.

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Non è lo Steve Jobs italiano né un Elon Musk in versione professorale: Roberto Cingolani è Roberto Cingolani. “Una bestia, essenzialmente sono una bestia, come ciascuno di noi, soltanto che spesso ce lo scordiamo, ci scordiamo di essere animali, biochimica pura, un complesso di ormoni che ci rendono soddisfatti, scontenti, tristi, esaltati eccetera eccetera”, mai una pausa nello scilinguagnolo sciolto dello scienziato italianissimo che a 58 anni ha una voce biografica sulla Treccani ma finge di non saperlo. A settembre dello scorso anno l’ad di Leonardo Alessandro Profumo ha voluto lui nel ruolo di responsabile Innovazione e Tecnologia dell’azienda leader nei settori dell’aerospazio, difesa e sicurezza. “Partiamo dai dati – ci dice il prof. in questa conversazione in esclusiva con il Foglio – Puoi pure raccoglierne una mole imponente ma se poi non sei in grado di analizzarli finiscono nel data lake. E’ come se tu occupassi la memoria dello smartphone con migliaia di foto che non utilizzi: se invece applichi un algoritmo, puoi ricostruire, che so io, il periodo in cui eri più magra o più stronza, a seconda dei casi”.

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Lezione for dummies: che cos’è l’intelligenza artificiale? “E’ esattamente questo: un algoritmo applicato su grandi basi di dati. E’ il presente e il futuro. In Leonardo abbiamo realizzato un supercomputer, una delle macchine più potenti d’Europa, che ci consentirà di compiere un salto di qualità: per preservare la legacy aziendale in materia di velivoli, elettronica, difesa e cyberspazio dobbiamo restare competitivi nei mercati di riferimento e, nel contempo, puntiamo a essere all’avanguardia nelle nuove frontiere dell’IA e delle sue molteplici applicazioni. Abbiamo reclutato, per l’anno in corso, un team di 68 ricercatori che lavorerà al potenziamento dei nostri prodotti ‘tradizionali’ e al miglioramento dei servizi offerti al cliente, per esempio attraverso la manutenzione predittiva, così come allo sviluppo di nuovi strumenti come il digital design, la smart city, l’internet of things, la crittografia e la quantistica, i materiali innovativi, la robotica avanzata per diversi scopi, dall’elettrificazione del trasporto aereo di corto raggio fino agli obiettivi ambientali per ridurre l’impronta di carbonio degli aeromobili. E’ nostro obiettivo arrivare ad assumere circa 400 giovani nei prossimi tre anni”.

 

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Con il piano strategico “Be Tomorrow - Leonardo 2030”, l’azienda punta a essere motore di sviluppo, progresso e crescita ambientale, in linea con le priorità di NextGenerationEU. “Al centro si trova il Masterplan dell’Innovazione che consentirà di investire in tecnologie disruptive e trasversali a tutte le aree di business aprendo anche a nuove possibilità di mercato. Leonardo sta puntando su tecnologie che non attengono solo al core business ma trovino applicazioni più ampie, dalla connettività alla logistica integrata, dalla sanità al monitoraggio climatico e ambientale”. Curiosamente lei ha criticato Greta Thunberg, l’eroina green intoccabile. “Ho soltanto detto che l’imbarcazione con cui ha solcato l’Atlantico per raggiungere gli Usa è una macchina da Formula 1, per nulla ecologica dal punto di vista dei materiali. E il suo staff l’ha seguita su un volo di linea”. Lei come si muove? “Su aerei, auto e moto, senza sensi di colpa”.

 

In “Prevenire”, edito da Einaudi, lei, Paolo Vineis e Luca Carra descrivete “un pianeta energivoro e affollato”. “E’ un dato di fatto. Siamo quasi otto miliardi di abitanti e la Terra è strutturata per ospitarne al massimo tre. Di questo passo, non reggeremo l’incremento demografico coniugato alla crescita della domanda di energia pro-capite. Al giorno d’oggi, un americano utilizza undici kilowatt di potenza, un europeo sei, un cinese due. Questa elettricità viene prodotta a spese dell’ecosistema. Per vivere in armonia ogni individuo avrebbe bisogno in media di 2,7 ettari di terra, invece l’impronta ecologica degli umani è a 1,6. Ciò significa che, giunti ad agosto, ci stiamo mangiando e bevendo le risorse dell’anno prossimo. Al debito economico abbiamo aggiunto il debito ambientale”.

 

Tornando alle macchine, lei ha parlato dell’intelligenza collettiva dei droni. “S’immagini uno stormo di uccelli che fanno ‘swarm’, nel senso che compongono uno sciame e si muovono secondo una medesima traiettoria, con il medesimo ritmo, e adesso lei s’immagini centinaia di droni che volteggiano in cielo, nell’aere, e grazie a una sensoristica altamente specializzata trasmettono le immagini del campo da arare affinché il trattore a guida autonoma, senza conducente, sappia in che direzione muoversi mentre l’impianto di irrigazione si attiva autonomamente soltanto quando la terra è secca al punto giusto”. Lei si emoziona, professore, ma io non so se salirei su un’auto driverless, paura. “Correrebbe meno rischi che su un taxi romano, glielo assicuro. Non dobbiamo avere paura dell’intelligenza artificiale, ma della stupidità naturale”, quella sì che è perniciosa. Oggigiorno siamo in grado di riprodurre l’intelligenza collettiva di uno stormo di droni che non sono altro che sistemi autonomi intelligenti. Grazie a sistemi satellitari complessi possiamo raccogliere una mole di dati, attraverso un monitoraggio costante, che consente di prevedere il crollo di un ponte o la frana su un’autostrada”.

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Lei ha detto che la tragedia del ponte Morandi era prevedibile. “Quando dirigevo l’Istituto italiano di tecnologia a Genova, ci passavo sopra tre volte al giorno per raggiungere il laboratorio. Vibrava. Leonardo, con Telespazio ed E-geos, ha costruito negli anni un eccezionale database di immagini satellitari. Grazie alle tecnologie odierne, si presterebbero a un’analisi delle oscillazioni millimetriche di tutti i viadotti, basata su raffronti storici. Ma è lo stato che deve decidere”. Lei ha anche detto che si può pronosticare una malattia neurologica filmando come cammina una persona. “Esistono sistemi di computer vision che nelle traiettorie degli arti misurano deviazioni predittive di future patologie. Un clinico potrebbe diagnosticarle solo osservando il paziente per ventiquattr’ore consecutive”. L’intelligenza artificiale soppianterà un giorno quella umana? “Non credo che accadrà, e le spiego perché. L’essere umano ha due motori fondamentali: l’istinto di sopravvivenza per cui siamo dotati di un apparato digerente e ci nutriamo, e poi la volontà di garantire la continuità della specie che ci porta a procreare grazie al nostro apparato riproduttivo. Alla base di tutto ciò c’è la biochimica, siamo fatti di ormoni e molecole. L’homo sapiens è predatore, un essere biologicamente minaccioso. I robot non sono fatti di molecole ma di silicio e batterie. Non si nutrono, non si riproducono.

 

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Io prevedo questa evoluzione possibile: le macchine soppianteranno gli esseri umani su alcune applicazioni verticali, tipo catena di montaggio, per alcune attività di routine come la gestione della rete Bancomat sarà più conveniente impiegare un robot e non un essere umano. Sulle applicazioni orizzontali invece rimarrà il primato della biochimica e del complesso di esperienza che ciascuno di noi matura nel corso degli anni”. Il robot che versa una lacrima è roba da film? “Come le ho detto, la biochimica gioca un ruolo essenziale e, nel caso delle macchine, non c’è traccia di biochimica. Un uomo piange perché è triste o commosso in virtù di un’aspettativa preesistente. Il robot non coltiva aspettative, è uno strumento nelle mani dell’uomo. Oggigiorno investire in intelligenza, umana e artificiale, non è un centro di costo ma il miglior investimento possibile. In Leonardo sentiamo forte la consapevolezza che, tanto più in una fase delicata per la ripresa nazionale, nessuno possa esimersi dal dare il proprio contributo alla visione di un paese più digitale e competitivo”.

 

C’è poi il tema della cyberwar, della guerra che corre lungo l’onda dei byte. “Un paese deve essere resistente, resiliente, pacifico e forte. Si dice che nella prossima guerra non spareremo proiettili, ma byte, sequenze di bit. Le tecniche di cyberwar richiedono algoritmi sempre più sofisticati per difendere le infrastrutture strategiche nazionali e la vita dei cittadini. E poi c’è la conquista dello spazio”. A settembre Italia e Stati Uniti hanno siglato un’intesa per la cooperazione in questo campo e, in particolare, nel programma Artemis per riportare l’uomo sulla Luna entro il 2024. “Forniremo l’apporto tecnologico necessario alla costruzione dei sistemi di allunaggio (lander) e alla realizzazione dei moduli abitabili di superficie (shelter). L’impatto economico di questa intesa per l’industria nazionale ammonta a circa un miliardo di euro. La conquista dello Spazio sembra uno scenario avveniristico, invece è una realtà prossima: Musk investe nella realizzazione dei vettori di trasporto.

 

Ma la domanda è: chi ci mandiamo in un ambiente altamente inospitale per l’essere umano, senza acqua e senza ossigeno? Ci spediamo i robot, macchine intelligenti che preparino la prima fase di antropizzazione affinché il prossimo Cristoforo Colombo possa navigare nello Spazio senza morire di asfissia o di sete. Noi stiamo lavorando a tutto questo, le pare poco?”. No, il lavoro pare immenso e affascinante, lei è soddisfatto? “Io non sono mai soddisfatto, lo scienziato è una persona fondamentalmente inquieta. La ricerca, lo studio e la cultura sono una forma d’arte, il driver è la curiosità. Se studi al Mit di Harvard, ti obbligano ad andare fuori per un periodo, non perché esista un ateneo migliore ma perché ti fa bene visitare un ateneo diverso. Un posto diverso. I ricercatori sono assetati di cross-fertilization, di conoscenze incrociate. Certo, quando devi cambiare paese, paghi un costo esistenziale: ti molla la fidanzata, perdi la squadra di calcio… Ma la curiosità ti porta altrove perché più metabolizzi la conoscenza che già possiedi più hai bisogno di respirare aria nuova”.

 

Lei ha viaggiato tanto: dopo la laurea in Fisica a Bari e il dottorato alla Normale di Pisa, nel 1991 è divenuto membro dello staff della Max Planck Society di Stoccarda, nella Germania meridionale, sotto la direzione del premio Nobel per la Fisica Klaus von Klitzing. Inoltre, dopo avere insegnato all’Università del Salento, è stato visiting professor all’Università di Tokyo in Giappone e poi alla Virginia Commonwealth University, negli Stati Uniti. “Non mi fermo mai, è vero. Quando mi sono trasferito a Roma, un anno or sono, ho calcolato che ero al mio ventiduesimo trasloco e allestivo la mia ventiduesima casa, non male. All’estero è normale che i ricercatori si muovano, qui invece abbiamo creato un sistema che non agevola la mobilità”. Quest’anno però il Covid ci ha addomesticati alla immobilità. “La crisi pandemica ci ha sbattuto davanti un modello esistenziale frenetico e vagamene sbandato, ci siamo resi conto che tanti spostamenti a cui eravamo abituati erano semplicemente inutili e che con una videoconferenza puoi risolvere parecchi problemi. Io non sono un sostenitore della frugalità come stile di vita, ma neanche dello spreco: il meglio è ottimizzare. I disagi e le limitazioni dovute al Covid sono temporanei, è un’emergenza epidemiologica che supereremo, non è permanente ma richiede un’azione di damage mitigation. Voglio dire: i numeri dell’infezione sono pesanti in termini assoluti ma non peggiori di altre falcidie e malattie che conosciamo, ogni anno muoiono un milione e ottocentomila persone di diabete e malattie correlate, eppure non mi sembra che ci siano campagne di informazione di massa sulle conseguenze del junk food. La cosa terribile del coronavirus è l’impossibilità di abbracciare il familiare morente, il lento venir meno della vita in un isolamento coatto, il culto del defunto proibito”.

 

Lei diceva che il nostro muoverci, prima della comparsa del virus, era compulsivo, malsano. “Esatto. La mobilità a cui dovremmo aspirare è quella di medio-lungo periodo che serve a conoscere sistemi diversi, posti diversi, persone diverse. Il Covid ci ha fatto scoprire che ciò che pensavamo una conquista è invece un potente veicolo di contagio”. Tutte le tecnologie hanno un dark side? “In realtà, non hanno alcun side, sono soltanto strumenti che poi l’uomo può usare per uno scopo positivo o negativo. Un utente non consapevole dei rischi collegati all’utilizzo di una tecnologia è pericoloso. Se usi i social network in modo sbagliato è come se salissi su una ruspa senza saperla manovrare: paghi pegno. Se giochi alla slot machine e diventi ludopatico, la colpa non è della macchina ma è tua. L’utente è un homo sapiens, perciò non mi spiego perché si debbano seguire corsi per guidare l’automobile e poi si permetta a chiunque di utilizzare Facebook o Instagram senza la minima consapevolezza”. Siamo analfabeti digitali, eh sì. “Lo siamo, la maggior parte di noi si approccia a pc e smartphone senza la capacità di gestire il rapporto con questi strumenti. Sin dalle elementari, dovremmo prevedere corsi di Digital Humanities perché l’innovatore inizia a sei anni, soltanto così potremo dominare le macchine senza lasciarci dominare da esse”.

 

Lei come fa a non soccombere al potere della ram di silicio? “Sono un eremita digitale: non esiste videogioco o diavoleria tecnologica che possa farmi rinunciare al beneficio che traggo dal sentirmi parte del sistema biochimico. Molecole e ormoni. Io sono una bestia, come un cane che vuole correre, e uso questi aggeggi per quello che mi servono. Fosse per me, mi basterebbero le email e il telefono fisso, per lavoro invece mi tocca usare anche lo smartphone. Per me essere social significa parlare con quattro persone seduti attorno a un tavolo”. Il fatto è che esistono macchine e macchine: un robot alla guida di un veicolo è diverso da una zappa che scava il solco nel terreno. “Per la prima volta nella storia umana abbiamo creato una macchina che risolve un algoritmo e attua un movimento, per la prima volta la competizione non è sulla forza bruta ma sulla capacità di pensare. Tuttavia ciò non vuol dire che le macchine pensino: la capacità di calcolo non va confusa con la capacità di pensiero esperto”. Lei lamenta l’atrofizzazione del sistema educativo, la sua incapacità di essere al passo con i tempi. “Serve una gigantesca opera di aggiornamento, a partire dal corpo insegnante. Etica, diritto e filosofia sono le tre grandi materie che ci proiettano in un futuro in cui sempre di più le competenze del giurisprudente e del computer scientist si intrecceranno per risolvere i quesiti giuridici legati all’innovazione tecnologica. Una conoscenza statica e immutabile rischia di tagliarci fuori dalla competizione globale.

 

Abbiamo bisogno di un sapere cross-fertilizzato, altrimenti resteremo imprigionati in un paradosso: sviluppiamo strumenti via via più potenti sul piano tecnologico in un mondo che ci trova incredibilmente disarmati sul piano culturale”. Lei desidera vivere a lungo? “Mi dispiace l’idea di morire, sì, ma mi fa imbestialire ancor di più l’idea che lavoro ogni giorno per un futuro che non vedrò mai. Nei confronti delle prossime generazioni accumuliamo un enorme debito economico, ambientale e cognitivo: elaboriamo modelli climatici sofisticati per sapere come sarà il tempo nel weekend, e poi non sviluppiamo un modello predittivo per capire che cosa accadrà ai nostri figli”.

 

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