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Perché l’Europa è al bivio nella Guerra fredda dei microchip

Giulia Pastorella

Cina e Stati Uniti si sfidano per l’egemonia tecnologica. Per non restare schiacciata l’Ue deve sviluppare una sua industria

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Sono piccoli, invisibili ai più, eppure senza di loro il nostro mondo interconnesso non potrebbe funzionare. Si tratta dei “chip”, mattoni fondamentali dei nostri dispositivi, che grazie a materiali semiconduttori permettono processare e elaborare segnali elettrici. Ora questi piccoli ma essenziali componenti sono al centro dell’ultima battaglia della guerra fredda tecnologica sino-statunitense – che sta già creando non pochi problemi per l’Europa.

     

La scorsa settimana il presidente americano Donald Trump ha infatti deciso di bloccare le forniture di chip con tecnologia americana alla cinese Huawei. Siccome al momento qualsiasi chip di fascia alta nel mondo richiede almeno un po’ di tecnologia statunitense (design, brevetti, componenti, materiali o software) per essere realizzato, Huawei potrebbe terminare le proprie scorte di chip di fascia alta già a inizio 2021.

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Chiaramente gli Stati Uniti vogliono colpire in primis la Cina nel suo punto debole, visto che Pechino, nonostante investimenti massicci – più di 200 miliardi nei passati 5 anni– non ha ancora le capacità di produrre chip di fascia alta (al momento sono prodotti da sole tre aziende: la statunitense Intel, la coreana Samsung e la taiwanese Tsmc). Ma questa mossa rappresenta un enorme problema anche e soprattutto per l’Europa.

    

L’Europa nel fuoco tech incrociato sino-statunitense

Gli operatori europei che si affidano a Huawei dovranno riconsiderare infatti i loro piani di continuità aziendale in seguito alla mossa americana. Le restrizioni statunitensi sui chip per Huawei potrebbero tradursi in ritardi e costi aggiuntivi per l’implementazione del 5G in Europa – mettendo potenzialmente il blocco ancora più indietro rispetto ai rivali economici sulle nuove reti. L’Unione europea aveva accettato a gennaio di ridurre la sua dipendenza dalle apparecchiature cinesi per le future reti 5G, ma le capitali nazionali hanno interpretato in modo diverso l’urgenza. Alcune, come Polonia e Repubblica Ceca, stanno seguendo la linea statunitense per impedire l’accesso di Huawei al loro mercato. Altri, come la Francia, vogliono eliminare gradualmente l’azienda dal proprio mercato, mentre Germania e Spagna stanno ancora cercando un compromesso. L’Italia è nel mezzo: il governo Conte II, con il Dpcm del 7 agosto, ha nella pratica permesso l’installazione e messa in esercizio di apparati Huawei ma obbliga le telco come Tim a verificare che siano rispondenti alle norme del decreto “Golden power”, oltre a una serie di altri obblighi sui contratti per evitare per esempio che ci siano dati comunicati ad autorità governative estere, o per assicurare accesso a codice sorgente dei materiali Huawei per verifica.  

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L’incertezza che circonda Huawei, ancora di più dopo questa ultima mossa dei chip, lascia gli operatori europei di telecomunicazione a un bivio: passare ad alternative come la finlandese Nokia o la svedese Ericsson – aumentando i costi – o sperare che un cambio di presidenza americana fermi questa escalation folle di dazi e divieti verso una politica commerciale più prevedibile?

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Il mercato dei chip: tra monopoli e vulnerabilità strategiche

Facciamo qualche passo indietro per capire come si è arrivati fino a qu,i ma soprattutto cosa rischia – e cosa può fare – l’Europa. L’industria dei chip si è evoluta secondo il principio di “Smaller, faster and cheaper”. L’ obiettivo è stato di rendere questi chip più piccoli, più rapidi e meno cari. In questi anni l’industria si è consolidata. Aziende statunitensi detengono importanti monopoli sulla tecnologia necessaria per produrre microchip con alta performance mentre le aziende sudcoreane e giapponesi occupano posizioni chiave nella supply chain. E la Cina sta aumentando la sua capacità di produrre chip grazie a massicci investimenti pubblici e privati, parte del programma Made in China 2025.

L’Europa, in tutto questo, è rimasta completamente fuori dai giochi, esponendo il fianco a quella che è chiaramente una vulnerabilità strategica: la mancanza di una capacità propria di design e produzione di chip. Al momento l’Europa ha una presenza in questo mercato di circa il 10 per cento, paragonato al 47 per cento americano o 19 per cento sud-coreano. Thierry Breton, Commissario per la politica industriale europea, a luglio ha sottolineato che “senza una capacità europea autonoma sulla microelettronica, non ci sarà alcuna sovranità digitale europea”. Il suo obiettivo? Raggiungere almeno il 20 per cento della capacità mondiale in valore.

     

I chip come mattoni fondamentali della sovranità tecnologica europea

Come nel caso – portato alla ribalta dal Covid – delle medicine, anche nel mondo dei chip la dipendenza europea da industrie estere è sempre più evidente. Per ovviare a questa dipendenza la Commissione europea vuole investire 20-30 miliardi di fondi pubblici e privati in questo settore, che ora è stato aggiunto alla lista di “tecnologie abilitanti chiavi” per il vecchio continente.

Tuttavia, le aziende europee hanno molta strada da fare per recuperare il ritardo, e potrebbero richiedere investimenti di scala molto maggiore rispetto a quelli proposti dalla Commissione europea. Anche se alcune aziende europee si sono ritagliate nicchie nel mondo dei chips, in particolare per il settore automotive, non ce ne sono in grado di progettare o tanto meno produrre le ultime generazioni di chip che servono per AI (intelligenza artificiale), cloud computing, o telecomunicazioni.

Quindi ben venga l’intenzione della sovranità tecnologica europea e dell’indipendenza dai due giganti della guerra fredda tecnologica, ma richiederà investimenti massicci a lungo termine laddove l’economia europea fatica a riprendersi dal baratro in cui l’ha gettata la pandemia, e un coordinamento tra stati per mettere a sistema le competenze di ricerca laddove la competizione regna sovrana. Serve ora più che mai una volontà politica abbastanza forte per superare questi ostacoli e per far sì che l’Europa non resti ancora una volta indietro – o peggio, esclusa.

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