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Dal nuovo mondo

Gaia Manzini

Ciò che appare e ciò che scompare quando prendiamo in mano uno smartphone. Catalogo degli oggetti che il web ha cancellato

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Non so mai l’ora, non la controllo compulsivamente. Non ci penso al tempo; o meglio, credo di non pensarci. Mentre guido cerco il conforto dell’orologio pubblico. È un automatismo nostalgico, lo so, non credo che qualcuno sotto i quaranta lo faccia ancora. Cerco l’orologio con le lancette, alto, verde, dritto al lato del marciapiede. Lo trovo, solitario dietro a un albero: segna le sette, ma io sto rientrando a casa dal cinema, primo spettacolo. Potrei controllare sul telefonino, ma il telefonino l’ho dimenticato a casa, e certo non porto più l’orologio da polso. Gli orologi pubblici sono come i galli e le campane; come le sveglie, i promemoria, i blocknotes, i cercapersone. Nessuno si affida più a loro. Negletti, ai lati delle strade, nessuno li sincronizza più; o forse qualcuno lo fa, ma non così bene, sicuramente non come una volta.

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Non so mai l’ora, non la controllo compulsivamente. Non ci penso al tempo; o meglio, credo di non pensarci. Mentre guido cerco il conforto dell’orologio pubblico. È un automatismo nostalgico, lo so, non credo che qualcuno sotto i quaranta lo faccia ancora. Cerco l’orologio con le lancette, alto, verde, dritto al lato del marciapiede. Lo trovo, solitario dietro a un albero: segna le sette, ma io sto rientrando a casa dal cinema, primo spettacolo. Potrei controllare sul telefonino, ma il telefonino l’ho dimenticato a casa, e certo non porto più l’orologio da polso. Gli orologi pubblici sono come i galli e le campane; come le sveglie, i promemoria, i blocknotes, i cercapersone. Nessuno si affida più a loro. Negletti, ai lati delle strade, nessuno li sincronizza più; o forse qualcuno lo fa, ma non così bene, sicuramente non come una volta.

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Il tempo è cambiato. Ogni sera alle 19 e 59 mio padre aspettava sempre L’ora esatta della tivvù, con il suo Longines in mano; l’amico toscano tendeva l’orecchio “al tocco”, la campana che annuncia l’ora di pranzo. Gesti fuori moda, trascurabili, bellissimi. Il tempo non è più dei segnali radio o del 4261 – il numero telefonico per conoscere l’ora esatta; il tempo è dei server. Dai server l’ora esatta arriva al computer e al telefonino senza perdere un centesimo di secondo, anche se è scattata l’ora legale. Come l’orologio pubblico è ormai la cabina telefonica, e in parte il telefono fisso. Perduti, scomparsi. Seduti in treno, un libro, forse due. Il vicino apre il computer, la ragazza tiene di continuo il telefonino sotto gli occhi, non alza mai la testa. Qualcuno parla, ma ha gli auricolari: stasera a cena ne parliamo… la riunione male, l’ad è stato licenziato, si aspettano nuove cariche… a Roma si stava bene, neanche una nuvola.

 

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Chi parla lo fa anche per tutto il viaggio, ma sono parole che si disperdono nell’aria, che rotolano nel vuoto. E allora anche le chiacchiere tra sconosciuti sono un po’ come gli orologi pubblici: una rarità. Sempre più spesso, qualunque sia la nostra esigenza – leggere un libro, prenotare un taxi, cercare una casa, ordinare del cibo, guardare un programma televisivo o una serie, cercare un indirizzo, chiacchierare con qualcuno – finiamo col ritrovarci con un telefono in mano. Il mento incassato, gli occhi verso il basso, il collo e le spalle piegati in quella posizione innaturale. In The Social Dilemma, il documentario di Jeff Orlowski arrivato da poco su Netflix, l’ex “design ethicist” di Google Tristan Harris (ora co-fondatore del Center for Human Technology) descrive perfettamente quello che i social rappresentano: un’utopia e al contempo una distopia. Perché li amiamo e li odiamo; sappiamo che sono geniali, ma anche estremamente pericolosi, e se abbiamo dei figli istintivamente li teniamo alla larga finché riusciamo, finché – pensiamo – non sarà troppo tardi.

 

Il capitalismo del controllo prevede che tutto quello che fornisce la rete sia accattivante e gratuito, che crei dipendenza e ci costringa a tornare sempre lì, di continuo, con un senso di vacua soddisfazione perché la rete ci dà sempre quello che vogliamo: le informazioni, i suggerimenti d’acquisto, le risposte giuste. Ogni nostro desiderio, senza che ce ne accorgessimo, è finito intanto in un algoritmo. La merce siamo noi: è la nostra attenzione. Tristan Harris ha studiato a Standford etica della persuasione, è andato via da Google quando ha capito che non avrebbe mai convinto i suoi capi ad assumersi la responsabilità di quello che stava accadendo. I pentiti della rete intervistati da Orlowski sono tanti: giovani che hanno lavorato e progettato Facebook, Pinterest, Instagram. Le loro parole non fanno che confermare un’impressione condivisa: è come se fossimo presi tutti da un incantesimo.

 

Se vedo i puntini di sospensione della persona che sta scrivendo, non riesco a staccare gli occhi da Whatsapp; non riesco a evitare di guardare Facebook, se ho appena fatto un post: a ogni like, a ogni cuore c’è un languore, un’ondata di dopamina che ti fa rimanere il più a lungo possibile attaccato al telefono o al computer – e ci rimani anche se sai che è una seduzione: un modo per sottoporti più a lungo messaggi pubblicitari calibrati perfettamente su di te, sul tipo di target che rappresenti. Ormai non esiste più la difficoltà di reperire informazioni, non davvero. Ammetto di aver spesso consultato Google come se fosse un oracolo, con quella sensazione lì, con quella formulazione di quesiti ingenua e disorientata di chi è convinto di essere al cospetto di un qualche potere divinatorio. Ma oltre all’incantesimo, alla seduzione, alla distrazione ipnotica dei device, c’è anche un effetto secondario: un trucco da illusionisti.

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Mia figlia, nativa digitale, a soli quattro anni, la sua camminata trotterellante, le sue mani protese nel vuoto, si avvicinava sempre al televisore, lo voleva toccare, poi rimaneva delusa che lo schermo non reagisse ai suoi polpastrelli. Se la tv non è touch è come se non servisse, come se fosse diventata trascurabile, evanescente. Finché ogni nostro desiderio finisce in un algoritmo, il mondo intorno a noi scompare poco a poco. Oltre agli orologi, alle cabine telefoniche e alle chiacchiere tra sconosciuti, scompaiono i ristoranti perché posso ordinare con Glovo, scompaiono le stazioni dei taxi perché posso chiamarli con l’app, scompaiono le enciclopedie cartacee perché le trovo on line; scompaiono i giornali, i libri con le pagine profumate di stampa. Nelle nostre case potrebbero tranquillamente scomparire le radio, le televisioni, gli stereo ridotti ormai al rango i grammofoni. Fuori dalle nostre case i consultori, i club, le agenzie di viaggio.

 

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Scompaiono anche i rituali di buon vicinato: con la domotica non ho bisogno di qualcuno che controlli casa quando non ci sono. Tutto sta nelle mie mani e dentro alla rete: tutto c’è, e non c’è. Solo noi non scompariamo mai: i nostri profili, le nostre foto, il nostro nome declinato in ID varie ed eventuali. Che mondo è quello che aspetta mia figlia? In una delle immagini esposte alla Saatchi Gallery qualche anno fa per la mostra From Selfie to Self-Expression, tra i celeberrimi autoritratti di Van Gogh, Rembrandt, Frida Kahlo e quelli contemporanei di Stanley Kubrick, Francis Bacon, Tracy Emi, ce n’era uno più significativo di altri. Era quello di Nan Goldin che s’intitola Nan one month after being battered: il viso truccato, la pettinatura studiata, un occhio nero con un versamento di sangue. L’immagine è molto più di un’immagine. Serve a ricordare, o meglio a non dimenticare, e a passare oltre. La violenza subita c’è stata, ma ce la si può lasciare alle spalle.

 

L’atto di pensare a un selfie viaggia sui binari del processo creativo della rappresentazione di sé: ha un che di artistico. Mi autoritraggo perché c’è qualcosa da celebrare: mi sono laureato, ho rincontrato un’amica, sono innamorata, sto facendo una vacanza stupenda, guardate a che festa mi hanno invitato, sono bellissima, ho delle gambe formidabili. Mi autoritraggo perché in quel momento sono felice, e me ne voglio ricordare. Eppure la consapevolezza nasce dal voler ricordare anche i momenti che non sono stati felici, dall’esigenza di mettere a fuoco ciò che non si conosce di sé, quello che sfugge. La faccia tumefatta di Nan Goldin è un punto di domanda: perché mi sono ridotta a tanto? Oltre ai lividi, io chi sono? Per strada delle ragazzine si pettinano, arricciano le labbra prima di farsi un selfie; un manager in giacca e cravatta scatta una foto mentre sosta davanti alla vetrina di uno stilista famoso; una donna di mezza età si accosta al quadro celeberrimo e scatta prima di inviare l’immagine chissà a chi.

 

Ritrarsi risponde da sempre a un’esigenza profonda, un’esigenza umana. Selfie, parola dell’anno 2013 in inglese e 2014 in italiano. Da quasi dieci anni parole e gesto di ogni giorno. A ogni angolo di strada c’è qualcuno che si fa un selfie. Sull’autobus, in treno. Al ristorante, sempre. Quando controllo le migliaia di foto che ho nel telefono, trovo regolarmente delle sequenze di selfie scattati di nascosto da mia figlia fin dai suoi sei anni (oggi ne ha dieci). L’illusionismo continua. Se la pratica è diffusa, ecco che nel censimento delle cose scomparse si aggiungono i portafoto e le foto stesse, perché nessuno le sviluppa e le stampa quasi più. Figuriamoci le camere oscure e le macchine fotografiche manuali. Basta con le diapositive e, per fortuna, basta con le serate a casa di amici costretti a guardare i mille scatti di una vacanza alle Canarie.

 

Le foto che scattiamo rimangono nella rete e nei cellulari, sono come immagini mentali, e chi le deve vedere non è sicuramente qualcuno che invitiamo a casa, gli amici che vengono a cena o quelli che passano per un caffè. Quelli che devono vederle, quelli a cui le mostriamo sono tanti – o tantissimi a seconda dei casi – sono i nostri follower. Stanno dentro gli algoritmi. Ci sono e non ci sono. In The Social Dilemma le voci degli esperti si alternano a una mini fiction che rappresenta una famiglia americana alle prese con la dipendenza da cellulari e con gli effetti negativi che i social hanno, in maniera diversa, su due dei figli. Il ragazzo che sta al liceo è soggiogato dal sensazionalismo e dalle fake news; la ragazzina preadolescente, invece, è vittima del confronto con le coetanee e della ricerca di consenso su Instagram: totalmente dipendente dalla dopamina che sprigionano i neuroni della ricompensa.

 

Nella pratica del selfie, siamo dentro e fuori dalla foto. Siamo soggetto e oggetto. Chi continua a fare selfie si oggettivizza senza sosta. Guarda: questo sono io! Sono così, sono simpatica, sono sexy, sono intelligente, sono piena di amici, sono trasgressiva ma anche tenera, sono una campionessa di pallavolo o un’abile ballerina, assomiglio a mia madre, mi piace il vento, il mare, la neve. Sono così. E anche così, ma poi pure così. Ruoli, pose differenti che sortiscono reazioni altrettanto differenti. Per chi si sta costruendo un’identità - per gli adolescenti - il selfie è una specie di prova generale di sé possibili. Uno degli strumenti più efficaci per definire creativamente l’identità sociale. “Detto in altre parole, con i selfie sono io che scelgo chi voglio essere, che mi presento come voglio”. Ci sono io e c’è quello che vorrei diventare (Giuseppe Riva, Selfie, Il Mulino).

 

Quello che non funziona è l’esposizione continua al giudizio degli altri, che indebolisce, che rende insicuri, soprattutto se si è ancora giovani o giovanissimi; che ci fa dipendere in un’età delicata da un gruppo di amici che non vedo, non sento, non tocco. Che sono lì e non sono lì. E tutto perché i signori del web vogliono che io stia più tempo possibile sui social, che mi esponga più a lungo possibile ai messaggi pubblicitari. Ma se non ci sono più gli amici di una volta, se il fare gruppo è una pratica virtuale, allora destinati all’estinzione sono anche i muretti, le panchine, le piazze dove ci si riuniva da ragazzi. Se ci mandiamo solo whatsapp, sono belli che finiti anche i bigliettini accartocciati e appallottolati in una mano e poi lanciati al destinatario più o meno di nascosto. Non varrà lo sforzo andare fino a Ponte Milvio per appendere il proprio lucchetto d’amore. Addio incisioni sulle cortecce degli alberi, sui banchi di scuola, sui sedili della metropolitana.

 

A mia figlia all’asilo era stato chiesto di farsi un autoritratto. C’è lei al centro del foglio alta (non è alta), braccia lunghissime, bocca a cuore grande come metà faccia, capelli lunghi e fluenti (porta da sempre il caschetto), la coda da sirena. C’è lei come si percepisce e lei come vorrebbe essere percepita, in alchemico equilibrio tra il dentro e il fuori. È uno spazio piccolo, un sussurro veloce in cui possiamo prendere contatto con le nostre emozioni. E lì, in bilico: serve a costruire la nostra identità, ma solo se impariamo ad arginare le scosse che arrivano dal giudizio altrui, dai loro like o dai loro cuori. Ho rivisto on line la TED conference di Cristina Nuñez, fotografa e artista spagnola: Cristina Nuñez è un’ex tossicodipendente che ha trovato la forza di uscire da se stessa – e tornare a se stessa – grazie agli autoscatti.

 

Il self-potrait ha una forza inaudita, ci mette sulla strada della conoscenza e della accettazione di sé. Distanza che genera sapere, messa a fuoco che fa uscire dalla sofferenza. I suoi eccezionali workshop vanno oltre la pratica artistica, diventano strumento di autoterapia. La consapevolezza: è quella che fa la differenza. Non esistono più le serenate, non le chiacchiere casuali, neanche la noia; non esiste la possibilità di nascondersi, scomparire, non farsi sentire per un po’ per difendersi, per solidificarsi. Non esistono più le pause, tanto meno il silenzio. Tutto è stato sostituito dalla miriade di informazioni che ci arriva dalla rete. Ma se tutto è informazione, pochissimo è conoscenza - ancor meno conoscenza diretta, fisica, sensoriale, del mondo. Tutto ciò che è in assenza cospira contro di noi, cerca di manipolarci, ma noi possiamo sempre cambiare. Possiamo parlarne e continuare a parlarne per non diventare strumenti dei nostri strumenti. Prendere distanza. Almeno questo non può togliercelo nessuno.

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